Qual’è il concetto base della mitica resilienza? Quello che sta prima di ogni pur legittima dissertazione e allargamento a contesti diversi da quello naturale? Si tratta della capacità di una comunità di tornare allo stato iniziale dopo una perturbazione: una capacità che cresce quanto più questa comunità si poggia su vari pilastri. Questo poggiarsi su vari pilastri si declina poi ovviamente in diversi modi a seconda del genere di comunità: se si tratta della comunità vegetale di un bosco sarà la varietà di piante e arbusti, nonché il loro cangiante rapporto coi terreni e le esposizioni; nel caso di un distretto economico saranno le diversità delle imprese, delle produzioni, del rapporto col territorio e delle reti, a resistere alla desertificazione in caso di crollo dell’una o dell’altra; in quello di una comunità sociale la diversificazione dei soggetti e del loro criterio di abitazione dello spazio e di intreccio con altri. Inutile sottolineare che quando si parla di resilienza urbana o territoriale, non solo quantomeno si intrecciano queste tre resilienze più elementari, ma ad esse se ne sommano delle altre a varie scale e qualità.
La forza della catena è quella dell’anello più debole
La specializzazione per zone a scala metropolitana spesso ha imboccato però la strada diametralmente opposta, e se ne vedono chiaramente i segni nei cicli di trasformazione che chiamiamo via via crisi, degrado, riuso, recupero, gentrification e così via. Ciascuno, di questi cicli caratterizzato prima dal crollo dell’equilibrio precedente, perché non sostenuto da adeguata diversificazione dei pilastri, e poi da una più o meno faticosa ricostruzione di nuovi equilibri, a volte addirittura più precari per ulteriore semplificazione. C’è il quartiere residenziale piccolo-borghese coi villini cooperativi, dove abitavano da due o tre generazioni capireparto, insegnanti, artigiani, che gli immobiliaristi sequestrano via via approfittando del bisogno, e infiltrano coi corpi estranei di nuove famiglie, assai più ricche, omogenee, e di cultura prevalentemente suburbana, facendo scomparire ogni parvenza di esercizi commerciali. Oppure c’è la zona mista di ex periferia industriale, dove convivono officine piccole e grandi, case a corte, esercizi commerciali sull’arteria centrale, ma certo con un bel po’ di disordine e anche di spazi pubblici. Poi però quando arriva il progetto di “riqualificazione” si scopre che consiste in una specie di pialla sociale: solo loft piuttosto costosi e rivolti a un mercato di giovanissimi imprenditori che mescolano residenza e laboratorio. Al prossimo rilevamento statistico, quella zona per la fascia di età compilerò una unica casella, e così ai censimenti successivi, salvo cambiare casella ovviamente, fino all’estinzione totale degli abitanti, per assurdo.
Gallina vecchia fa pessimo brodo, da sola
Si dice che lo chiede il mercato, che la migliore abitabilità si realizza puntando sulla perfetta corrispondenza fra domanda e offerta, e quindi su quel preciso segmento di popolazione che preferisce quella precisa conformazione spaziale. Ma sono tutte sciocchezze, sciocchezze che purtroppo continuano ad essere prese maledettamente sul serio anche da certi amministratori pubblici affamati di investimenti in riqualificazione, nonché da operatori immobiliari propensi a andare sul sicuro. L’unica sicurezza, è quella di escludere volenti o nolenti i fattori di complessità che potranno in un tempo non lontano ammortizzare qualsiasi crisi. Facciamo un esempio apparentemente stupido: il traffico e la sicurezza stradale innescano sicuramente una crisi, ma dipendono a loro volta da un eccesso di semplificazione sociale e urbanistica. Se c’è una scuola assediata dalle auto, è anche perché i nonni che vanno a prendere i bambini vengono da lontano, abitano altri quartieri, e porteranno i bambini altrettanto lontano con l’auto, verso servizi e destinazioni non disponibili in quella zona troppo monolitica. Perché non abitano lì, quei nonni? Per tanti motivi, certo, ma uno dei tanti è che non esiste un tipo di abitabilità adatto a loro, la città non ha pensato alle loro esigenze, salvo in quanto automobilisti, e infatti sono qui al volante. La cosa si può anche inquadrare nella prospettiva opposta e iniziare a pensare: io anziano di cosa ho bisogno perché la città attorno a me sia più su misura? E prima o poi arriveremo anche alla faccenda delle scuole, incrociando la questione della resilienza con insegnanti, scivoli per disabili, genitori che lavorano, uffici troppo fuori mano, i negozi che potrebbero essere meno costosi … Come si diceva all’inizio insomma. Quante cose, a pensarci bene, da un piccolo sintomo come quello dell’invecchiamento medio della popolazione, che diventa un anello debole della società urbana.
Riferimenti:
Anne Karpf, Our cities must undergo a revolution for older people, The Guardian, 15 marzo 2015