Abraham Zuraw, Città per autocrati e il futuro dello spazio urbano
In collaborazione col German Marshall Fund, il Chicago Council for Global Affairs ha recentemente pubblicato una raccolta di saggi dal titolo Democracy and the Life of Cities, che ci offre punti di vista da quello delle politiche urbane, tecnico-sociale, politico-amministrativo, considerando le città baluardi democratici in un’epoca di populismo autoritario. I temi centrali della raccolta ruotano attorno all’idea di massima del teorico Benjamin Barber e del suo libro del 2013 If Mayors Ruled the World, in cui si prevedeva una difettosa carente collaborazione a scala globale tra le città e gli stati nazione sui grandi cruciali temi. Come ci ricordano i più recenti sviluppi, le città possono però anche essere simboli di visioni autocratiche che contrastano vivamente con l’idea urbana pluralista e intricata. Quali visioni?
Sono quelle sviluppate da tanti leaders autoritari sullo spazio urbano. Dall’ex presidente Trump, al leader egiziano Abdel Fattah al-Sisi, al principe saudita Muhammad bin Salman, solo per fare alcuni nomi, si concepiscono e provano a realizzare dal nulla nuove città. Megaprogetti di quasi impossibile realizzazione, visto che nel caso di Trump le «Freedom Cities» affondano nella mala gestione finanziaria, e per altre distorsioni analoghe nei casi della Nuova Capitale Amministrativa NAC di Sisi o della NEOM di Muhammad bin Salman. Nsi tratta comunque di una buona proiezione del desiderio di controllo totale sulle dinamiche urbane.
USA: Freedom Cities
A marzo, Trump propone un concorso per progettare dieci «Città della Libertà» su terreno federale. Un’idea che guarda al tempo stesso sia al futuro che al passato nostalgico. Descrivendo Freedom Cities come «un grande balzo in avanti» [Quantum Leap è il titolo di una serie televisiva di fantascienza n.d.t.] e paragonandole al piano autostradale nazionale anni ’50 di Eisenhower o al lancio dei primi satelliti nello spazio, Trump ci promette automobili volanti, nuove occasioni di proprietà della casa, incentivi alle famiglie verso un nuovo Baby Boom demografico. Secondo Trump, la città del futuro assomiglia parecchio al suburbio del passato. In Freedom Cities, la tecnologia consente alla vitalità economica caratteristica della città di coesistere con la cultura e la politica dell’America rurale.
Egitto: la Nuova Capitale Amministrativa
L’Egitto inizia la costruzione della sua nuova Capitale nel 2015, due anni dopo la presa del potere del Generale Sisi con un colpo di stato. Il progetto sarebbe stato inconcepibile prima delle proteste di piazza che avevano contribuito a rovesciare i suoi due predecessori. Nel 2011, settimane di dimostrazioni nella spianata di Tahrir rovesciavano Hosni Mubarak, al potere dal 1981, e nel 2013, le folle anti-Muhammad Morsi spianavano la via all’ascesa al potere di Sisi. Da qui la Nuova Capitale Amministrativa egiziana concepita per isolare il potere dalle strade del Cairo. La nuova città si colloca oltre quaranta chilometri di deserto a est della megalopoli. Etichettata «smart city» è letteralmente tappezzata di telecamere a circuito chiuso e sensori con dati analizzati dall’Intelligenza Artificiale e a disposizione in tempo reale delle forze di polizia.
Arabia Saudita: NEOM
La città ideale di MBS si colloca tra il Mar Rosso e il Golfo di Aqaba inell’area nord-occidentale del Paese. Il sito dedicato ci informa che la parola NEOM unisce il greco «neo» alla M che in arabo vuol dire Mustaqbal, futuro, oltre che ovviamente la prima di Muhammad bin Salman. L’acronimo misto rispecchia l’ambizione del principe MBS per la sua città ideale: un cocktail di occidente e oriente secondo una sua ricetta personale. L’aspetto più curiosamente antiurbano di NEOM è una caratteristica forma: La Linea, centocinquanta chilometri di lunghezza per 250 metri di profondità a clima controllato. Un concetto che vorrebbe in qualche modo superare soggettivamente i limiti religiosi culturali ed economici dell’Arabia Saudita. La città è anche dotata di un proprio statuto fondativo costruito per attirare talenti dall’estero. Allo stesso modo della sua corrispettiva egiziana anche NEOM si fa notare per i discutibili dispositivi interni di sicurezza. Il sistema tecnologico che attinge da telefoni, rilevazioni di battito cardiaco, riconoscimenti facciali da telecamere.
Democrazia e Vita Urbana
Nella loro introduzione al libro collettivo su questi temi i curatori Samuel Kling, Florita Gunasekara, e Steven Bosacker sostengono che la vita urbana sia «densa, diversificata, dinamica, a volte caotica, unendo persone di diverse identità risorse e prospettive in uno spazio relativamente prossimo» e facilitando così il processo democratico. Dalla realtà spaziale delle città emerge una politica «urbana» integrata, cosmopolita, pragmatica grazie anche al processo da basso dei gruppi che premono per il diritto allo spazio.
Ma come scrive il critico di architettura Blair Kamin nel suo contributo su Densità e Democrazia: «non c’è niente di garantito nell’idea di città come bastione di democrazia». Trump, Sisi, o MBS, portano questa assenza di garanzia all’estremo, offrendo una prospettiva sulla realtà spaziale e sociale della città autocratica. Questi spazi sono tutto fuorché urbani: evasive fantasie ruraliste, concentrazioni di palazzi e piazze per le folle o le sfilate, o magari centri commerciali introversi ad elevata sicurezza. Dietro le descrizioni di questi megaprogetti mozzafiato (dove le versioni inglesi dei siti dedicati ripetono centinaia di volte il lemma «smart») emerge disagio e incertezza per il futuro delle città vere. Trump storicamente è un candidato indigeribile per gli abitanti dei grandi centri, e i suoi risultati elettorali rafforzano l’idea di una contrapposizione urbano-rurale, con le città Democratiche e le campagne Repubblicane. Sisi cerca di evitare il destino dei suoi predecessori tra una economia stagnante e una capitale che è tra le città più inquinate del mondo, MBS affronta l’assenza di strutture del suo paese adeguate a un rapido sviluppo, a una popolazione giovane, ad una rampante urbanizzazione.
Costruire città ideali dal nulla, libere dai problemi di quelle esistenti, per gli autocrati vuol dire affermare una propria opzione sul futuro. Come successo con Versailles o San Pietroburgo, le città ideali del ventunesimo secolo rispecchiano ambizioni e ansietà dei loro costruttori. Per adesso restano in sostanza limitate a qualche pagina web promozionale, immagini rendering 3D, qualche raro sonnacchioso semideserto cantiere. Pare che né Trump, né Sisi, né MBS, abbiano tutta questa fretta di realizzare le proprie visioni urbane. La città futura quando fa il proprio ingresso nel presente perde parecchia della propria lucentezza, e probabilmente i suoi sponsor hanno deciso di scovare nuovi diversi motivi per proclamare che il futuro gli appartiene di diritto.
da: The Chicago Council for Global Affairs, 31 maggio 2023; Titolo originale: Cities for Autocrats and the Future of Urban Spaces – Traduzione di Fabrizio Bottini
Blair Kamin, Densità urbana e democrazia dalle origini ai nostri giorni
La densità urbana favorisce la democrazia oppure no? Con tante città Usa sedimentatamente progressiste e che sostengono maggioranze e candidati alternativi alla tossica miscela di autoritarismo e negazione della verità elettorale espressi dall’ex Presidente, Donald J. Trump, la risposta sembrerebbe essere un deciso SI. Ma non c’è nulla di naturale e lineare che faccia delle città dei bastioni di democrazia. A ben vedere nel passato, anche impostanti pensatori come Thomas Jefferson hanno descritto le grandi metropoli come formidabili – per non dire esistenziali – minacce alla democrazia. Oggi, quando oltre la metà della popolazione mondiale abita in aree urbane, e le città americane alle prese con problemi endemici, dalla violenza armata, agli homeless e alla questione delle abitazioni, occorrono nuove prospettive e politiche perché esse sappiano rispondere efficacemente ai bisogni di vita dei propri abitanti, dimostrando di meritarsi quella qualifica di fondamenta del progetto democratico.
La mia esperienza al Chicago Tribune, in gran parte seguendo per 22 anni consecutivi il regno del più longevo Sindaco della città, Richard M. Daley, conferma il bisogno di uno sguardo disincantato verso una città in cui si costruisce la democrazia con la «d» minuscola. Nel caso di Daley, il termine «regno» pare adeguato visto che il sindaco ha gestito la città – la terza più grande del paese — come se fosse un sovrano pure democraticamente eletto. Daley è salito al potere grazie al consenso elettorale delle urne, ma quel potere l’ha esercitato in stile molto top down, come nel noto (famigerato) «assalto di mezzanotte» per chiudere un piccolo scalo aereo sulla sponda del lago vicino al centro di Chicago. Per anni, i governatori dello Stato dell’Illinois avevano frustrato tutti i tentativi di Daley di convertire quel pochissimo usato aeroporto di Meigs Field, in un parco.
Ma quella notte del 30 marzo 2003, poco più di un mese dopo che Daley si era conquistato il quinto mandato consecutivo con una percentuale del 79% dei voti, le ruspe dell’amministrazione cittadina city entravano a scavare sei solchi a forma di grandi X dentro la pista di atterraggio di Meigs Field, bloccando temporaneamente 16 aerei privati. La cruda manifestazione di potere seguiva il criterio del «Colpisci adesso chiederai scusa dopo». Salvo che Daley non chiederà affatto scusa. Continuerà a ribadire anche alla stampa che quella chiusura era perfettamente giustificata dal pericolo che i piccoli aerei dello scalo Meigs si schiantassero sui grattacieli del centro facendo una strage: una affermazione assurda comparando le dimensioni di quelle pulci volanti rispetto ai jet che avevano demolito il World Trade Center meno di due anni prima. Ma Daley andava avanti imperterrito. Oggi quello spazio è usato per concerti verde pubblico e un po’ oasi naturale: una sorte del tutto nobile a cui si è arrivati con metodi perfettamente ignobili.
Quell’assalto di mezzanotte, insieme a una torbida vicenda di appalti per i parchimetri, la più discussa eredità dell’altrimenti abbastanza efficace gestione Daley, dovrebbe fungere da spia di allarme a chi pensa che le città siano sempre e comunque un bastione di democrazia. Quell’idea ottimista secondo cui «i sindaci fanno le cose» invece dei governi nazionali paralizzati dalla faziosità politica, finisce per oscurare quelle potenziali scivolate di azione sbrigativa unilaterale che emanano dai palazzi del potere locale. Tensioni che non si verificano soltanto a Chicago naturalmente. Il classico processo di scontro dell’autocrate che agisce top-down contro i cittadini e il loro processo partecipativo democratico bottom-up è quello di Robert Moses contro Jane Jacobs negli anni ’60 quando Jacobs fermava i progetti di Moses di far attraversare da una autostrada urbana il Washington Square Park al Greenwich Village, vicenda ricordata oggi sul palco off-Broadway nella commedia Straight Line Crazy.
Un esempio più recente di processo di contestazione di base contro le decisioni di vertice è quello cinese in cui la dirigenza nazionale è stata obbligata ad allentare le draconiane disposizioni «zero-COVID», comunicando quell’idea della città come diffusore di democrazia. È la densità urbana, dopo tutto, a promuovere le enormi concentrazioni dei contestatori. E in modo analogo vie e piazze cittadine sono i palcoscenici e luoghi di ripresa ideali da cui i dimostranti mandano il proprio messaggio a un pubblico globale. Pare davvero difficile immaginare che quelle proteste avrebbero avuto il medesimo impatto in qualche remoto villaggio rurale. Ma il potere comunista rimane saldamente in sella, chiarendo le idee ai paladini della democrazia in un paese come la Cina dove le città sono le più grandi e ancora in crescita.
Negli Stati Uniti, dove si avvicina il 250° anniversario della nascita, le città sono state considerate in modi decisamente opposti da egualmente acuti osservatori e costruttori di democrazia, primo fra tutti Jefferson. Al principale Autore della Dichiarazione di Indipendenza e terzo Presidente nazionale, le città appaiono come minaccia mortale ad una sana politica. Quei luoghi così densi e stipati, ritiene Jefferson, sono brodo di coltura per malattia e corruzione. Il suo cittadino democratico ideale è il coltivatore autosufficiente che fa crescere ciò che mangia si produce ciò che indossa costruisce la propria abitazione. Al contrario l’abitante della città dipende da altri per tutti questi bisogni e dunque, a parere di Jefferson, non è libero. Peggio ancora, osserva, le città tendono ad attrarre un sottoproletariato disoccupato che minaccia la stabilità sociale. «Le masse delle grandi città sono per un governo ideale ciò che rappresentano per un corpo umano sano le piaghe» scrive Jefferson. La dispersione è da preferire alla densità insomma, un concetto che anticipa quell’articolarsi del potere politico che sarà nella Costituzione su tre distinte branche di governo.
Ma si noti quanto la posizione sia più anti-urbana che anti-cittadina. Come Alexis de Tocqueville, l’aristocratico francese che studia per gli Stati Uniti fra il 1831 e il 1832 riferendone nel classico la Democrazia di America Democracy in America, e secondo cui Jefferson ammira l’autogoverno delle cittadine nel New England considerandolo un modello da applicare nella colonizzazione delle zona a ovest degli Appalachi. Secondo quello spirito, la «US Land Ordinance» del 1785 crea circoscrizioni amministrative della superficie di circa quindici chilometri quadrati, che possono essere suddivise poi in lotti di proprietà privata, antenato dello schema a scacchiera che si può osservare ancora a oggi sorvolando una qualsiasi zona del Midwest americano. Ai primi teorici della democrazia il paesaggio di piccole fattorie attorno a un piccolo villaggio appare l’ideale modello di autogoverno, in cui geografia e relazioni di potere si completano a vicenda.
Come ha scritto Garrett Dash Nelson sul Places Journal nel 2018, «La visione di poche migliaia di uomini che governano i propri interessi condivisi abitando in condizioni al tempo stesso modeste ma ricche appare la perfetta negazione della monarchia europea, dell’aristocrazia grandiosa che comanda sul popolo schiacciato divorando territori sempre più vasti dentro il potere di stati imperiali». A dire il vero queste visioni scavalcano senza vederle tante prospettive di personaggi sia reali che letterari, come protagonisti di Sorella Carrie di Theodore Dreiser, via nel 1900 dal piccolo centro verso la grande città più libera e cosmopolita. Quella fulminea urbanizzazione industriale di fine ‘800 a Chicago e altrove fa delle piccole cittadine un relitto di un’altra epoca. L’enorme dimensione della metropoli indebolisce sia i contatti personali sia quelli più indiretti di familiarità con le questioni sociali.
Le conseguenze dell’urbanizzazione di massa, accentuate da propaganda e altri metodi di manipolazione, sono profonde, come osserva nel 1922 Walter Lippmann nel suo libro Public Opinion: «Il guasto della democrazia sta nella preoccupazione di cercare le origini del governo invece dei metodi e dei risultati. Il democratico dà per scontato che se il potere deriva dalla fonte giusta nel modo giusto sarà benefico. Tutta l’attenzione sulla fonte da cui deriva il potere, ipnotizzati da quanto sia grandioso esprimere la volontà del popolo. […] Ma nessuna regolazione alla fonte di un fiume potrà mai controllarne il corso». Ronald Steel la fa più esplicita nelal sua biografia del 1980, Walter Lippmann and the American Century: «Se la teoria democratica afferma il popolo sovrano, in pratica quella sovranità significa potere di dire SI oppure NO, cacciare vecchi furfanti e sostituirli con nuovi».
Il che ci riporta al sindaco Daley, che il popolo di Chicago non cacciava mai dal potere. Eletto per la prima volta nel 1989, viene riconfermato poi cinque volte fino alle dimissioni del 2011: 22 anni che superano il record precedente detenuto da suo padre, Richard J. Daley, sindaco della città dal 1955 al 1976. Daley II restaura la normalità a Chicago dopo il tumultuoso periodo chiamato «Council Wars» in cui il tradizionale potere bianco maggioritario in consiglio impediva le riforme di Harold Washington, primo cittadino nero. Una lotta interna così aspra che il Wall Street Journal intitolava «Chicago Beirut sul Lago». Daley riusciva ad ammaestrare il Consiglio trasformandolo in una fedele assemblea di burocrati che sanzionavano le sue decisioni. Trasformazioni urbane di eleganti arredi fioriere su smisurati tratti di arterie come Michigan Avenue. Grandiosi progetti come il famoso Millennium Park, dove l’apprezzata arte pubblica di altissimo profilo (come il Cloud Gate di Anish Kapoor) attira orde di turisti e milioni di dollari in centro. Tutto per dimostrare che Chicago non faceva la fine di tante altre città del Midwest come Detroit svuotate da qualche crisi economica o industriale. Soprannominata «città che lavora» ai tempi del primo sindaco Daley, Chicago, il regno di Daley Secondo, diventa un parco a tema postindustriale, almeno per chi abita il ricco North Side. Certo, si pensa, Daley sarà un autocrate, ma un autocrate adatto ai tempi in grado di promuovere il progresso tutelare l’ambiente e fare di Chicago «la città più green d’America». Pugno di ferro con pollice verde.
Sotto questa patina brillante tuttavia restano aperte almeno due questioni: la città sta davvero lavorando? E per chi fa quel lavoro? A ben vedere la furia devastante del potere di Daley ha già deragliato, sia perché anni e anni di autocrazia indeboliscono il sistema di equilibrio dei poteri cittadini. Un tacito accordo faceva sì che a livello cittadino nessuno discutesse il potere del sindaco mentre i 50 consiglieri imperavano sulle proprie circoscrizioni elettorali. Il più evidente esempio di crisi della governance: un accordo del 2008 per privatizzare la gestione dei parcheggi. In cambio di un versamento pronto cassa di 1,16 miliardi, un soggetto privato composto da investitori come Morgan Stanley e la Abu Dhabi Investment Authority, otteneva l’esclusiva di gestione con contratto di 75 anni dei parchimetri. Invece di esaminarlo quell’accordo, l’ossequioso Consiglio cittadino di Chicago lo approvava come se fosse l’ordinazione di una pizza, per così dire. Nel breve termine, l’accordo consentiva a Daley di non gravare sulla fiscalità locale delle tasse immobiliari, ma dovevano ancora farsi sentire gli impatti negativi di lungo termine che arrivano sino ad oggi. Il Chicago Sun-Times riferiva nel 2022 che con ancora più di 60 anni di contratto esclusivo davanti quei privati avevano già recuperato l’intero investimento e guadagnato oltre 500 milioni di dollari. E avanti nei decenni di questo secolo miliardi di soldi dai parchimetri si riverseranno dentro le tasche dei medesimi privati invece di mantenere più bassi i tributi locali, o pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, o i loro fondi pensione. E questa cosa dei parchimetri non è neppure un gran problema di Chicago.
Quello davvero più urgente, il persistere della violenza armata che fa centinaia di vittime nella fascia Sud e Ovest della città, pur migliorata un po nel 2022, resta comunque l’evidenza più chiara ciò che è diventata Chicago: una città a due volti, uno (soprattutto bianco) prospero; l’altro (nero e di minoranze) che continua a subire le conseguenze di anni e anni di discriminazione, mancati investimenti sociali, deindustrializzazione. Né Daley sé il successore nominato, Rahm Emanuel, sindaco dal 2011 al 2019, hanno mai affrontato efficacemente quel problema, provocando un vero e proprio esodo di afroamericani da Chicago che non ha precedenti nella storia.
La progressista Lori Lightfoot, ha assunto un atteggiamento diverso da quello dei suoi predecessori tutto focalizzato sul centro, con un programma che investe 2,2 miliardi di risorse pubblico-private nella rigenerazione urbana di arterie cittadine commerciali in dieci zone del Sud e dell’Ovest. Significativamente, quel piano «Invest South/West» utilizza il modello pubblico-privato, che tradizionalmente si orientava a progetti come il centralissimo Millennium Park. Ma anche Lightfoot viene spesso accusata di agire in modo dittatoriale, come nel caso dell’accordo per il primo casinò di Chicago. Nel febbraio 2023, gli elettori di Chicago stufi di quello stile troppo combattivo e provati dall’ultima ondata di criminalità, ne affossavano la candidatura. Pare che più alta sia la posta in gioco più i sindaci siano tentati di agire unilateralmente.
Dove dobbiamo guardare alla ricerca di qualche esempio della correlazione tra città e democrazia? Se altrove esistono esempi di controbilanciamento di poteri esecutivi, solo un vero naïf politico cercherebbe di applicarli a Chicago. I consiglieri sono magari propensi a rappresentare gli interessi dei propri collegi, nella logica parecchio discutibile detta «aldermanic prerogative» in cui controllano di fatto l’urbanistica dei quartieri, ma ciò produce corruzione. Oltre 30 rappresentanti eletti sono stati condannati o addirittura imprigionati per reati amministrativi dal 1972, calcolava il Chicago Tribune nel 2022.
Gli attivisti sul territorio che sono i discendenti di Jane Jacobs promettono un sistema di potere che emana dalla base. Ma come ha osservato Ezra Klein sul New York Times, certa militanza diventa strumento di deresponsabilizzazione. Nei quartieri imperversano ricchi NIMBY che magari bloccano la realizzazione di complessi di case economiche, impediscono mobilità sociale ai bassi redditi che dipendono dalla crescita economica urbana. Anche tanti residenti della città paiono aver assunto un atteggiamento di «Ma che importa?». Sul sito del Manhattan Institute, centro studi conservatore, nel 2021 un titolo riassumeva il fosco orizzonte: «Emerge il declino nelle elezioni delle grandi città – Un problema di qualità democratica». Ma se è in qualche modo inevitabile che la densità sia stata la culla della democrazia, dovrebbe non valere il contrario, che città e formazione di democrazia si escludano a vicenda. Se non altro con la densità si costruisce la precondizione al tipo di associazionismo volontario per l’autogoverno che già Tocqueville considerava ingrediente essenziale della democrazia americana.
Ne consegue che al centro delle politiche urbane dovrebbe sempre stare l’impegno dei cittadini. Ma rivangare il passato può non essere una risposta adeguata soprattutto nel post-pandemia che ha spinto ad una separazione fisica. Un percorso più promettente di rivitalizzazione delle aree urbane, e della fiducia collettiva di inserirsi in un processo politico, è la consapevolezza che la propria voce verrà ascoltata, che la partecipazione produrrà risultati tangibili, in grado di migliorare la vita. Il medesimo approccio potrebbe e dovrebbe riguardare l’obiettivo urgente di ricostruzione delle downtown, il cui futuro è a rischio a causa del fortissimo tasso di inutilizzazione dei palazzi a uffici determinato dal telelavoro. Non basta che le città votino contro candidati autoritari nelle elezioni nazionali. Si deve lavorare anche a livello locale, sul territorio, non solo per gli abitanti in sé, ma dimostrare che in un mondo sempre più urbanizzato continua a funzionare anche la democrazia.
da: Samuel Kling, Florita Gunasekara, Steven Bosacker (a cura di), Democracy and the life of cities, Chicago Council of Global Affairs, 2023; titolo originale: On Density and Democracy: Lessons from Foundational Thinkers and Recent Experience in Chicago – Traduzione di Fabrizio Bottini