Strana cosa l’idea di città, specie se chi la esprime ha le idee davvero confuse. Capita di continuo che, esattamente all’interno del medesimo ambiente culturale, ovvero qualcosa più ristretto di un partito o gruppo che necessariamente può e deve proporre anche contraddizioni, si parli da un lato di sostenibilità urbana, resilienza, contenimento del consumo di suolo, e contemporaneamente (per bocca di altri che con evidenza trascurano del tutto quegli aspetti) di servizi, residenza, attività, innovazione, in termini che fanno letteralmente a cazzotti col resto. Si sente così straparlare di diritto alla casa, nuove costruzioni o improbabili riusi, e al tempo stesso di orrore davanti all’idea stessa di occupazione di nuova superficie, oppure di impossibile riconversione di superfici urbanizzate a parchi, funzioni naturali, là dove non solo risulta sia tecnicamente che economicamente impraticabile, ma magari nel punto esatto in cui si è manifestata l’ultima esigenza abitativa, a cui seguendo quel filo di ragionamento, rispondere con file di tende da campeggio nel verde che cresce direttamente dall’asfalto. Immagine assurda e surreale, ma che viene davvero evocata ascoltando certe pensate estemporanee del disattento ambientalismo benintenzionato e un po’ disinformato di oggi. Del resto, di ragionamenti abbastanza schizofrenici non manca neppure il cosiddetto pensiero scientifico, specie in campo economico, laddove si ritiene che una volta fissati i termini della ricerca, ci si possa sbizzarrire a piacimento, così come avvenuto di recente proprio sul tema della casa accessibile.
Home sweet home?
Ci sono i tizi graniticamente convinti, ad esempio, che per far costare poco le case si debba procede come si fa per delle palline da tennis: se ne fanno tante, e il costo unitario precipita. È una sesquipedale stupidaggine, perché il «prezzo della casa» (per chi la compra, per chi la affitta da un proprietario che ci ha investito e si aspetta un certo ritorno) dipende da infinite variabili, ma certo, basta circoscrivere bene il perimetro della ricerca, ed ecco la ricettina: più case, più accessibili, facile, no? E giustificare poi la santificazione di quelle «politiche abitative» basate sull’assenza totale di programmazione urbanistica diversa dagli incentivi a costruire, ovunque e comunque, degradando l’ambiente, mettendo le premesse a probabili crisi nel breve periodo, o addirittura producendo quei meccanismi di «mutuo differito da spese di trasporto», là dove casa economica ha significato casa cacciata chissà dove rispetto a qualunque servizio o attività economica. Però poi ci sono anche i «nemici della cementificazione» a prescindere, non meno ideologici e granitici, quelli che al massimo dicono di riconvertire miliardi di metri cubi per uffici a residenza, non sapendo né volendo sapere che non basta dire adesso ci andiamo ad abitare, o cambiare un retino colorato su un piano regolatore, per fare il miracolo. Una apparentemente strana soluzione all’enigma però, era tata trovata dall’amministrazione liberista-ambientalista (un ossimoro, sicuramente) di Michael Bloomberg a New York, quando i suoi dipartimenti tecnici se ne erano usciti con l’idea di concedere abitabilità a veri e propri cubicoli da venti metri quadrati.
Nel cubicolo la città
Pareva stravagante, quella pensata tutta di «mercato», e in fondo analoga a quella degli economisti urbani sganciati dalla realtà: il valore delle case si calcola al metro, meno metri meno soldi da spendere, più accessibilità. Ma stravagante non lo era affatto, e lo si capì presto quando altre amministrazioni cittadine di orientamento vario iniziarono a seguire le orme dei primi interventi, spesso nella scia dei cosiddetti quartieri destinati alla domanda dei Millenials: giovani singoli o coppie senza figli, con uno stile di vita e lavoro fortemente urbano, che si poteva adattare a certe condizioni a quegli spazi. In pratica spendendo come per una superficie diciamo doppia o anche tripla in area suburbana, ci si poteva permettere tutto il lusso della localizzazione centrale, la qualità degli spazi collettivi, la vicinanza dei luoghi di lavoro e svago trendy, la disponibilità immediata di tante cose che normalmente sarebbero state fuori portata. Ma per adesso siamo ancora al progetto, alla visione specifica, e non a caso il mondo conservatore immobiliare ed economico in genere «aspetta al varco» questi nuovi consumatori, ansioso che superino una certa soglia considerata ineluttabile: la formazione della famiglia con figli, e trasferimento nello sprawl di prima seconda terza cintura. E ci risiamo con la contraddizione (stavolta doppia) fra chi vuole la casa e chi vuole la sostenibilità, notoriamente nemica di tutti i consumi individualizzati «opulenti» del suburbio. Ma c’è un modo di leggere il pur parziale esperimento dei microalloggi, secondo una prospettiva che potremmo definire di densificazione virtuale, e che forse potrebbe stupire chi pensa sempre a grattacieli, meno verde o simili. Perché nonostante la vulgata cara soprattutto agli architetti progettisti, esiste una forma di densità che di fatto non richiede davvero nessun genere di trasformazione, o costruzione, magari un minimo di adattamento (e una «filosofia» diversa): è il puro incremento della densità di popolazione, all’interno del quale forse si può ragionare di riqualificazione spaziale, fosse anche per trasformare un alloggio di 100 metri quadrati in tre da 25 con l’aggiunta di altri 25 di uso comune o collettivo. Suona forse banale, ma se pensiamo alla formula di moda del cohousing non dimentichiamo che sfrutta anche questa possibilità, oltre alle relazioni e ai risparmi vari. Guardiamo all’insieme, e capiremo meglio la questione insomma.
Riferimenti:
Alex Armlovich, Free the micro market, U.S. News and World Report, 21 luglio 2016