La verità sta nelle cose, anche se queste cose spesso e volentieri le ignoriamo, preferendo fare come quel famoso tizio raccontato da Platone sul suo Mito della Caverna: lui preferisce di gran lunga guardare da un’altra parte, e convincersi che la realtà sono le ombre proiettate dal fuoco sulle pareti della grotta. Un sotterfugio utile, magari, quando ci si vuole rifugiare per qualche rispettabilissimo motivo nel conforto dell’astrazione, ma appunto da considerare sempre e rigorosamente tale. Pare invece, con tutto quanto tecnologico, che esista una tendenza all’esatto opposto: sin dal primo apparire della macchina, prima la si considera separata dalla realtà, poi ci si caccia dentro fino al collo accettandone la logica intrinseca come se non ne esistesse un’altra. Forse servirebbe provare a ricordare (in fondo a questo proposito oggi basta anche fare una ricerchina su internet) quante follie si sono fatte nell’epoca dell’industrializzazione confondendo la vita umana coi tempi e modi della produzione, in termini di ritmi e condizioni di lavoro, sino a ignorare anche l’evidenza. C’è voluto del bello e del buono, ad esempio, per far sì che si incrociassero virtuosamente (con l’adeguata decisa spintarella politico-sindacale) il mondo dell’ingegneria e quello della medicina e psicologia, a costruire qualcosa di meno tragicamente virtuale.
L’internet sta nelle cose
Oggi sembra che, immemori dell’esperienza con gli ingranaggi dell’industria materiale, di debba per forza ripercorrerne il tracciato logico coi flussi dell’immaterialità. Nel senso di accettare a scatola chiusa qualunque suggestione, come se fosse un fine a sé, e non uno strumento utilissimo a far altro, oltre che ad esistere di vita propria. Su queste pagine, e non solo, si discute spesso di quanto le amministrazioni cittadine abbiano fatto, e continuino a fare, un errore del genere con il concetto di smart city, traducendone separatamente le due componenti in modo che la prima svanisca del tutto, delegata al 100% ai saperi di settore, e la seconda si proietti per segmenti tanto piccoli da diventare patetici. Cosa ci sia di smart, o cosa ci sia di city, in sé e per sé, dentro un trabiccolo che aiuta a trovare parcheggio, non è dato di sapere, visto che concettualmente il medesimo ruolo potremmo immaginarlo svolto anche nel XIX secolo, da un tizio che sopra un aerostato tiene d’occhio le piazzole di sosta e informa con un megafono i viandanti disorientati. Oggi a ricordarci il senso delle proporzioni arriva una nuova “filosofia” adeguatamente battezzata internet delle cose. A significare appunto che tutti i nostri amati flussi di elettroni quando decollano verso orbite proprie non devono interessarci troppo, ed è meglio guardare dritto agli effetti pratici e concreti. Ovvero quando, semplicemente come ci dice Wikipedia «Gli oggetti si rendono riconoscibili e acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su se stessi e accedere ad informazioni aggregate da parte di altri».
Urbanistica moderna indipendentemente dagli archistar
Un processo circolare e integrato, che dovrebbe permeare di sé anche noialtri, quando ci stiamo immersi dentro, se non altro per comodità d’uso, ergonomia esistenziale. E invece scimmiottando i già malsani ingegneri ottocenteschi quando prevedevano giornate al telaio da quindici ore, o bambini trasformati in lombrichi per esigenze estrattive, facciamo di tutto per stare alla larga da questa logica. Gli spazi diventano tutt’uno coi flussi, ma noi continuiamo pervicaci a programmarli, quel poco che si programma, gli uni indipendentemente dagli altri, così come succede per un sacco di altre cose. La trasversalità smaterializzata riuscirebbe ad esempio già da sola a dare un senso totalmente diverso a cose come reti idriche e fognarie, depurazione, strade, parcheggi, circolazione, accessibilità, fondendoli in un unico ambito. Ma noi niente, tutti chiusi dentro a orgogliose “competenze” e miseri interessi di bottega. Lo stesso, prevedibilmente, accade anche con spazi pubblici, sicurezza, movimento merci, e quindi con commercio, occupazione, con la stessa effettiva necessità di volumi edificati per determinati usi. Insomma sono infinite le cose che potremmo fare e pensare, se qualche nostro rappresentante non avesse già deciso, senza affatto consultarci perché “non capiremmo”, di consegnare tutto a un suo conoscente esperto, dietro lauto compenso. Lasciandoci solo il compito di applaudire davanti a qualche schermo colorato, di solito di pubblicità di automobili. Consoliamoci (?) leggendo quel che abbiamo perso.
Riferimenti:
Stephanie Walden, How the Internet of Things is affecting urban design, Mashable, 23 febbraio 2015