Dalla Città Giardino a quella dei 15 Minuti

Gli insediamenti umani hanno tradizionalmente forma compatta e organizzazione di vicinato, in cui attività e servizi risultano ben distribuiti, e gli abitanti possono trovare immediata risposta alle necessità quotidiane. Ma con l’introduzione dell’automobile si trasforma l’intera struttura delle città, facilitando l’accesso anche a luoghi molto più lontani, e di conseguenza rendendo meno spontaneo avvertire il bisogno di un quartiere abbastanza autosufficiente. Queste forme e trasformazioni urbane hanno come prodotti collaterali la dispersione o sprawl, meno biodiversità, congestione da traffico e inquinamento. Inoltre con queste modificazioni di forme le città si trovano a confrontarsi con problemi di tipo socioeconomico, povertà, ingiustizia, razzismo, meno mobilità, meno accesso alla casa.

Ciò ha indotto urbanisti e politica a riflettere sulle forme ideali e struttura delle città, impegnandosi anche a riprendere e attualizzare idee dalla tradizione, verso una progettazione urbana sostenibile. Varie correnti culturali, dall’urbanistica post-moderna a quella ecologica, possono rappresentare questo tipo di riflessioni, emerse soprattutto verso la fine del XX secolo per affrontare i problemi urbani e promuovere soluzioni. Con l’idea di migliorare la vita degli abitanti e tutelare l’ambiente, queste correnti culturali e politiche individuano la scala del quartiere e una logica di servizi e attività decentrate, in grado di diminuire l’uso dell’automobile a favorire invece quello del trasporto pubblico. La pandemia COVID-19 e le restrizioni al movimento e quarantene imposte dalla pubblica amministrazione per arginare la diffusione del virus, hanno fortemente cambiato l’idea di città, rendendo necessario ripensarne ruolo e struttura. Come nel caso della divisione funzionale delle catene di fornitura, dei servizi sanitari, degli spazi verdi.

Sviluppato da Carlos Moreno, il concetto di Città dei 15-Minuti prova a ridisegnare e ripensare le città a fronte di questi effetti della pandemia e del cambiamento climatico. Vuole creare quartieri autosufficienti per quanto riguarda le funzioni dell’abitare, lavorare, commercio istruzione, salute, ridistribuendo servizi urbani. Un concetto che si focalizza su prossimità e digitalizzazione per promuovere mobilità attiva, ridurre le emissioni clima-alteranti, creare occasioni di miglioramento della qualità della vita riducendo i tempi di trasporto. Moreno pensa soprattutto a spazi densi, ricchi di relazioni sociali, in cui le funzioni si mescolano. In un sistema flessibile di ambiti pubblici o collettivi a dimensione umana che sostenga la mobilità pedonale e ciclabile. Si afferma con grande popolarità, il concetto di Città dei 15 Minuti, tra urbanisti e altri operatori, ma resta una certa ambiguità sui contenuti e le radici storiche a cui rinviano.

Col presente saggio si vorrebbero ripercorrerne almeno cinque: dalla città giardino, all’unità di vicinato, al quartiere modernista, poi a quello post-moderno, infine all’eco-urbanistica, per definire il contesto storico da cui emerge la Città dei 15 Minuti. I paragrafi seguenti espongono un panorama dei metodi usati nella letteratura scientifica. Dai cinque principali filoni di riflessione sul quartiere da fine XIX secolo per arrivare all’idea dei 15 minuti. Per spiegare come a quei filoni storici si rapporta. E per concludere un elenco di temi sia teorici che attuativi oltre alle prospettive future di ricerca. […]

Genealogia del Concetto

Origini

L’idea di quartiere esiste da molto tempo nelle riflessioni urbanistiche. Sin dalla rivoluzione industriale, e poi accelerando nel ventesimo secolo, quando le inadeguatezze del rapporto tra la città e i suoi abitanti appaiono più evidenti. Si possono schematizzare in sequenza storica sin dal principio a fine XIX secolo queste idee di quartiere, a loro volta divise in due tipologie: in primo luogo quelle che mettono in primo piano la riduzione delle distanze, e in secondo luogo quelle che pongono al centro le modalità di trasporto per superarle quelle distanze. Il primo tipo cerca di migliorare l’efficienza della città attraverso una migliore distribuzione dei servizi urbani, il secondo invece centralizzando le funzioni della città e pensando soprattutto alla mobilità garantita dall’automobile.

Durante la rivoluzione industriale, si tenta di aumentare l’efficienza concentrando servizi e attività in poli. Ma tale centralizzazione comporta problemi, tra cui degrado ambientale ed emergenze sanitarie. È una crisi a cui si risponde con il pensiero utopico e soluzioni che superano i confini della città. Ebenezer Howard introduce l’idea di città giardino, primo esplicito tentativo di unire le forme urbane alla giustizia sociale e alla salute. Pensa a una rete di centri satellite collegati ma autosufficienti, attorno a una grande città, separati da una greenbelt. Dentro la città giardino si articolano sette sezioni dette ward, ciascuna con una popolazione di 5.000 persone, in un primo tentativo di divisione urbanistica per quartieri. Si specifica anche il ruolo delle attività economiche, commerciali e produttive, servite dalle arterie principali.

Nel 1923, Clarence Perry introduce il concetto di neighborhood unit, inteso come tassello elementare di composizione urbanistica. Siamo all’inizio del XX secolo e le città americane si caratterizzano per una crescita spontanea di iniziativa privata, sovraffollamento, segregazione, alienazione, criminalità, assenza di partecipazione. Ispirato dalle idee di Howard, Perry pensa a quartieri dove si abita vicino alle scuole elementari, al verde, a luoghi di incontro o culto, negozi. Il quartiere-vicinato ospita una popolazione da 5.000 a 9.000 persone su una superficie di 75 ettari e quindi una densità attorno ai 25 ab/ha. Il sistema stradale è concepito in modo tale da scoraggiare gli spostamenti in auto, favorendo invece quelli sicuri a piedi. I servizi commerciali si trovano al massimo a 400 metri dalle case. Secondo Perry il quartiere va oltre la sola funzione residenziale e deve favorire i rapporti sociali.

Nella prima metà del XX secolo, i concetti di città giardino e unità di vicinato vengono molto studiati e sperimentati. Gli stessi Howard e Perry in qualche modo coinvolti in esperimenti pilota. La città giardino mostra lacune quanto a integrare funzioni economico-produttive e garantire autosufficienza, oltre a promuovere un tipo di residenza unifamiliare, una eccessiva dispersione, effetti ambientali negativi. L’idea non raggiunge neppure gli originari obiettivi sociali, e l’idea della greenbelt spesso non viene realizzata per indisponibilità di terreni. Anche il vicinato di Perry secondo i critici promuove una segregazione funzionale e una suddivisione per zone troppo rigida. Teorici come Jacobs, Mehaffy e altri osserveranno tutti i limiti ad una mobilità pedonale, ad una buona interazione sociale, la dipendenza dall’auto, inquinamento ed emissioni clima alteranti.

Evoluzioni

L’innovazione tecnica, che rivoluziona edilizia e mezzi di trasporto, ispira il gruppo di progettisti moderni di cui sono esponenti famosi le Corbusier o Frank Lloyd Wright, anche a definire un’idea di quartiere tra gli anni ’20 e ’30. Caratterizzato da edifici funzionali alti, grandi spazi verdi, grandissimi isolati con percorsi pedonali interni, servito da reti di trasporto veloce. Howard e Perry pensavano ad una scala umana e a dimensioni contenute, il progetto modernista favorisce torri, elevata densità edilizia, velocità nei trasporti. Il nucleo centrale dell’idea modernista è che se la città offre sufficienti corsie veloci e parcheggi, gli abitanti poi potranno facilmente accedere così a qualunque servizio o attività indipendentemente dalla distanza. Ma questo tipo di concezione si traduce poi in una città frammentata, caratterizzata da divisione funzionale tra residenza e altre attività.

Nonostante l’ottimismo dei modernisti sulle possibilità delle innovazioni tecniche nel risolvere i problemi urbani, la qualità della vita degli abitanti non riesce a migliorare, e si riduce anche la sostenibilità. Per esempio, si separano le zone residenziali dai luoghi di lavoro per risparmiarle dall’inquinamento delle fabbriche. Ma le città di inquinamento soffrono molto a causa del traffico, e si acuiscono le diseguaglianze socio-spaziali. La realizzazione di molte strade fa aumentare la quantità di auto e quella dei chilometri percorsi da ciascuna, mentre rimane un grave problema un equo ed efficiente accesso a servizi e attrezzature.

Sono tutti questi problemi a spingere di nuovo l’attenzione di progettisti e politica alla dimensione del quartiere e dell’identità comunitaria locale verso la fine del XX secolo, e far nascere l’idea di urbanistica postmoderna. Che si sviluppa come termine comprensivo a incorporare diversi concetti nati nei decenni, come quelli di insediamento tradizionale, o il transit-oriented development, o quelle correnti culturali dette new urbanism, oppure smart growth. Chi guarda, come i progettisti Duany, Plater-Zyberk, o Calthorpe, ai quartieri tradizionali dove ci si muove a piedi, compatti, a scala umana, concepisce l’urbanistica post-moderna in termini intercambiabili col neotradizionalismo. Si aderisce ad alcuni principi generali di Howard o Perry, come la composizione tipologico-funzionale, la prossimità casa-lavoro, fruibilità a piedi, l’insediamento compatto. Dal punto di vista neo-urbanistico o neo-tradizionalista che dir si voglia, i quartieri dovranno consistere in una composizione di lotti continui e ben integrati da reti di percorsi, a costruire un ambiente propenso alla fruizione pedonale o in bicicletta, dove convivono luoghi di lavoro e spazi per il tempo libero. Tra le componenti essenziali dell’urbanistica post-moderna spicca la diversità, ovvero un mix di diverse tipologie residenziali, fasce di reddito, occasioni locali di lavoro, negozi, verde, servizi pubblici.

I progetti sperimentati di questo tipo comprendono vari quartieri a cavallo tra fine XX secolo e inizio del XXI. Si intendevano promuovere contatti sociali, contenere comportamenti insostenibili di mobilità, ridurre le distanze percorse dai veicoli grazie alla compattezza dell’insediamento, promuovere la citata diversità. Ma in realtà questi obiettivi non sono stati conseguiti. I critici giudicano che i quartieri post-modernisti soffrono di determinismo fisico, usando i caratteri progettuali architettonici-spaziali per risolvere questioni urbane. Le città hanno alcune caratteristiche insediative, e i loro problemi sono numerosi e articolati. Questa urbanistica post-modernista risulta insufficiente ad affrontarle agendo solo sulle forme.

Restano quindi aperti al volgere tra ii due secoli problemi storici come il traffico, l’inquinamento atmosferico, la povertà, le diseguaglianze. Mentre se ne presentano in aggiunta dei nuovi, come il cambiamento climatico, la scarsità di risorse, e la necessità di ripensare concetti e progetti urbani. Nel nuovo secolo si afferma il nuovo paradigma di una urbanistica ecologica su principi di sostenibilità dello sviluppo. Coi concetti di quartiere sostenibile, eco-city, o eco-town, le città digitali, o green, o resilienti. E l’obiettivo è di affrontare i più urgenti problemi del cambiamento climatico e sostenibilità ambientale insieme a quelli che le città hanno affrontato tradizionalmente. In altre parole, oltre ad accogliere i principi fondamentali dei concetti già espressi da altri modelli, la eco-urbanistica introduce e mette al centro obiettivi come ridurre le emissioni o l’impronta ambientale o il risparmio di risorse, verso una città intesa come produttrice di conoscenza, cultura, innovazione.

Ma poi i progetti ispirati all’eco-urbanistica secondo la critica si rivelano di scarsa efficacia, poco coerenti con gli obiettivi dichiarati. In alcuni casi non si riesce a raggiungere un equilibrio tra gli aspetti di sostenibilità, accantonando quelli sociali. Ad esempio pur partendo dalla centralità dell’abitazione abbordabile, si finisce per escludere proprio chi della casa avrebbe più necessità. Le compagnie tecnologiche investono in «quartieri ecologici» pensati per fasce alte di reddito e cultura . Si acuisce la diseguaglianza sociale creando «isole di ricchezza in un oceano di povertà» per usare le parole di Caprotti. E Sharifi ritiene che i progettisti eco-urbanisti puntino troppo su tecnologie e forma architettonico-urbana ignorando invece la partecipazione dei cittadini nella transizione ecologica verso uno sviluppo sostenibile. Del resto senza cambiamento sociale non si possono godere i vantaggi di nessuna tecnologia o nuova forma. Per concludere, anche certi obiettivi caratteristicamente eco-urbanistici, dall’azzeramento delle emissioni a quello dei rifiuti, vengono accantonati nelle pratiche a favore di una semplice riduzione.

Nel nuovo secolo e sino al primo decennio alcuni studiosi introducono l’idea di Smart City, concetto di gestione soprattutto pubblica che sfrutta il capitale sociale per migliorare la qualità della vita degli abitanti urbani. Una smart city considera le sei dimensioni dell’abitare, mobilità, ambiente, governance verso uno sviluppo equilibrato. Sfrutta le tecnologie più avanzate per ridurre i rifiuti e le emissioni o gestire l’inquinamento atmosferico. Nell’ultimo decennio le amministrazioni locali hanno investito molto tra tecnologie dell’informazione e dell’informazione, per infrastrutture e progetti dedicati alla transizione sociale e ambientale. Progetti per eliminare gli ostacoli all’accesso ai servizi urbani, attraverso sia le reti di comunicazione che le modalità di trasporto. Ma tutte queste soluzioni smart a volte non facilitano tutto, lasciando scoperto il problema delle trasformazioni materiali.

Verso la fine del secondo decennio del secolo irrompe inattesa l’emergenza globale della pandemia COVID-19. Molti governi decidono di imporre limiti agli spostamenti e quarantene. Si riducono al minimo i contatti fisici tra le persone e anche i trasporti pubblici vengono classificati come ambienti a rischio di trasmissione della malattia. Cresce smisuratamente la popolarità degli spostamenti a piedi, in bicicletta, in micromobilità individuale e condivisa, che consentono alle persone di muoversi per le necessità quotidiane ma mantenendo una certa distanza dagli altri. Alcune amministrazioni locali ripensano gli ambienti delle strade trovando spazi per quelle forme di mobilità. La salute, che sembrava scomparsa dagli obiettivi dell’urbanistica o della gestione urbana prima della pandemia, torna in primissimo piano, così come la prossimità a servizi e attrezzature. Con la pandemia COVID-19 si conferma l’efficacia dei quartieri integrati nell’emergenza, dato che gli spazi auto-dipendenti come quelli concepiti dalla cultura modernista si dimostrano non-resilienti. Ma mentre le pubbliche amministrazioni impongono le restrizioni ai comportamenti accade anche che crolli la frequenza nell’uso del trasporto pubblico mentre cresce la mobilità dolce. La pandemia ricorda ai progettisti come le città debbano essere concepite su forme più sostenibili, da ripensare anche rivisitando il passato. Carlos Moreno aveva introdotto nel 2016 la Città dei Quindici Minuti destinata in seguito come metodo per contrastare le emissioni di gas serra e strategia per la ripresa post-COVID.

Componenti base del concetto di Città dei Quindici Minuti

La struttura originaria del concetto Città dei Quindici Minuti si articola sulle componenti di prossimità, diversità, densità. Ma non sono le uniche individuate da Moreno. Che per esempio pone l’accento su una forma urbana a misura d’uomo, o sulla multifunzionalità degli spazi pubblici e collettivi, già nell’enunciazione della strategia Paris en Commun. Abbiamo rilevato almeno dieci componenti: (1) prossimità, (2) densità, (3) diversità, (4) mixed-use, (5) modularità, (6) adattabilità, (7) flessibilità, (8) progetto a scala umana, (9) connettività, (10) digitalizzazione.

Prossimità: secondo Jane Jacobs si tratta di uno dei principi essenziali di vitalità urbana. Offre numerosi vantaggi, come la riduzione delle quantità di servizi pro-capite, migliore accesso alle occasioni culturali, economiche, sociali, per l’istruzione, promuove mobilità attiva, e sicurezza. Questa della prossimità è una caratteristica costante di tutta la storia dell’idea di quartiere, Clarence Perry sosteneva un’organizzazione delle residenze integrate attorno ad una scuola così che i bambini potessero raggiungerla facilmente a piedi. Anche il concetto post-moderno o neo-tradizionale sottolinea la facile accessibilità dei negozi, delle scuole, dei luoghi di culto a piedi dalle case.

Secondo la filosofia crono-urbanistica di Moreno, la prossimità migliora la qualità della vita agli abitanti del quartiere. Oggi gli abitanti delle città a organizzazione centralizzata sprecano moltissimo tempo per spostarsi verso attività varie. Moreno intende invece attraverso la prossimità restituire questo tempo da usare a piacimento. La Città dei 15 Minuti la vede sia dal puto di vista dello spazio che del tempo, redistribuendo funzioni e servizi urbani verso le residenze. Funzioni che risultano così assai più accessibili saranno: (1) abitare, (2) lavorare, (3) fare acquisti (es. alimentari), (4) salute, (5) istruzione, (6) intrattenimento; tutte entro un raggio di 15 minuti a piedi o in bicicletta.

Densità: i vantaggi della densità contrapposti ai difetti di una crescita dispersa sono ben riconosciuti. Già Jane Jacobs inseriva questo carattere tra i quattro criteri principali per la vitalità urbana. Anche a parere di Lehmann, le città più dense possono avvantaggiarsi di tempi ridotti di pendolarismo, migliore sfruttamento delle infrastrutture, prossimità tra servizi e zone residenziali. Storicamente parlando, è il sovraffollamento della città industriale a suggerire a Ebenezer Howard la proposta di basse densità nella città giardino fatta di abitazioni unifamiliari e ampi spazi verdi. Inducendo però così una crescita di tipo suburbano dispersa, come avverrà dopo la seconda guerra mondiale. Le culture urbanistiche post-moderne ed ecologiche scelgono quartieri a densità più elevata, dove si trovano servizi e attrezzature spostandosi facilmente a piedi. Ad esempio nei transit-oriented development (TOD), il progettista Peter Calthorpe propone funzioni miste di residenza, terziario, tempo libero, tutto fruibile in dieci minuti dal nodo della stazione. In modo analogo la Città dei Quindici Minuti individua la risposta alle necessità quotidiane senza usare il veicolo privato. E si calcola anche come una certa densità possa garantire la massa critica necessaria alla vitalità commerciale e alla creazione di posti di lavoro.

Diversità: la diversità appartiene a un’idea di sviluppo urbano legata alla diminuzione delle diseguaglianze sia spaziali che sociali. Un principio essenziale anche per la sostenibilità economica sul lungo termine e gli stimoli a innovazione e creatività. I quartieri che si creanoin questa prospettiva ospitano varie culture, etnie, fasce di reddito. Questa diversificazione dentro la stessa comunità si può far risalire sino all’idea della città giardino di Howard. Che immaginava una mescolanza di classi sociali, godimento diversificato delle abitazioni, case abbordabili. Una componente poco praticata dall’urbanistica modernista o dalla neighborhood unit, tornata in auge in parte con le culture post-moderne e dell’eco-urbanism.

Coerentemente, nella Città dei 15 Minuti diversificazione significa progredire verso un pluralismo culturale anche attraverso l’organizzazione urbanistica, reagendo ad alcune tendenze moderniste che hanno spesso isolato i quartieri più poveri da ogni punto di vista. Carlos Moreno è convinto che un quartiere dovrebbe essere accessibile a qualunque fascia di abitanti, indipendentemente dalla loro situazione economica, sociale, etnica, nazionalità, età, genere. Di conseguenza ci dovrà essere offerta di case abbordabili, posti di lavoro, servizi sociali anche rivolti alle fasce più vulnerabili. Inoltre, centrale dovrà essere la partecipazione degli interessi locali, nella realizzazione dei quartieri. Gruppi di cittadini, rappresentanti di fasce sociali deboli, delle attività locali, da coinvolgere in ogni fase strategica, di progetto, di programmazione e gestione.

Mixed-use: la città crono-centrica sarà anche poli-centrica, con quartieri a funzioni composite, residenza, commercio, terziario, tempo libero, istruzione, intrattenimento. Espressione materiale di diversità, un quartiere così contribuisce da solo a ridurre la quantità e distanza degli spostamenti quotidiani, consentendo a tutti di moltiplicare le necessità a cui corrispondono Quindi tendenzialmente meno uso dei veicoli privati, consumi energetici, emissioni, rumore, inquinamento. Questo mixed-use development riduce il tempo consumato anche per pendolarismo, e migliora la qualità della vita.

Le culture urbanistiche del ventesimo secolo, dalla città giardino, all’unità di vicinato, al modernismo, proponevano comunque uno zoning monofunzionale, per risparmiare al cittadino l’inquinamento delle attività produttive. E quindi dividevano residenza da industria, terziario, commercio. Questo genere di divisione in zone omogenee è stato spesso criticato per essere strumento di discriminazione anche razziale e sociale, imponendo alcune regole di accesso economico (exclusionary zoning) o localizzando industrie nocive vicino a quartieri di minoranze (ingiustizia ambientale). Già Jane Jacobs criticava questo azzonamento monofunzionale come ragione del fallimento di tanta rigenerazione urbana negli Stati Uniti: il mixed-use significava il maggior numero di funzioni possibili inserite nel tessuto urbano. La cultura post-modernista riconosce l’importanza di un azzonamento plurifunzionale così come nei principi del movimento new urbanism. Dove i quartieri sono concepiti per favorire la pedonalità verso ristoranti, bar, uffici, case, spazi di socializzazione entro un’area contenuta. Anche l’eco-urbanistica considera il mescolare funzioni varie uno strumento che promuove gli spostamenti a piedi e riduce la dipendenza dall’auto privata, favorendo anche le politiche per il cambiamento climatico.

Modularità: la modularità è la capacità di un sistema di articolarsi per comparti e il loro livello di interconnessione. Anche il decentramento significa modularità, si passa dal monocentrismo al policentrismo, alla moltiplicazione dei poli funzionali. L’organizzazione modulare delle città può ridurre le diseguaglianze spaziali e promuovere una maggiore possibilità di scelta per esempio del lavoro, più vicino a casa. Contribuisce anche a spalmare più omogeneamente il rischio nel caso di eventi avversi che non colpiscono con la massima intensità solo una porzione più esposta. La Città dei 15 Minuti promuove il decentramento dei servizi e la formazione di sub-centri rivolti agli abitanti.

Adattabilità: esiste una incertezza sul futuro in un’epoca di grande cambiamento. Adattarsi a questa situazione che cambia risulta di grande importanza. Una città con forte capacità di adattamento risulta meno vulnerabile a eventi avversi. Si ammette la fragilità delle varie componenti, si sviluppano conoscenze, e insieme l’autorità di decidere cosa è più utile per la sicurezza in caso di crisi. La crescita esponenziale di queste situazioni di crisi negli ultimi decenni ha concentrato l’attenzione delle culture urbane e urbanistiche sull’accrescimento delle capacità adattive. L’eco-urbanism, per esempio, non solo si rivolge alle sfide tradizionali della crescita come sempre successo, ma si focalizza su cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse. Anche la Città dei 15 Minuti traendo spunto da cambiamento climatico ed esperienze durante l’emergenza COVID-19 propone forme urbane meno vulnerabili pensate per una situazione di incertezza futura.

Flessibilità: uno degli insegnamenti principali emersi dalla recente esperienza con la pandemia, è che agli abitanti delle città occorre molta più flessibilità nell’abitare e nel lavoro. Ciò impone a molti radicali cambiamenti di vita, privata e sociale, dei comportamenti quotidiani nello spazio. Per accrescere l’efficienza della città col concetto dei 15 Minuti si auspica una moltiplicazione funzionale dello spazio pubblico che diventa multi-purpose. Gli ambienti urbani destinati a un unico scopo esclusivo possono in certi momenti (orari o giorni della settimana) includerne altri. Gli abitanti di questa crono-città possono sfruttare gli ambiti pubblici o collettivi continuamente e senza interruzioni. Flessibilità è anche possibile decentramento. Per esempio di funzioni che si disperdono verso spazi prima dedicati solo ad altro. Ciò aumenta anche la capacità dei quartieri di riprendersi da qualche crisi improvvisa del tipo di quelle indotte dalla pandemia.

Progetto a scala umana: la crescita suburbana viene promossa in epoca e culture moderniste dopo la seconda guerra mondiale. Induce una struttura ad orientamento automobilistico e insediamento disperso, accrescendo tempi e costi dei trasporti, inquinamento, e segregazione funzionale-sociale. Jane Jacobs era convinta che l’unica logica di gestione urbana ragionevole fosse quella di chi le città le abita, e a cui piani e progetti sono destinati. Le culture post-moderna e dell’eco-urbanistica propongono una città fruibile a piedi o in bicicletta, su misura umana, a bassi consumi energetici e riduzione dell’inquinamento e congestione. Bassi i costi di manutenzione, e chiunque indipendentemente da età o capacità fisiche si sposta facilmente. Negli anni più recenti la pandemia COVID-19 ha confermato quanto siano inefficienti le città moderne a orientamento automobilistico e spazi frammentati. E fatto riemergere l’importanza di ripensarle secondo proporzioni più umane. La Città dei 15 Minuti accetta questa scala umana e adegua forme e dimensioni a bisogni e aspirazioni. Nel progetto di strade e vie il cittadino verrà sempre prima del veicolo, predisponendo percorsi ciclopedonali e ambienti n grado di promuovere mobilità attiva.

Connettività: connettività vuol dire evitare quartieri isolati. Così che l’intero organismo urbano possa riprendersi da crisi in tutte le sue parti componenti. Per inserire ogni settore nel tutto, la Città dei 15 Minuti privilegia il trasporto pubblico. La mobilità dolce si collega ad esso accrescendone l’efficienza e riducendo la dipendenza dall’automobile specie nei collegamenti ultimo miglio.

Digitalizzazione: potenziali e possibilità delle tecnologie smart, dall’Intelligenza Artificiale alla totale accessibilità dei dati, all’internet delle cose, pongono le premesse per una più attiva partecipazione alle trasformazioni urbane e decisioni, il che porta sia Moreno che altri studiosi a introdurre la digitalizzazione come componente base della Città dei 15 Minuti. Le amministrazioni locali interagiscono direttamente col cittadino attraverso vari strumenti tecnologici e organizzativi trasparenti. Ciò migliora sia la vita individuale che dei quartieri. Anche la gamma di tecniche Smart City che facilità una mobilità multimodale contribuisce a sviluppare concetti come mobility as a service (MaaS). Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione creano nuove occasioni di lavoro e aiutano le attività locali ad accrescere la propria competitività sul mercato, oltre che ad assumere decisioni più informate.

Riflessioni e conclusioni

Cambiamento climatico e crisi della pandemia COVID-19 sono due sfide assai significative che hanno indotto urbanisti e pubblici amministratori a riflettere sull’idea di città e modificarla negli anni più recenti. Anche l’idea di quartiere ha allargato col tempo i propri principi. Oggi il concetto di Città dei Quindici Minuti propone i propri in questa prospettiva. Considera critico il ruolo della parte di città nella resilienza complessiva a sfide come quella del clima o della salute. Come ha esposto questo studio esistono dieci componenti che abbiamo descritto sopra e di nuovo elenchiamo: (1) prossimità, (2) densità, (3) diversità, (4) mixed-use, (5) modularità, (6) adattabilità, (7) flessibilità, (8) progetto a scala umana, (9) connettività, (10) digitalizzazione. La crono-città decentra le funzioni urbane per garantire accesso equo a servizi e infrastrutture. Ripensa gli ambiti pubblici su scala umana per favorire le interazioni sociali. Favorisce ambienti fruibili a piedi promuovendo di conseguenza anche mobilità attiva e migliore qualità della vita. Parigi non la sola città che abbia introdotto qualche tipo di politica del raggio temporale, iniziative simili crescono anche altrove in Europa (per esempio Barcelona coi superblock o il Regno Unito con le high street), Asia (per esempio Shanghai con la Città dei 20 Minuti, o Singapore coi 45-minuti), Australia (per esempio, Melbourne e i quartieri dei 20-minuti), Stati Uniti (Portland coi quartieri dei 20 minuti, Houston con gli spazi pedonali.

Una comparazione tra il concetto di Città dei 15 Minuti e le culture urbanistiche che l’hanno preceduta, ci mostra come esso in parte trascuri alcuni criteri di sostenibilità, tutela ambientale, biodiversità, efficienza energetica, culture locali, tutela storica, identità. Per gli aspetti energetici ci si concentra sulle scale urbana e di quartiere, trascurando quelle minori edilizie. Rispetto alla eco-city, quella dei quindici minuti non promuove in modo particolare spazi residenziali altamente efficienti sul versante energetico, nonostante sia noto come il 40% dell’energia venga consumata dai fabbricati.

Si rilevano numerosi ostacoli concettuali a mettere in pratica l’idea. Allo stesso modo di altre cultura urbanistiche precedenti, come il quartiere vicinato o il modernismo, la Città dei 15 Minuti sembra abbastanza determinista. Vorrebbe risolvere i problemi esistenti, salute, cambiamento climatico, sviluppo economico, inclusione sociale, modificando la struttura spaziale. Ma è irrealistico pensare che si possa innescare una transizione sostenibile agendo solo sullo spazio fisico, a fronte dei problemi multidimensionali già menzionati. Esiste anche la dimensione sociale, quella culturale, quella economica. Inclusività ed equità sociale per esempio vengono inserite nel quartiere e città eco-urbanista o neo-tradizionale, pur senza un vero obiettivo di integrazione dei gruppi più storicamente marginali. E città come Parigi hanno una lunga storia che comprende anche progressi verso la mobilità sostenibile, dunque sviluppare un sistema decentrato di servizi e funzioni non pare difficile. Più complicato arrivarci nelle città frammentate e auto-dipendenti con struttura dispersa, come in Nord America o Australia. Dove una urbanistica segregante per zone funzionali esclusive le ha rese chiuse. In questi casi il nuovo concetto di quartiere richiede una riorganizzazione dell’intera struttura, cosa non facile da tradurre in pratica.

La storia delle culture urbanistiche ci dice come i vari modelli vengano introdotti per affrontare questioni specifiche, che possono essere di traffico, salute, energetiche. Ma ogni città ha esigenze particolari e proprie e richiede un programma su misura. Non si può immaginare di perseguire un obiettivo semplicemente perché esso è compreso nello schema concettuale. Appare poco chiaro ad esempio in che modo la Città dei 15 Minuti possa promuovere case abbordabili, diversificazione etnica, prossimità casa-lavoro. Limiti rilevati anche nelle teorie che l’hanno preceduta, con i tanti schemi per i quartieri. Le idee non tengono sufficiente conto della complessità dei contesti urbani. Un abitante può non poter trovare un lavoro raggiungibile a piedi da casa, e alcune attività dovrebbero localizzarsi tenendo conto delle economie di agglomerazione (pensiamo alla farmaceutica, alle tecnologie avanzate, o alla produzione di automobili). Non si può trovar posto vicino a tutti coloro che ci lavorano e il pendolarismo sembra inevitabile.

Anche questa nostra rassegna di concetti storici e attuali comparata ha dei limiti, che potrebbero trovare integrazione usando altre fonti informative, come ad esempio le opinioni dei portatori di interesse che hanno sperimentato i concetti di città e quartiere. O la semplice evidenza empirica dei casi in cui la Città dei 15 Minuti è stata in qualche modo sperimentata. Si tratta di un concetto ancora relativamente nuovo mai applicato nella sua interezza sulla città reale. Auspichiamo che studi futuri possano aggiungere questi elementi al quadro critico.

da: Land, Vol. 12, n. 2, febbraio 2023; Titolo originale: From Garden City to 15-Minute City: A Historical Perspective and Critical Assessment – Traduzione di Fabrizio Bottini – Sul sito della Rivista nel testo originale anche la nota metodologica sui riferimenti le tabelle comparative e la bibliografia

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