Spesso chi dice di ispirarsi direttamente alla Bibbia per le proprie azioni quotidiane viene guardato con sospetto, se non altro per via di pessime interpretazioni letterali dei suoi insegnamenti. Il fatto è che, come tutte le fonti tradizionali, anche il libro per eccellenza deve essere accostato con qualche cautela, e se non altro adeguatamente comparato al probabile contesto da cui trae originariamente i propri spunti. Una regola che vale per tutti i precetti, inclusi quelli sul rapporto fra città e campagna. Leggiamo per esempio nel Libro dei Numeri: «avranno le città per abitarvi e il contado servirà per il loro bestiame, per i loro beni e per tutti i loro animali. Il contado delle città […] si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura della città tutt’intorno» (Numeri, 35:1-4). E in altra parte della Bibbia, del tutto autonomamente compare, per bocca di uno dei più ascoltati profeti, quella che suona come una specie di sanzione per i trasgressori della regola: «Guai a quelli che aggiungono casa a casa, e uniscono campo a campo, fino a occupare ogni spazio, e diventano i soli proprietari in mezzo al paese!» (Isaia, 5:8). Cosa ci raccontano, provando a interpretarle in termini contemporanei, queste antiche prescrizioni e minacce di punizione divina?
A occhio e croce, e senza allontanarci troppo dall’oggetto specifico, si tratta di indicazioni per una sorta di sviluppo sostenibile, dove la città e la campagna vedono riconosciuto un ruolo complementare, e devono mantenere ciascuna un certo equilibrio, sia interno che in relazione al contesto. Forse è eccessivo arrivare a riferirsi direttamente al dibattito contemporaneo sul cosiddetto consumo di suolo, ma di sicuro possiamo rilanciare in generale il tema, arrivando a qualcosa di più: il Libro dei Numeri prima, e il profeta Isaia poi, ci dicono che dovremmo evitare di allargarci troppo, con la nostra conquista del pianeta trasformato in macchina, a esclusivo uso e consumo dell’umanità. Un processo ormai arrivato a livelli abbastanza estremi con una progressiva urbanizzazione che vede la gran maggioranza degli esseri umani abitanti in città sin dai primissimi vagiti del nuovo millennio (Unfpa, 2007). Al punto che secondo molti scienziati ci troviamo all’alba di un Antropocene, che segna la fine dell’Olocene, era geologica in cui abbiamo vissuto sinora (Sample, 2014).
Il nuovo paradigma è ovviamente e indubbiamente legato agli impatti che l’azione dell’uomo sull’ambiente ha accumulato nel corso delle generazioni, e che oggi per esempio emergono nelle tante crisi che chiamiamo cambiamento climatico, o problema energetico, o sicurezza alimentare e via dicendo. Se gran parte dell’opinione pubblica, anche quella più consapevole e scientificamente informata, tende a individuare i motivi di tutto questo nel modello di sviluppo e crescita urbano-industriale così come viene praticato da un paio di secoli, forse è il caso di precisare come si tratti di una semplice, per quanto traumatica, accelerazione di quanto già in corso da molto, molto più tempo. L’alba dell’antropocene sarebbe per così dire stata annunciata dall’aurora del nostro passaggio dalla ecosfera alla tecnosfera, avvenuto circa diecimila anni fa con la nascita dell’agricoltura, degli insediamenti stabili all’origine delle città, e della civiltà come l’abbiamo sempre conosciuta.
Questo antichissimo passaggio, che innesca di fatto quanto oggi definiamo urbanizzazione tendenziale del pianeta, è in fondo il medesimo che fa intuire agli estensori della Bibbia quelle loro raccomandazioni ad andare coi piedi di piombo, nell’esplorare le nuove frontiere. Perché da subito la sinergia fra città e campagna, apparentemente alla ricerca di un equilibrio interno ed esterno, si rivela assai imperfetta. Per esempio uno dei nostri principali studiosi di urbanistica (Astengo, 1966), quando prova ad esplorare le radici più profonde dell’idea di città e territorio organizzati per le necessità umane, nota un approccio magico-religioso tendente a conformarsi ai ritmi dell’universo, o almeno provarci. Ma come ben sappiamo, moltissime delle grandi civiltà urbane del passato sono collassate proprio per una sottovalutazione del proprio impatto sull’ambiente naturale, in particolare riguardo allo sfruttamento regionale delle risorse a fini di produzione agricola. Dal sistema della Valle dell’Indo di Mohenjo Daro, alla rete dei pueblos delle tribù Anasazi nel sud-ovest degli attuali Stati Uniti, agli Incas in Sud America, ai Sumeri agli antichi Egiziani, per migliaia di anni si succedono con vario successo questi esperimenti di convivenza fra insediamenti agro-urbani umani e risorse naturali, risolvendosi in molti casi con la vera e propria cancellazione di intere civiltà dalla faccia della terra, per pura insostenibilità ambientale, e/o incapacità a adattarsi a mutate situazioni come il cambiamento climatico nella Valle dell’Indo circa 4.000 anni or sono (Giosan et. al., 2012).
Il rapporto città/campagna in questa prospettiva si può leggere anche come interazione al tempo stesso virtuosa e ad elevato impatto, perché nella concentrazione cittadina si elaborano e perfezionano le conoscenze che nel territorio vasto colonizzato e trasformato, in continua espansione (si pensi solo alle centuriazioni romane e ai sistemi urbani primigeni che definiscono insieme alle grandi arterie stradali) sfruttano in modo quantomeno imperfetto le risorse naturali. Proprio nelle città, o soprattutto nelle città, insieme alle conoscenze nasce anche un barlume di coltura altamente tecnologica e in ambiente artificiale, evolvendo dagli orti, attraverso i giardini pensili, ai primi esperimenti a clima controllato delle serre romane e rinascimentali. Ma si tratta in un primo tempo di una pura intuizione, del significato profondo dell’agricoltura urbana.
Anche quando l’esplosione demografica urbana e di crescita generale della rivoluzione industriale, le intuizioni degli utopisti (per ovvia assenza di informazioni a proposito) sulla necessità di contenere gli impatti della macchina produttiva sul territorio certamente producono quegli interessanti modelli insediativi che, da Robert Owen a Ebenezer Howard, arricchiscono la cultura urbanistica e ambientale, ma certamente non emerge appieno la potenzialità di alcune innovazioni tecnologiche ampiamente disponibili (Hall, Ward, 1998; Huges, 1919). In pratica l’idea di insediamento umano e la modellistica della pianificazione territoriale basata sulle green belt, le fasce di interposizione agricola come antidoto alla conurbazione, la stessa disciplina dei parchi e della landscape architecture da cui deriva ad esempio gran parte della cultura americana della città, di fatto si evolvono senza tenere davvero conto di un fatto che col senno di poi non può fare a meno di saltare all’occhio: esistono in realtà due tipi di artificializzazione/urbanizzazione del territorio, uno della città costruita, e un altro dell’agricoltura industrializzata.
In questo senso, si può sostenere che i diecimila anni di storia dell’insediamento stabile dell’uomo sul territorio siano da giudicare un sostanziale fallimento: l’umanità continuando a usare a man bassa per la propria sopravvivenza e sviluppo le risorse, taglia il ramo su cui sta seduta, e lo fa di gran lena. Esistono però notoriamente due modi di sbagliare: uno diabolico, persistendo nell’errore, e l’altro umano, ammettendo lo sbaglio e cercando rimedio. E il rimedio più a portata di mano si riassume brevemente come segue: l’uso del territorio a fini agricoli, per nulla attento alla natura, ha finito per minacciare gravemente la biodiversità e la nostra sopravvivenza come specie, all’inseguimento di ritmi impossibili di produzione alimentare, bisogna cambiare rotta. La soluzione sta nel liberare le campagne dall’agricoltura, trasferendo in città questa forma ormai sostanzialmente industriale di trasformazione, e applicando in ambienti controllati tutte le tecnologie più avanzate. In sintesi ancora più estrema, dall’equazione città = densità nasce il concetto della cosiddetta vertical farm, e «se le cose non cambiano vedremo letteralmente dissolversi i terreni agricoli sotto il carico di tecnologie troppo onerose, applicate senza alcuna preveggenza né programmazione ecologica» (Despommier, 2011: 136).
Concettualmente, si tratta in fondo solo di rendere un po’ più coerente, e ponderato dopo diecimila anni di esperimenti non proprio riusciti, il nostro passaggio dall’ecosfera alla tecnosfera, concentrando anche la produzione alimentare negli ambienti urbani, là dove già abbiamo concentrato tutte le altre nostre attività impattanti e in genere la nostra esistenza. Quella transizione dal campo coltivato all’edificio agricolo, abbozzata nei giardini pensili e nelle prime elementari serre, oggi si rende assai più a portata di mano con la relativa facilità di progettare e realizzare fabbricati dove «produrre alimenti al chiuso garantisce i consumatori dalle incertezze degli eventi naturali, consente di ripristinare gli ecosistemi – per esempio boschi – nelle ex superfici agricole, e assorbire i gas serra. La produzione al coperto consente inoltre di risparmiare sino al 98% dell’acqua, il 70% dei fertilizzanti rispetto ai metodi tradizionali, con rese molto superiori» (La Monica, 2014).
Ma i veri problemi iniziano quando dal dire si passa non tanto al fare, ma a definire come, esattamente, attuare quel trasloco dallo spazio aperto a quello chiuso: così come un tempo si disboscava, si appoderava, si modificava insomma il territorio, adesso si deve pensare a come sarà, quel contenitore chiuso. Dickson Despommier, sulla base di ragionamenti che ovviamente nulla hanno a che vedere con l’architettura o l’urbanistica, ma guardano soprattutto all’incremento massimo della produttività per unità di superficie, riassume così assai sommariamente le caratteristiche di massima di un fabbricato di agricoltura tecnologica al coperto: oltre a sfruttare al massimo lo spazio disponibile (per esempio sovrapponendo a strati verticalmente le superfici coltivate), deve garantire ottima illuminazione naturale per le colture, schermatura e protezione dall’ambiente esterno, possibilità di produrre e sfruttare energia elettrica. Questo tema dell’energia introduce altri aspetti di contestualizzazione urbana dell’attività agricola tecnologica, e che condizionano poi localizzazione e caratteristiche degli impianti, dallo sfruttamento dei rifiuti urbani, all’inserimento nel ciclo delle acque, dall’opportunità implicita in genere di partecipare ad altre reti, come quella di trasformazione e distribuzione alimentare. Ecco, tutti questi aspetti, o se vogliamo potenzialità, o criticità, rappresentano anche le possibili prospettive di lettura della miriade di idee e progetti rapidissimamente accumulati attorno allo slogan vertical farm.
Dato che le premesse del modello, come ampiamente chiarito, sarebbero di liberare superfici oggi utilizzate per sfruttamento intensivo in agricoltura, restituendole al recupero di biodiversità, forse è meglio riassumere in termini precisi e piuttosto analitici anche cosa può significare, in una prospettiva progettuale spaziale, una intensificazione spostata verso l’ambiente urbano:
«intensificazione significa aumentare il numero di funzioni e attività su una singola superficie sovrapponendole le une alle altre; abbiamo una intensificazione verticale di norma realizzando un edificio o comunque delle piattaforme, da usare anche per verde e agricoltura, abbiamo una intensificazione orizzontale alternando in periodi diversi di tempo su una unica superficie svolgimento e accesso di varie attività; è intensificazione anche l’uso in orti o frutteti di affiancare alberi grandi, alberi più piccoli, cespugli, colture a foglia, a radici e tuberi, idroponia, itticoltura, animali da cortile; è intensificazione l’uso delle cosiddette pareti piantumate, di vario tipo; infine sono da considerare intensificazione colture multiple, aggiunte provvisorie stagionali, tetti verdi coltivati, colture in seminterrati come quelle dei funghi» (Viljoen, 2005: XIX).
In realtà certe fantasie che si sono scatenate, sia nei progetti che nell’immaginario collettivo, a proposito della ancora molto cosiddetta vertical farm, paiono cogliere assai parzialmente questi spunti, più orientate a una interpretazione libera (a volte casuale) del tema. Una brevissima rassegna di tipologie progettuali può partire ad esempio dalla fabbrica giardino dell’indiana Hero MotoCorp (McDonough, 2014), dove una committenza industriale attenta all’immagine, nonché a certi aspetti tecnologici legati all’ambiente di lavoro, opera sin dall’uso del termine garden factory un approccio ideologico. In altri termini, se si esclude l’aspetto sperimentale innovativo, di agricolo, e di verticale non c’è moltissimo, soprattutto in proporzione agli altri obiettivi del tutto preponderanti di una classica fabbrica modello in ambiente suburbano. Su una superficie complessiva di oltre 80.000 metri quadrati, l’impianto sfrutta la vegetazione per attenuare alcuni impatti visivi, dai giardini e green buffers all’area vera e propria della catena di montaggio, sino al tetto, anche con funzioni di regolazione delle temperature. Un verde con funzioni ambientali, energetiche, che si inserisce virtuosamente nel ciclo delle acque, e anche (infine) nella produzione alimentare rivolta per il momento alla mensa dei lavoratori, e si sostiene in prospettiva anche al territorio locale. Appare però evidente come, a partire da tutti quegli ettari di fatto sottratti anziché restituiti alla biodiversità, alla centralità degli aspetti produttivi industriali, al medesimo modello di fabbrica extraurbana monofunzionale, degli scopi di massima della vertical farm resti assai poco: qualche sperimentazione tecnologica, la logica del chilometro zero e della distribuzione diretta (ma molto privatizzata, discrezionale, chiusa), in un sistema che ricorda più una specie di castello medievale assediato, che non un ideale borgo complementare alle sue campagne e alla natura.
Dal sobborgo giardino, per quanto industriale anziché residenziale, al grattacielo, simbolo principe della città densa contemporanea per eccellenza, la Urban Skyfarm dello studio Aprilli (Robarts, 2014) riassume al massimo livello tutto l’immaginario collettivo attuale riguardo all’agricoltura tecnologica sviluppata in verticale. Concepita per la città di Seul in Corea, ma ovviamente replicabile anche con varianti minime altrove, la skyfarm si ispira formalmente e strutturalmente a un albero. Da un tronco centrale appoggiato alle fondamenta/radici si allargano otto diramazioni raccordate le une alle altre per motivi strutturali. Ciascun ramo sostiene 60-70 piattaforme/foglie per le colture. 145.000 metri quadri complessivi di superficie di pavimento, di cui 44.000 destinati a colture all’aperto, e 9.000 a colture in spazi interni. Un impianto solare da 3.200 metri quadrati sul tetto produce elettricità. Alla base della struttura impianti per depurazione e riciclo delle acque utilizzate nelle colture, un’area dedicata alla vendita diretta dei prodotti, e anche altri spazi pubblici, caffetterie, terrazze panoramiche. Appare abbastanza importante, quindi, l’integrazione funzionale col resto della città, sia in quanto complemento del parco o della piazza, sia per l’interfaccia commerciale distributivo del mercato contadino urbano. Rispetto alla garden factory, poi, salta davvero all’occhio la vera centralità dell’aspetto agricolo produttivo vero e proprio. Piattaforme di coltura orientate nel modo migliore l’esposizione alla luce naturale, e dotate di sistemi di riscaldamento e illuminazione LED per creare le condizioni ambientali ideali alla coltura anche indipendentemente da buone o cattive situazioni atmosferiche (la non interferenza raccomandata da Despommier, 2011). Invece del terreno, teoricamente scaricato dalla pressione agricola e lasciato a riformarsi biodiversità, Skyfarm usa sistemi idroponici. Le sezioni più esposte all’esterno sono sfruttate per alberi da frutto e altri tipi di vegetali che necessitano di maggiore esposizione a aria e luce solare. Nelle fasce meno esposte, essenze che sopportano meglio la coltura all’interno, come le erbe aromatiche. In tutto questo sciorinare coerenze e aspetti positivi, forse resta in ombra il vero rovescio della medaglia: chiunque investa in una megastruttura sperimentale del genere pretende una contropartita, probabilmente non solo economica. Uno degli aspetti di questa contropartita potrebbe essere il rapido accantonamento degli interfaccia spaziali e funzionali con la città, del resto già resi esigui dalla stessa organizzazione fisica verticale, in cambio dello status di cittadella dell’innovazione. In altre parole, se la segregazione della fabbrica giardino era di tipo suburbano classico, con l’azienda agricola dei cieli il problema sarebbe assai simile a quello del controllo militare del territorio (Minton, 2009) tipico di alcune forme di privatizzazione urbana a cavallo tra XX e XXI secolo.
Tutte questioni superate dall’approccio prevalentemente sociale e di ricerca sul campo dell’associazione Growing Power con sede centrale a Milwaukee, Wisconsin, il cui progetto architettonico commissionato allo studio Kubala Washatko (Kubala Washatko, 2014) non rappresenta né un punto di partenza né d’arrivo particolare. Perché Growing Power ha al proprio centro ben altro, ovvero un obiettivo di riqualificazione urbana socialmente sostenibile attraverso lo strumento dell’agricoltura tecnologica integrata col sistema dell’acquaponia (itticoltura e letti di verdure). La questione edilizia è del tutto secondaria, operando da molti anni in varie forme di riuso di contenitori dismessi, con adattamenti minimi, mentre è centrale una vera integrazione urbana in senso lato. Il progetto di architettura Kubala Washatko prevede un edificio di cinque piani affacciato a sud, per circa 2.500 metri quadrati complessivi, con serre che consentono di produrre verdure e erbe aromatiche sull’arco di tutto l’anno. A quanto si classifica in senso molto stretto vera e propria vertical farm, la sede centrale di Growing Power (una associazione con presenza in varie zone del paese e del mondo) aggiunge aule didattiche, spazi per conferenze, impianti di trasformazione, magazzini, frigoriferi, carico e scarico merci: un sistema multifunzionale di attività legate alla produzione urbana alimentare sostenibile. Fine delle vertigini da grattacielo fortezza agricola, fine dell’enfasi sull’high-tech, e spazio al vero senso e scopo delle colture urbane a forte intensificazione: la ricerca di una autentica sostenibilità, cittadina e territoriale/ambientale.
Con questi obiettivi di massima, ovviamente tutti da definire meglio ed eventualmente modulare e contestualizzare, la vertical farm sganciata dalla centralità del progetto di architettura e tecnologico-edilizio inizia, quantomeno, un fruttuoso percorso di sperimentazione nel tessuto umano, economico, spaziale della città, nel quadro delle cosiddette infrastrutture verdi a cui appartiene di diritto. Infrastrutture che aggiungendosi e spesso sostituendosi a quelle tradizionali delle reti grigie idriche, fognarie ecc. mirano sia ad una maggiore sostenibilità urbana, sia ad inserire l’urbanizzato entro la rete ambientale più ampia regionale, sfruttando tutte le possibilità offerte sia da spazi aperti che da tecnologie innovative, che si tratti di serre, orti urbani, tetti verdi e simili.
In particolare, secondo l’ente che discende in modo diretto dall’associazione originaria per la città giardino (TCPA, 2008), un’area o quartiere urbano che voglia dirsi sostenibile, o solo meno impattante sul sistema naturale, deve organizzarsi proprio attorno a questo tipo di rete, e su di essa costruire la propria struttura. Da un punto di vista solo puramente tecnico, ad esempio, infrastrutture verdi composite mettono a disposizione di cittadini e imprese una serie di vantaggi riguardo a efficienza energetica, gestione delle acque, mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, che ridurranno costi e miglioreranno la sicurezza da eventi meteorologici estremi. Come marginalmente accennato ad esempio, nei due progetti citati di garden factory e sky farm, ma con respiro infinitamente maggiore, queste reti rappresentano anche uno spazio continuo gradevole per cittadini e visitatori, contribuendo al benessere sociale ed economico della comunità nel suo insieme, aumentano i valori immobiliari (d’uso e di scambio, meglio sottolineare entrambi gli aspetti). Offrono un ambiente di elevata qualità tale da attirare nuove imprese e che si rivolge direttamente anche al turismo, al tempo libero, all’intrattenimento e ai settori legati alla salute. Costituiscono la base di attività economiche e innovazione: ad esempio le energie da fonti rinnovabili come i carburanti da biomassa dai boschi che fanno parte delle infrastrutture verdi, o la lavorazione e distribuzione degli alimenti prodotti localmente in modo sostenibile.
Solo in quanto parte integrante e integrata di queste infrastrutture, che in pratica altro non sono se non una forma composita e complessa di quanto abbiamo già definito intensificazione urbana verticale e orizzontale (Viljoen, 2005), i sistemi di coltura tecnologica ad alta densità possono provare a rispondere ad alcune questioni aperte. La prima e fondamentale, alla base della riflessione puramente produttiva sulla vertical farm, è quella di provare concretamente a liberare superfici dalle pratiche agricole industrializzate, consentendo un recupero della biodiversità (Despommier, 2011). La seconda, appena citata, è quella di costituire la nuova base, o almeno una base complementare, per una forma urbana e territoriale sostenibile. La terza e ultima consiste nell’evitare il rischio che, come già accaduto prima con l’industria, poi con il classico grattacielo terziario sede centrale della grande corporation, i contenitori edilizi di colture tecnologiche ad elevata densità non diventino cittadelle chiuse e inaccessibili (Minton, 2009) con la scusa della sicurezza, dei brevetti, della risorsa strategica o altro, ma risultino sia al proprio interno funzionalmente articolati, accessibili, e ampiamente inseriti nel tessuto urbano e territoriale.
Infine, come ben esemplificato dagli obiettivi e dalla storia di Growing Power, la vera e propria integrazione urbana deve essere al tempo stesso fisica e sociale, ovvero rispondere effettivamente alle vere emergenze alimentari, come quelle dei cosiddetti deserti urbani, ovvero declinare correttamente lo slogan del chilometro zero o filiera corta. Oggi più che mai appare di vitale importanza «riconoscere come critica la questione dell’insicurezza alimentare, e l’importanza di una agricoltura urbana sostenibile. Metodi sostenibili di produzione alimentare, come quello delle vertical farm, risultano fondamentali per la sopravvivenza stessa del genere umano» (Besthorn, 2013: 198).
(questo saggio è desunto dalla relazione presentata al convegno Paesaggi dell’Alimentazione – Nuovi sguardi verso Expo 2015 – Bergamo 2014; ora in AA.VV. Iconemi 2014, a cura di F, Adobati, M. C. Peretti, M. Zambianchi)
Riferimenti bibliografici
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– Giosan L., Clift P.D., Macklin M.G., Fuller D.Q., Constantinescu S., Durcan J.A., Stevens T., Duller G.A.T., Tabrez A.R., Gangal K., Adhikari R., Alizai A., Filip F., VanLaningham S., Syvitski J.P.M.(2012) “Fluvial landscapes of the Harappan civilization”, Pnas – Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States, vol. 109, n. 26, maggio http://www.pnas.org/content/109/26/E1688/1
– Hall P., Ward C. (1998), Sociable Cities: the legacy of Ebenezer Howard, John Wiley & Sons, Chichester
– Huges W.R. (1919), New Town: a proposal in agricultural, industrial, educational, civic and social reconstruction, The New Town Council, J.M. Dent & Sons, Londra-Toronto
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– McDonough W. & Partners (2014), Hero MotoCorp Garden Factory and Global Parts Center, http://mcdonoughpartners.com/
– Minton A. (2009), Ground control: fear and happiness in the twenty-first century city, Penguin Books, Londra
– Robarts S. (2014), “Urban Skyfarm concept would provide inner city farming space”, GizMag, 15 luglio http://www.gizmag.com/aprilli-design-studio-urban-skyfarm/32954/
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– TCPA – Town and Country Planning Association (2008), The essential role of green infrastructure: eco-towns green infrastructure http://www.tcpa.org.uk/
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– Viljoen A., Bohn K., Howe J. (2005), Continuous productive urban landscapes: designing urban agriculture for sustainable cities, Architectural Press, Oxford