Datemi una distesa di strade e viali
Datemi più controllo delle nascite
Datemi tante case e mura
Datemi una carta su cui disegnare
Per anni dopo la formulazione della proposta di Howard, il concetto di città giardino o città nuova venne considerato quasi generalmente come un ideale, meraviglioso quanto tristemente irrealizzabile: troppo bello per essere vero. Da quando se ne è dimostrata la realizzazione pratica, l’opposizione si è manifestata in alcuni settori di opinione pubblica molto ben politicamente rappresentati, tanto organizzati ed efficienti quanto angusti nella visione sociale ed economica. Che con la loro propaganda hanno diffuso la convinzione secondo cui realizzare nuove città avrebbe comportato enormi e disordinati sacrifici di terreni agricoli, messo a rischio la sicurezza alimentare, devastato il paesaggio delle campagne. Ad evitare questo disastro, si sostiene, i cittadini della Gran Bretagna presente e futura andrebbero alloggiati o eventualmente trasferiti seguendo una logica di compattezza, vale a dire principalmente in edifici alti ad appartamenti a densità il più possibile elevate. Preoccupazioni e proposte tutte che hanno condizionato profondamente le politiche urbanistiche e per la casa, ma che peccano di una errata prospettiva di proporzioni. È nostra intenzione riportarla a termini più corretti.
Il tema del «risparmio di suolo»
Nessuno intende discutere il fatto che sia sempre auspicabile una economia nei consumi di risorse, nel caso specifico del suolo. Né si può negare che al crescere della densità delle nuove trasformazioni urbane corrisponda una minore sottrazione di superfici all’agricoltura, ai boschi, e ad altri spazi non edificati. Quindi necessariamente esiste un certo conflitto di interessi tra i cittadini che vivono in spazi sovraffollati e ne avrebbero bisogno di più per abitare, e chi abita in campagna (contadini e altri residenti) che vorrebbero evitare l’edificazione di quante più superfici possibile.
Un conflitto che cresce al crescere della popolazione. Visto che in qualche modo una espansione urbana deve avvenire, però, creare nuove città oppure allargare nuclei minori già esistenti, specie in zone con poca e sparsa popolazione, porta alla campagna considerevoli vantaggi. Peccato che proprio e soprattutto dai difensori dell’integrità delle campagne vengano molti più attacchi alle nuove città che non allo storico sprawl suburbano, nonostante quelle nuove città siano assai più «compatte» di qualunque suburbio. Senza dubbio ciò accade anche perché l’avanzata sparsa suburbana avviene assorbendo superfici già «deprezzate di bellezza» dalla prossimità di qualche recente trasformazione, mentre la nuova città viene percepita come deliberata spesso addirittura prepotente incursione in paesaggi rurali integri. In pratica si teme una invasione di truppe d’assalto urbane.
Quando venne pubblicato per la prima volta il prezioso Land Utilisation Survey del dottor Dudley Stamp, si sosteneva la necessità di fare ogni sforzo possibile per evitare di costruire su quelle relativamente piccole superfici di altissima qualità (6-8% di Inghilterra e Galles). In seguito però quell’embargo si allargò a tutte le «buone superfici agricole» (44,2%) il che rende la localizzazione di nuovo edificato una corsa ad ostacoli impossibile. Ed esiste anche una tendenza «ultra-conservazionista» alla spinta per maggiori densità urbane «sviluppate in altezza» a risparmiare ogni centimetro di superficie rurale. Un atteggiamento che giudichiamo davvero disumano oltre che male informato.
La quantità di superficie rurale che si risparmia «costruendo verso l’alto» è stata spropositatamente esagerata. Qualche stima della popolazione britannica superconcentrata nelle città che dovrebbe essere redistribuita la fa variare da uno a tre milioni di persone, col massimo solo teorico. Se anche dovessimo arrivare a tre milioni di abitanti rialloggiati in nuove città (o espansioni di piccoli nuclei esistenti) dove ci sono anche posti di lavoro, spazi aperti, servizi, si consumerebbero calcolando circa 36 persone su ciascun ettaro urbanizzato più o meno ottantamila ettari. Bisogna ovviamente aggiungere le superfici urbane necessarie per incremento di popolazione, che oggi diamo da 5 a 7 milioni sui prossimi vent’anni. Consentendo una trasformazione-ricostruzione compatta nelle città esistenti là dove è consentito da densità oggi piuttosto basse (e secondo i medesimi criteri che usiamo con le new town) questo incremento di popolazione interesserebbe altri centosessantamila ettari. In tutto quindi 240.000 ettari di sviluppo urbano su vent’anni. Ci sono altre forme di sottrazione del territorio rurale – dalle strade alle miniere agli aeroporti o bacini idrici – ma si tratta di quantità relativamente minori.
Non abbiamo dati precisi sull’uso del suolo in Gran Bretagna ma grosso modo nel 1962 si articolava come segue (valore assoluto in migliaia di ettari, valore percentuale):
Coltivata (anche a erba) | 11533 | 50,7 |
Pascolo libero | 7082 | 31,1 |
Boschi | 1618 | 7,1 |
Totale «non urbano» |
20233 |
88,9 |
Città e piccoli nuclei | 1214 | 5,4 |
Insediamento sparso | 263 | 1,2 |
Strade e ferrovie | 283 | 1,2 |
Varie | 750 | 3,3 |
Totale |
22743 |
100 |
Sul totale di superficie rurale una crescita di 10 milioni di abitanti con criteri di densità da new town consuma circa l’1,5%. In Inghilterra e Galles considerati separatamente la percentuale cresce un po’ a raggiungere forse il 2%. Ciò che i sostenitori dello «sviluppo in altezza» forse non colgono è la dimensione del tutto trascurabile di quanto si risparmierebbe utilizzando il loro espediente, senza calcolare gli smisurati costi finanziari.
I risparmiatori di suolo propongono sempre di tagliare superfici per le case. Pochissimi ritengono che lo si possa praticare riducendo quello per le fabbriche, commercio, servizi. Se alloggiassimo un milione di persone che risiedono in città (300.000 famiglie) in complessi sviluppati in altezza anziché più bassi in linea e a schiera, con densità quindi di un terzo per unità di superficie, si risparmierebbero 5333 ettari, una percentuale minima. Il tutto a fronte di costi che crescono sino a 240 milioni di sterline, che calcolati in affitti sostenuti dal Governo sono un carico aggiuntivo enorme (il calcolo può apparire stravagante e surreale ma lasciamo al lettore la verifica: 45.000 sterline per ciascun «ettaro salvato»).
Nuove Città e produzione alimentare
L’ipotesi del tutto teorica che un decentramento per città nuove potesse mettere a rischio la produzione alimentare britannica è quanto per anni è stato ripetutamente sostenuto dai portavoce del mondo agricolo, in particolare con una certa decisione dalla National Farmers’ Union. Si sono pubblicati dati allarmanti sulle quantità di patate, latte, pagnotte, cosciotti di agnello perduti per sempre insieme a qualche centinaio di ettari di suolo agricolo destinato a abitazioni, senza alcuna attenzione né a quanto prodotto dagli orti urbani né ai costi spropositati dell’alternativa delle trasformazioni dentro le città. Il terrore così creato è stato almeno diradato da alcuni recenti studi di esperti dello Wye Agricultural College, ma continua ad opprimere la mente di molte persone. Di nuovo qui l’errore sta nel percepire le proporzioni. Il prodotto nazionale lordo agricolo britannico calcolato tra le annate 1937/38 e 1960/61 (23 anni) è cresciuto del 60% a prezzi del 1945-46, nonostante una diminuzione della superficie coltivata di circa 295.000 ettari ovvero del 2,5% del totale. Nel medesimo periodo la superficie a pascolo libero come mostrano i dati ai medesimi criteri è aumentata di 656.000 ettari e quella a boschi di 251.000 ettari.
Negli ultimi dieci anni (1952/1962) la produzione agricola totale è cresciuta annualmente del 2,5% mentre contemporaneamente la sottrazione di suolo per urbanizzazione era di 12.000-16.000 ettari l’anno, e non tutta da terreni di qualità agricola superiore o lavorati, ma comunque meno dello 0,141%. Sul totale di superficie agricola lavorata, pascoli e boschi si calcola una sottrazione dello 0,08% annuale che su un arco di 20 anni diventa l’1,6%. Una impressione diffusa, causata dalla propaganda allarmista, è che i terreni agricoli britannici si stiano esaurendo a velocità catastrofica, impressione ulteriormente rafforzata da fatto di osservare in ambiti ristretti. La perdita percentuale è certamente maggiore della media citata per esempio nel Sud-Est inglese o nelle West Midlands. Il che non cambia nel complesso gli equilibri dal punto di vista della produzione alimentare, ma di sicuro ci indica la necessità di un migliore governo ed eventuale inversione degli sviluppi demografici e urbani di queste aree.
Produzione alimentare dagli orti domestici
Confrontando lo «sviluppo in altezza» con le basse densità non si deve escludere dal calcolo la produzione alimentare degli orti. Certo queste coltivazioni casalinghe possono avere oggi meno importanza economica per la media delle famiglie di quanta non ne avessero un tempo, ma restano comunque essenziali; e non è detto che non possano crescere ancora in caso di guerra o periodi di disoccupazione. A densità di trecento persone ettaro e oltre (in appartamenti) c’è poca o nulla produzione da orti. Ma a poco più di cento abitanti ettaro la produzione di 14 orti può arrivare a un valore (facendo una stima molto prudente) a oltre 180 sterline l’anno per ciascun ettaro residenziale. Il prodotto dell’orticoltura britannica per l’annata 1960/61 in media è di 120 sterline l’anno per ettaro di terra agricola lavorata senza calcolare il pascolo libero. È vero che il prodotto degli orti viene calcolato al valore al dettaglio e quello agricolo alla fonte; ma la cosa si deve al fatto che per il primo non ci sono i costi di distribuzione e trasporto. Poi il coltivatore di orti domestici non riceve il sostegno pubblico di 27 sterline l’ettaro dell’agricoltore che era compreso non prodotto citato sopra.
Paesaggio e bellezze naturali
Gli osservatori più sensibili negli ultimi decenni hanno avuto ragione di indignarsi per il degrado di tante vedute in varie zone della Gran Bretagna, ne è nata una forte opinione in difesa delle bellezze naturali della campagna e per attenuare le brutture delle città. Con l’impulso del National Trust, che tutela alcuni edifici e luoghi di particolare interesse estetico e valore storico, a cui si aggiungono l’impegno di Preservation Rural England Wales and Scotland, e più recentemente il Civic Trust di Duncan Sandy, questo movimento ha fatto molto per sensibilizzare un paese un po’ distratto sui danni inflitti al suo paesaggio. Il che avviene in molti modi: edifici mal collocati, architetture mal progettate da incompetenti, lavori minerari abbandonati, discariche, insediamenti militari, cartelloni pubblicitari, abbandono o distruzione degli alberi e via dicendo. Il movimento di tutela ha coinvolto molti prestigiosi esponenti della cultura, della politica, della letteratura, e oggi ha una immensa influenza nel suo nobile obiettivo di preservare e valorizzare paesaggio e ambiente.
Ma purtroppo il termine «bellezza naturale» è spesso usato in termini a dir poco vaghi. Astrazione senza significato preciso salvo il riferimento alla sensibilità particolare di qualche individuo o gruppo. E quando si discute il tema dal punto di vista di un problema di pubblico interesse tutti coloro che hanno qualche idea di questa «bellezza» entrano in conflitto. Solo per fare un esempio: la sensazione di solitudine di un paesaggio per qualcuno può essere assimilata alla sua bellezza, una esperienza esaltante specie per chi abita in città. Chi scrive ha un vivissimo ricordo di questa sensazione in una solitaria passeggiata verso Scaffel Pike prima della Grande Guerra. Anni dopo la medesima passeggiata avveniva in compagnia di centinaia di altre persone: sempre la medesima esperienza ma non era più lo stesso. Oggi si cammina praticamente in coda e magari in cima si trova uno snack bar. E quel senso di solitudine senz’altro è venuto meno (mentre la grandiosità dello scenario rimane invariata). Certamente non si trova più quella che Wordsworth definiva la «grazia della solitudine», ma preso nel suo insieme il valore è forse diminuito per quelle ragioni tanto soggettive? Certo considerando la questione egoisticamente si può dire che oggi ci sono solo troppe persone coi medesimi gusti. Per fortuna non si tratta di un argomento troppo socialmente condiviso.
Il conservazionista estremo si trova in una difficoltà analoga. La simpatica famiglia descritta da E. M. Forster in Howards End abita in una magnifica regione. Tutti amano la bellezza e la grazia del paesaggio agricolo coltivato che si estende in ogni direzione attorno alla casa. Le vedute, la sensazione di spazio e tranquillità, i ritmi rurali rallentati che scandiscono la loro vita così come era avvenuto con quella degli antenati, tutto l’ambiente è parte della preziosa bellezza che verrà inevitabilmente intaccata dalla realizzazione della new town di Stevenage in quello che è ora il loro dominio. Spontaneamente resistono all’ingresso di altre persone nel proprio territorio, sostenuti dalla convinzione che chi è nuovo non possa apprezzare la bellezza perduta che ne percepivano gli abitanti di lungo periodo. Una argomentazione che ha certo una sua validità sociale. Ma proviamo a mettere uno accanto all’altro il godimento soggettivo di lungo termine degli antichi abitanti e l’altro di quelli nuovi arrivati a decine di migliaia con la new town del medesimo paesaggio, così diverso dallo squallore del tugurio da cui provengono, e oggi in questi spazi aperti. Certo può darsi che l’emozione di così tanti individui possa essere qualitativamente diversa da quella provata dalla famiglia di Howard Ends o del visitatore occasionale. Ma non si può negare che si tratti di qualcosa di infinitamente più grande.
Fortunatamente per noi è possibile conservare paesaggio e tranquillità, ai residenti dello spazio mantenuto rurale e ai visitatori occasionali, e questo vale per gran parte delle campagne. Come abbiamo descritto, nuovi insediamenti urbani concepiti secondo standard adeguati non richiederanno uno spazio superiore all’1-2% del totale delle campagne su un arco di vent’anni, semplicemente le bellezze naturali oggi godute da alcuni abitanti saranno godute da milioni. Il paesaggio aperto rurale può e deve essere conservato integro al 98% a vantaggio di tutti. Il migliori progettisti del paese hanno (o possono recuperare) la capacità di interagire con la natura che ha prodotto quei medesimi paesaggi, con un grande guadagno della collettività.
Green Belt e paesaggi rurali
Persiste l’idea che l’urbanizzato si espanda in forme piuttosto compatte alternate a un più indefinito sfondo di insediamento sparso agricoltura e boschi. È il concetto di «città e campagna». Storicamente nasce dalla logica di concentrare persone con determinare specializzazioni in arti e mestieri a distanza pedonale, per rispondere alla necessità di scambi tra loro e anche con chi direttamente produceva alimenti insediato in forma diffusa, relativamente vicino ma non certo facilmente raggiungibile a piedi. Ne derivava utilmente, da questo tipo di organizzazione spontanea, che finché la città si manteneva di dimensioni contenute i suoi abitanti si potessero spostare per il tempo libero o altre necessità, per esempio esercitazioni militari, nei campi circostanti. Il che spiega peraltro l’assenza frequente dentro i confini urbani di spazi dedicati a questi scopi. Non c’è alcuna ragione per credere che i residenti delle città apprezzassero in qualche modo il vivere schiacciati o la sensazione di chiusura tra le pareti fortificate (qualche esteta oggi la definisce «urbanità» ma di urbanità parleremo più avanti) come fatto positivo. Più probabile invece che semplicemente sopportassero la vicinanza imposta all’interno, finché restava facile raggiungere gli ampi spazi parti all’esterno.
Ci sono prove che in passato (per esempio nelle epoche di cui ci parla la Bibbia o in era classica) si destinasse per decreto reale o amministrativo una fascia di spazi aperti non edificati attorno alle città. Ciò potrebbe corrispondere a una aspirazione collettiva, o consapevolezza, che la crescita della città si dovesse contenere, nonostante gli esempi di riuscita limitazione in altri modi, oppure quando lo spazio libero era dettato dalla necessità di usarlo per la produzione agricola alimentare. Ma spesso le espansioni periferiche dei quartieri si limitavano a scavalcare quella green belt ufficialmente decretata per allargarsi al di fuori di essa. In seguito molte città sono poi crescite così imprevedibilmente da colmare lo spazio aperto lasciato fuori tra esse e i villaggi o altre cittadine, arrivando alla conurbazione di oggi. Il concetto di fascia verde intesa come anello protettivo ad assicurare che restassero a disposizione degli abitanti della città alcuni caratteri naturali e spazi per il tempo libero, è qualcosa che resta nel tempo e riemerge in vari periodi. Presente di sicuro nei progetto coloniali britannici, americani e austral-asiatici. Nonostante appaia poco chiaro se i fondatori delle città coloniali, o i teorici delle utopie ideali (tra cui spicca l’eccezione di Sir Thomas More) pensassero a qualche schema preciso di localizzazione urbana regionale, l’applicazione delle loro idee risulta comunque di grande interesse nella prospettiva dello sviluppo delle città di oggi.
Il focalizzarsi dell’idea di fascia rurale permanente a separare città e campagna si deve a Ebenezer Howard e al suo movimento per la città giardino. Il principio viene applicato a Letchworth (prima delle città giardino realizzate) in connessione esplicita al piano di contenimento delle dimensioni e della popolazione antro un certo limite. Howard non pensava alla green belt agricola come un esiguo anello oltre il quale fosse comunque possibile proseguire liberamente la crescita urbana. Riteneva che si trattasse di una parte integrante della campagna stessa, una zona tutelata e di proprietà collettiva perché solo in tal modo si evitava che altri speculassero sulla vicinanza della nuova città costruendoci accanto. Lo schema urbanistico viene perfettamente definito dalle parole di uno dei più brillanti collaboratori di Howard, Raymond Unwin: «Una città sullo sfondo dell’aperta campagna».
In Gran Bretagna l’idea di green belt è diventata molto popolare, e si sta velocemente allargando anche ad altri paesi. Tra chi abita nelle campagne è bene accetta come forma di tutela di vaste superfici contro lo sprawl suburbano e l’edificazione sparsa casuale. Per parte loro gli abitanti delle città sono complessivamente desiderosi di mantenere intatta l’aperta campagna che si trova immediatamente ai margini dell’edificato; ma molti, individualmente, desidererebbero risiedere in luoghi piacevoli spostandosi facilmente ogni giorno in città per lavoro. Quindi esiste un notevole conflitto tra il vantaggio personale e quello collettivo. La politica urbanistica britannica ha ufficialmente adottato il concetto di Green Belt (con drastica decisione del Ministro per le Aree Urbane Duncan Sandys nel 1953), classificando le fasce verdi protette di molte circoscrizioni di contea. Ma a livello nazionale il principio si esprime nell’anello di tutela dalle conurbazioni e nelle città considerate al limite della possibile espansione. Si tratta di un importante primo passo: si protegge il territorio rurale messo più in pericolo dalla crescita urbana. Ma non si tratta comunque di una strategia generale di «città sullo sfondo dell’aperta campagna» . Gli anelli tutelato sono molto sottili, e il loro effetto potrebbe limitarsi allo spostare la crescita periferica suburbana a maggiore distanza.
Il feticcio della «Urbanità»
Chi scrive di architettura si è molto impegnato a screditare le due città giardino realizzate e le città nuove ispirate a quel genere di progettazione sulla base di una «carenza di urbanità». Dato che gli edifici sono ben distanziati e alternati a giardini, prati, alberi, difficilmente generano il tipico effetto di ambiente totalmente chiuso e pittoresca sovrapposizione che spesso pur con qualche perplessità ammirano i visitatori dei centri antichi. Vero. Qui nella città nuova si tratta però di un altro genere di bellezza, oltre che di una organizzazione spaziale assai più salubre. E comunque con un autentico «effetto cittadino». Le critiche evidenziano la confusione lessicale di chi le fa e insieme la ristrettezza di certo gusto estetico. Se definiamo come accettato urbanità nel senso di «buone maniere» o «buon gusto» l’accusa di non possederne è un insulto agli ottimi architetti che hanno collaborato alla progettazione. Se la definiamo semplicemente etimologicamente «sensibilità urbana» chi ne rileva l’assenza pare voler esprimere crassa ignoranza di quanto invece complesso e vario – in densità, apertura, bellezza ma anche bruttezza, salubrità ma anche squallore, o volgarità e via dicendo – sia l’ambiente urbano in tutto il mondo. Se poi si dice urbanità confondendola impropriamente con la pura densità urbana o sovraffollamento (mentre si potrebbe dire meglio usando sinonimi come avvolgente oppure così perfettamente su misura da stringere un pochino) parliamo proprio dei caratteri che gli stessi abitanti delle città considerano spesso dei difetti da cui sfuggire se possibile. Insomma il termine urbanità è stato trattato così male da meritarsi di essere escluso dal dibattito.
I gusti sono diversi, nelle idee di città così come altrove, e il giudizio cambia ulteriormente al cambiare delle mode: i critici di architettura paiono in questo assai più sensibili della media. Le veloci evoluzioni delle mode hanno effetti deleteri sull’architettura, ben diversi da ciò che accade ad esempio nell’abbigliamento femminile, perché un edificio dura molto più di un vestito, molto più della stessa signora che lo indossa. Le persone cambiano quanto a gusti: per qualcuno la bellezza rappresenta una gioia per sempre, per altri dura fino all’uscita del prossimo numero del mensile di architettura. La Moda riesce a sostituire il concetto di Bello con l’idea di Contemporaneo. Ma non ci metteremo certo qui a combattere una battaglia contro lo Zeitgeist.
Le città nuove si sono adeguate alle principali tendenze architettoniche. Fortunatamente per la professione, il britannico medio non è certo ipersensibile al gusto in architettura, ma bada soprattutto ad alcuni aspetti della casa e della città. Trae grande piacere dai parchi, giardini, alberi e fiori, di cui le nuove città sono tanto ben attrezzate. Bada a quel che si vede dalla finestra (la «stanza con vista») e la cosa per lui è molto più interessante di come la sua casa appare vista dalla strada. Forse avrebbe preferito qualche carattere individuale in più nel suo appartamento, ma accetta comunque l’armonia di insieme, la composizione, senza lamentarsi. Da qui, col massimo rispetto per i gusti personali, la possibilità di costruire ambienti di insieme gradevoli. Chi progetta e gestisce una città nuova, abitandoci a stretto contatto coi cittadini residenti, sa reggere bene la pressione esterna di economisti urbani e devoti della «urbanità».
La resistenza spontanea al decentramento
Allentare la morsa del sovraffollamento e iper-concentrazione nelle città tradizionali non è certo l’unica ragione per costruire new town. Esse sono anche i luoghi in cui alloggiare l’incremento di popolazione. Si può capire che le amministrazioni locali dei centri tradizionali non sia esattamente entusiaste, né di versi limitata la crescita, né di vedersi sottrarre attività e abitanti. Storicamente vengono associate crescita e ricchezza, e in assenza della prima si teme il declino e la catastrofe economica. In molte città si auspicano nuove attività industriali e commerciali impegnandosi sistematicamente per attirarle. Pare del tutto spontaneo quindi che le amministrazioni locali, anche quando non spropositatamente propense in assoluto alla crescita, tendano a resistere a qualunque ipotesi di decentramento. Una attitudine che sta però lentamente cambiando man mano si considerano alcuni aspetti sociali ed economici. Si inizia a capire come i puri incrementi di valore immobiliare possano essere più che controbilanciati dai costi in interventi stradali, maggiori densità delle abitazioni, nuovi spazi usati per scuole e servizi. Una consapevolezza che forse sarebbe arrivata prima se i costi locali della crescita non fossero stati sostanzialmente scaricati sul contribuente nazionale grazie a vari sussidi ministeriali erogati a sostegno delle case ad alta densità.
Altra resistenza spontanea al decentramento programmato sono gli stretti legami e radici delle persone e delle imprese nella propria attività così come viene svolta oggi. Trasferirsi non solo comporta dei costi: distrugge anche le relazioni e cambia le abitudini. Molti individui e imprese, però, sarebbero disponibili a spostarsi da una situazione a un’altra più vantaggiosa, come si capisce dal fatto che le città nuove non hanno avuto mai grosse difficoltà ad attirare abitanti e attività. Di recente per esempio ci sono stati casi di successo nell’insediamento di uffici. La scoperta grazie a laboriosi studi sociologici di come ex abitanti di quartieri operai urbani sovraffollati, trasferiti in buone abitazioni suburbane, si trovino isolati e senza relazioni, non suona certo nuova per gli amministratori di complessi residenziali, o dottori, o parroci. Lo stesso fenomeno di isolamento e solitudine si rileva ovunque, specie nelle grandi città, ma anche in alcuni casi nelle città nuove, nonostante qui esista anche un forte impegno sistematico per mettere in comunicazione le persone.
Nella nostra esperienza, l’integrazione sociale e di quartiere pare molto più avanzata nelle città nuove che non in quelle tradizionali. Il solo fatto che ci siano tante famiglie ad arrivare contemporaneamente da situazioni differenti in un’altra fornisce lo stimolo comune ad associarsi. Mentre è più difficile per un nuovo arrivato singolo stabilire relazioni (ad esempio in un quartiere di lungo insediamento) essere accettato e sentirsi a casa propria. Quindi nella città nuova della fase pioniera lo spirito comunitario raggiunge il massimo livello. È certo giusto provare simpatia per gli stretti legami del quartiere tradizionale sovraffollato dentro e fuori le famiglie, con gli esercenti locali e via dicendo. Ma a crescita della città pare una spinta biologica ineluttabile a cui occorre mettere alcuni limiti: senza questi limiti un quartiere fittamente abitato finirebbe per diventare ancora più affollato, o come accade spesso sfogare l’eccesso di pressione col distacco di alcune famiglie che spontaneamente sciamano via. Possiamo ipotizzare che si tratti delle persone più ambiziose e agiate del quartiere: quelli che Abercrombie definiva «i migliori componenti», anche se non ci sbilanceremmo a sostenere il termine penalizzando così chi decide invece di restare. La demolizione dei tuguri, socialmente necessaria, comporta processi di espulsione coatta, spesso senza alcuna possibilità di scelta del nuovo alloggio. Spostarsi verso la città nuova è del tutto volontario, e pochissime famiglie decidono poi di tornare sui propri passi.
La resistenza politica
Un programma governativo per nuove città comporta esproprio di larghi tratti di territorio, prevalentemente rurale, coinvolgendo parecchi proprietari e abitanti. Nonostante i giusti indennizzi, si vanno comunque a penalizzare molti interessi e abitudini, da quelli della proprietà o dei coltivatori, suscitando vero e proprio odio verso i promotori del programma. Nei normali processi di acquisizione per pubblica utilità, è l’amministrazione direttamente responsabile dell’iniziativa a incorrere in questa ostilità; il Ministero appare come una divinità malvagia e noncurante di tutte le possibili obiezioni e opposizioni al progetto. Anche se esiste il meccanismo corrente della pianificazione locale che dà ampio spazio a tutte le osservazioni, se una autorità è al tempo stesso promotrice e responsabile della decisione finale inevitabilmente si attira tutta l’ostilità. E non è un segreto per nessuno che molte località classificate e considerate perfette per una localizzazione dal Ministero per la Casa sono state poi scartate per l’intransigente opposizione del Ministero dell’Agricoltura.
Le prime 14 new town sono state varate dal Governo Laburista tra il 1945 e il 1950, governo che trovava i principali consensi nelle circoscrizioni urbane e industriali. C’è anche il sospetto che il successivo Governo Conservatore poco propenso a deciderne di nuove lo fosse proprio a causa del possibile risentimento di cui abbiamo parlato, oltre che del timore di un cambio di equilibrio nei consensi nelle aree rurali. Per contro, gli eletti Laburisti nelle aree urbane si ritiene temessero gli effetti di un trasferimento del proprio elettorato. Tutte modifiche di equilibri che abbiamo citato si potrebbero compensare l’una con l’altra, ma certo lasciando vittime tra chi non sarà rieletto. Solo un sospetto certo, e una ansia smentita dai risultati delle elezioni 1958, che hanno invece deluso chi sullo squilibrio indotto ci contava.
da: The New Towns, the answer to Megalopolis, McGraw Hill, New York Toronto London 1963; Titolo originale: Antagonism to New Towns – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini