Cosa significa davvero «densificazione»

densificazioneIl dibattito moderno sulla densità urbana ideale inizia agli albori del XX secolo, più o meno nel momento in cui Raymond Unwin nel suo manuale teorico-pratico di progettazione sembra promuoverla nelle leggendarie quantità del twelve per acre: trenta alloggi ettaro, che anche pensando alla relativa elevata media di quattro e oltre componenti per nucleo familiare significa davvero pochissima popolazione per unità di superficie. Si aggiunga che nella logica del sobborgo giardino prevalgono assolutamente le tipologie unifamiliari, e che pur lontani dal temuto sovraffollamento dei quartieri operai classici questi nuclei garantiscono al massimo (ma davvero al massimo) un abitante/stanza, e si vede come anche le densità edilizie delle sperate, future espansioni urbane, o nuovi nuclei decentrati, siano disperatamente rade. Poi ci penserà lo stesso Unwin, in una lunga serie di contributi tecnici nei lustri successivi, a spiegare che quello era solo un limite massimo alla dispersione, una soglia al di sotto della quale gli insediamenti non garantiscono le occasioni di socialità e sinergie varie della Terza Calamita di Howard, ma la provocazione era ormai lanciata, e dalla «Critica al movimento per la città giardino» di Trystan Edwards in poi, gli architetti più orientati a un tipo insediativo urbano classico accumuleranno note e sarcasmi.

La questione densità oggi

Forse senza rendersene ben conto, quelle feroci critiche già intuivano il futuro un po’ misero che di lì a poco avrebbe conosciuto l’utopia della città giardino, da idea di riforma sociale ed economica sostanziata in nuovi nuclei urbani integrati, a quartierini residenziali dispersi nel nulla, spesso speculativi. Evidentemente già allora erano maturi tutti i tratti da immaginario piccolo borghese, che poi con l’automobilismo di massa sarebbero letteralmente esplosi, delle sole casette immerse fino al collo e oltre in un dilagante e amorfo verde, fasce anonime e di risibile qualità residenziale, ex zone agricole malamente «urbanizzate». Perché poi il cosiddetto tecnoburbio (così l’ha definito non moltissimo tempo fa un critico di altissimo profilo teorico) con le sue possibilità di connessione e relazione virtuale pareva saltare a piè pari tutte le perplessità sociali dei critici, riducendole a un po’ di puzza sotto il naso estetizzante da architetti, troppo abituati ai classici scenari urbani per rinunciarci. E in effetti nei decenni sono stati in parecchi a crederci, in un modo o nell’altro, a queste potenzialità indotte dall’automobile, dalla televisione, oggi dalla connessione totale e costante da smartphone, di trasformare in città ciò che città non è, dal punto di vista delle densità fisiche ragionevoli. Ma, anche al netto da constatazioni empiriche sulla tendenza comunque a cercare prossimità (il successo storico degli shopping mall in fondo si riassume così), i pregi dell’insediamento denso cacciati dalla porta ritornano dalla finestra di fronte alle questioni ambientali ed energetiche.

Raymond Unwin Revisited

Perché, inutile ripeterlo per esteso un’altra volta, il vero motivo per cui lo sprawl, o dispersione, o decentramento pianificato che dir si voglia, non pare più un progetto socialmente perseguibile, è di ordine ambientale e di consumo delle risorse, non certo l’orrore estetizzante della «villettopoli», né lo scempio dell’obliterazione delle campagne che infuria i conservazionisti, e a ben vedere neppure le perplessità dei critici sociali, a cui rispondono spesso con argomentazioni del tutto ragionevoli i profeti della smart land, della connessione globale, versione dispersa ma del tutto analoga della smart city. La proliferazione dei quartierini variamente discendenti dall’antico dogma del twelve per acre non pare più sostenibile perché si mangia suolo agricolo, si beve risorse idriche, si aspira aria buona, solo per farne poi compressione scoppio e scarico, nei motori a combustione attorno a cui gira tutta la baracca da un secolo. Ma l’ultima frontiera della resistenza alla minaccia della «densificazione», si è schierata (ancora) sul baluardo del terrore di fronte all’effetto Shanghai, sventolato dagli architetti villettari come spauracchio verso il consumatore-cittadino. Da qui la necessità di una seria e solida risposta istituzionale, che ripercorra esattamente il medesimo metodo originario usato da Unwin. Individuare l’obiettivo sociale, dargli una forma di massima, tradurre quell’orientamento di massima in un vero e proprio manuale di progettazione urbana, a uso e consumo degli operatori e dei destinatari finali. In altre parole, se nella notte magari tutte le vacche possono sembrare grigie e terrificanti, alla luce di un minimo sistematico ragionamento si scopre l’ovvio, cioè che tra lo sprawl delle villette coatte, dei capannoni e dei centri commerciali, e i paranoici alveari che molti si immaginano come unica alternativa, ci sono tante di quelle tonalità intermedie da far girare la testa, anzi da aguzzare il gusto.

Riferimenti:
– New South Wales (Aus), Department of Planning, Medium Density Design Guide (pagina sommario da cui è possibile scaricare il documento di oltre 200 pagine)
Qui nella sezione Antologia anche il citato – e paradigmatico di tante critiche successive basate sulla densità – Trystan Edwards, Una critica al movimento per la Città Giardino, The Town Planning Review, luglio 1913

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