Dal letame nascono i fiori, come si suol dire, o magari detto un po’ meglio dal male nasce la terapia, per usare un’immagine meno brutalmente organica e condita dal sale indispensabile della riflessione. Oggi il male è l’onnipresente insicurezza percepita, specie se alimentata da una insicurezza oggettiva come quella derivante dal diffondersi del terrorismo fai da te, vera e propria violenza urbana diffusa di massa, tanto somigliante a quelle che si verificano da molti anni negli scenari di guerriglia, ma stavolta estesa all’intero universo «occidentale», ovvero ovunque vengano identificati così al volo simboli di odiato secolarismo consumista. Ed è quasi inevitabile che, davanti all’horror vacui piombato su tutti i nostri amministratori locali con la consapevolezza di essere diventati probabilissimo bersaglio della prossima esplosione selvaggia di violenza, si manifesti la reazione di pancia della chiusura a riccio: armi spianate, ringhio minaccioso di avvertimento, unghie pronte a graffiare la risposta in ritorsione. In fondo è quel che si è sempre fatto negli scenari locali in cui si manifestavano queste forme di conflitto, effetto collaterale di un altro conflitto, vuoi combattuto con le armi convenzionali della guerra vera e propria, vuoi ricomposto pazientemente nei corridoi felpati della diplomazia e della politica. Ma oggi la nostra «guerra percepita» pare molto diversa, sia per via della sua diffusione assolutamente capillare, sin sulla porta di casa e magari anche in tinello, sia per l’estensione territoriale «globale», sia per la natura cangiante e virtuale del nemico assalitore, che nasce e muore con l’assalto, salvo lanciare il proprio messaggio in quell’iper-uranio mediatico che chiamiamo conflitto generalizzato. C’è qualche via di uscita?
La città è il proseguimento della guerra con altri mezzi
E arriviamo al nocciolo della questione, ovvero al gran parlare e straparlare che si fa in questi giorni di «militarizzazione delle città», in termini mica tanto diversi da una lunga tradizione, che va solo per l’era moderna dal prefetto Haussmann al post 11 Settembre. Un parlare che si declina puntualmente su tema: come fortifichiamo? Ma con una notevole differenza di prospettiva, diciamo così tecnico-urbanistica, e naturalmente in seconda battuta anche politica: lo sventratore parigino usava l’emergenza ordine pubblico come motore e carburante per fare molto altro, mentre i nostri amministratori attuali sembrano piallati sui tempi brevi della reazione spontanea alla paura, e vedono l’ordine pubblico come obiettivo anziché come mezzo e strategia. Nasce da questa miopia collettiva (che riguarda a quanto pare sia gli amministratori, che i progettisti, che la maggioranza del pubblico e dei media a cui si rivolgono) tutta la piuttosto asfittica discussione sulle truci barriere New Jersey piazzate di traverso a blindare spazi pubblici di ogni risma, o per contro la reazione estetizzante di chi critica questa scelta solo su basi superficiali, e replica «mettiamo dei New Jersey meno New Jersey», in versione verdeggiante, dipinta, scolpita, poetata … Portato su un altro piano, un dibattito del genere assomiglia maledettamente a un aspro confronto sulla pena di morte, dove l’oggetto del contendere è l’uso della forca, della ghigliottina, o della sedia elettrica, ma mai e poi mai una riflessione sulla pena in sé. Latita, insomma, una idea di città, che Haussmann aveva invece chiarissima, e che diventava l’obiettivo in grado di fungere da contenitore anche all’apertura dei suoi boulevard piste da carica per la cavalleria contro i dimostranti (ma anche corridoi per aria, sole, reti tecniche, allineamenti di palazzi).
Metabolizzazione
Si diceva mica per caso all’inizio, che dal letame nascono i fiori, che nel male sta già la cura, e proviamo quindi a prendere, se non la violenza terroristica in sé, almeno queste reazioni spontanee abbastanza cretine in quella prospettiva: cosa ci dice, tutta questa gran voglia di blindare gli spazi pubblici, e poi di mascherare la blindatura con qualche rivestimento carino? Ci dice, abbastanza ovviamente, che l’idea base di città resta salda al suo posto quanto a sicurezza (le barriere) e bellezza (le decorazioni), ma che viene perseguita con strumenti devianti, più simbolici che altro. Come ha spiegato molto di recente un esperto di politica internazionale e terrorismo, blindare in qualunque forma le città ha qualche senso solo nella forma del «cantiere temporaneo» di brevissimo termine per proteggere le azioni vere di adeguamento, e al tempo stesso spostare il fronte verso quelli che sono davvero i punti focali: l’eventuale azione militare, e il processo politico-sociale di inclusione nel tessuto cittadino, di coloro che, esclusi, hanno reagito trasformandosi nelle schegge impazzite del terrorismo veicolare fai da te che nasce dal nulla e nel nulla ritorna. In questa prospettiva, dovrebbe apparire chiaro che le vere misure di sicurezza urbane, se di barriere dobbiamo parlare, sono quelle in grado al tempo stesso di arricchire gli spazi pubblici, luogo privilegiato di inclusione (e magari anche conflitto, ma non certo armato), e spuntare le armi o quantomeno contenere i danni. Barriere verdi o cementizie che siano, quindi, non risolvono assolutamente nulla, a meno di non sfruttarle per: impedire fisicamente ai veicoli-proiettile di scagliarsi sulla folla, migliorare interazione e comunicazione tra city-users anche nelle forme che prevengono spaesamento e terrore, introdurre nel tessuto della città l’elemento natura sotto forma di «infrastrutture verdi», ben oltre il ruolo decorativo di fioriere o alberature varie d’arredo.
Ad esempio un recentissimo studio pubblicato dalla rivista scientifica Ecological Modelling ci ricorda che «molto spesso ci scordiamo quanto la conservazione della natura in città possa contribuire allo sviluppo umano e sociale. Di norma il nostro modo di ragionare separa nettamente la città dal resto della natura, come se essa non fosse di fatto altro se non un “habitat naturale particolare” dove convivono le influenze umane. Si dovrebbe invece avere assai più consapevolezza di quanto i sistemi urbani abbiano una intrinseca componente naturale, ospitino biodiversità ed ecosistemi in grado di diventare potenzialità. E di conseguenza si dovrebbero stimolare popolazioni e amministrazioni a una maggiore conservazione delle risorse, boschive e non, e a un loro sviluppo strategico». Ecco, forse usare lo strumento rozzo e spontaneo di quei New Jersey o vezzose fioriere, per perseguire una idea di città del genere, farebbe il famoso miracolo del «dal letame nascono i fior».
La citazione è da T. Endrenya, R. Santagata, A. Perna, C. De Stefano, R.F. Rallo, S. Ulgiati, Implementing and managing urban forests: A much needed conservation strategy to increase ecosystem services and urban wellbeing, Ecological Modelling luglio 2017 (chi non ha accesso accademico può richiedere l’articolo alla email redazionale che si trova qui sopra nei Contatti)