A volte gli elenchi possono apparire banali e noiosi, e a volte lo sono pure, se proposti con la medesima pedante prevedibilità di una tabella recitata come un rosario, nello stile di quegli «studiosi» rigurgitanti statistiche senza averle ben metabolizzate, e che infatti non aprono il campo ad alcuna conclusione conseguente. Però, gli elenchi hanno anche la forza unica della sintesi, e quindi proviamo a ripercorrerne uno piuttosto famoso.
La città esclude la natura e separa i suoi abitanti da un contatto diretto.
La città è il luogo della folla anonima e dell’isolamento dell’individuo.
La città rende difficili anche gli spostamenti per necessità coi suoi ostacoli e distanze.
La città è un luogo costoso per risiedere, tutti i suoi servizi in pratica sono a pagamento.
La città è il luogo dell’attività, in pratica si lavora anche quando non si lavora e si vorrebbe riposare.
La città è il luogo del clima alterato e innaturale, dell’atmosfera, degli spazi, dei tempi.
La città è il luogo dell’inquinamento, dei veleni, la negazione dell’ambiente sano.
La città è la negazione del buon abitare, coi suoi quartieri degradati e di concentrazione del disagio.
Otto punti programmatici, liberamente estratti e un po’ parafrasati al presente dalle Tre Calamite di Ebenezer Howard. Che notoriamente accoppiava queste caratteristiche negative del polo Town, sia ad altre caratteristiche urbane, sia al doppio analogo elenco dell’antitesi Country, sia infine alla sua sintesi-proposta della Town-Country, ovvero della città giardino, di cui avrebbe di seguito delineato il progetto organizzativo e sociale. Famosi, sintetici, ma sicuramente troppo ricchi di spunti perché oltre un secolo dopo non ci si debba chiedere: davvero l’unica sintesi possibile era quella?
Cent’anni Dopo
In effetti anche il dibattito a cavallo tra i due secoli scorsi, garden city movement incluso, di fatto non escludeva né in teoria né in pratica vie di sbocco diverse, come del resto abbondantemente avvenuto, con una distorsione: si è così tanto parlato del sobborgo giardino, confondendolo con la mai realizzata città, e poco delle radicali riforme interne, ritenute un tempo quasi impossibili, ma che invece oggi ci troviamo davanti al naso e tutto attorno. Oggi, che oltre la metà delle popolazioni mondiali abita (in poderosa crescita percentuale) in ambienti cittadini, e che grazie a quelle prime azioni riformiste novecentesche, che parevano senza speranza, quelle antiche sentine di vizio paiono diventate riconosciuti potenziali luoghi per la migliore residenza, istruzione, qualità del lavoro, interazione sociale, attività culturali e intrattenimento. Incluso un più intenso e rinnovato rapporto con la natura, i suoi spazi e i suoi tempi, pur nei modi indotti dalla medesima evoluzione. Non è certo un caso se si tratta dei luoghi individuati ufficialmente (e non certo alla leggera) come chiave per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dalle Nazioni Unite, che al punto 11 recitano alla lettera: «Occorre rendere le città e in genere gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti, sostenibili sull’arco di meno di una generazione». Confermando così indirettamente il lunghissimo cammino compiuto, relativamente in sordina va detto, dall’epoca in cui si compilava lo sconsolato elenco dei mali urbani incurabili.
Oltre la macchina da lavoro
C’è un modo di dire particolarmente ottuso, di origine marxista (ottuso in quel contesto, mica perché marxista), molto usato nella seconda metà del ‘900 per descrivere i vari servizi urbani, ed è «riproduzione della forza lavoro». Odioso, in prospettiva, dato che in buona sostanza esclude dalla città la vita in quanto tale, prosciugando l’ambiente artificiale della metropoli anche dai fattori positivi storici sottolineati da Howard e da qualunque riformista, e riducendone le qualità alla efficienza nel produrre beni e servizi con qualche valore. Un valore che però si manifesta evidentemente, in questa logica ristretta, solo altrove, forse in qualche immaginario idillio rurale paradisiaco, dove insieme all’ombra del sol dell’avvenire, il lavoratore trionfante e il capitalista bastonato troveranno la vita eterna. Lasciando i quartieri le fabbriche gli uffici a far da purgatorio necessario, orrido ma indispensabile, una sorta di ordalia o giudizio di Dio a selezionare i migliori: survival for the fittest. E in fondo ancora oggi, in certe idee di città che in pratica prolungano quel vetusto approccio ingegneristico efficientista, che rinvia il benessere vero a spiagge lontane o vette innevate, o solo all’orto della nonna al paesello, c’è tutto quel pregiudizio antiurbano. Mentre iniziare invece a porsi molto alla base di qualunque riflessione il nuovo obiettivo della Salute e del Benessere Urbano, si avvicina virtuoso alla famosa e ideologica ciancicata nei secoli, Felicità costituzionale promessa da vari padri fondatori, e sinora schivata dal marketing politico. La città non serve a produrre, ad accumulare, non si abita per riposarsi dal duro lavoro, né ci si sposta per andare a rompersi la schiena o il cervello da qualche altra parte. No: la città si abita per starci bene, e il resto è conseguente. Ce l’ha detto il dottore, come spiega con dovizia di particolari per decine di pagine e saggi settoriali, la rivista medico-scientifica The Lancet (liberamente accessibile a chi si registra)
Riferimenti:
AA.VV., Urban design, transport and health, The Lancet, 23 settembre 2016