A volte i laboratori sono indispensabili, sia per l’innovazione che per la pura sperimentazione, e il termine si può tranquillamente allargare senza alcuna difficoltà concettuale anche a situazioni complesse che nulla hanno a che vedere con la relativa sterilità e oggettività evocata dal termine. La cosa importante, fondamentale anzi, è ricordarsi sempre che di laboratori si tratta, e non di un campione di realtà: tutto ciò che ne esce non deve essere confuso con una fettina di mondo da riversare statisticamente dentro l’universo di riferimento. Quando la cosa succede, si tratta di un errore, e chi non lo riconosce è in spudorata malafede. Peggio ancora quando questa malafede non è neppure pienamente intenzionale, ma in realtà «ideologico-specialistica», ovvero quando una delle tante prospettive di osservazione scientifica della realtà si arroga il diritto di collocarsi sopra le altre, comprenderle o meglio ignorarne l’esistenza quando non coincidono con alcune proprie conclusioni. Uno di questi laboratori, è il cosiddetto deserto alimentare urbano, per giunta laboratorio da due punti di vista non necessariamente sovrapposti: quello territoriale, e quello socio-sanitario-culturale. A titolo di promemoria per chi incrociasse questa terminologia per la prima volta, si considera deserto alimentare urbano uno spazio a vario titolo sottoservito in termini commerciali, e con un portato visibile e consolidato in termini di disagi e patologie.
La formazione del ghetto
Dato che si sono date due definizioni non necessariamente coincidenti di spazio e società, forse è meglio chiarire subito che il deserto alimentare è là dove queste si incrociano. Ovvero dove esistono uno spazio sottoservito commercialmente, e una società che non riesce per vari motivi a superare quella carenza di servizi. Il luogo tipico è un quartiere segregato, povero, dove il libero mercato non ha ritenuto conveniente insediare negozi alimentari tali da costituire una offerta equilibrata, e consentire localmente una dieta altrettanto equilibrata. E dove sinora naturalmente nemmeno vari interventi correttivi pubblici, là dove sono stati tentati (predisposizione di strutture, incentivi fiscali e simili), hanno dato risultati rilevanti. Perché ad esempio nessuno mai si sognerebbe di chiamare deserto alimentare un posto dove non esiste alcun esercizio di generi alimentari per chilometri, ma dove tutti sono sanissimi perché mangiano benissimo rifornendosi in qualche supermercato o pranzando al ristorante in luoghi lontanissimi da casa, che raggiungono di solito con costosi mezzi propri. Per questo tipicamente il deserto alimentare è legato alla povertà, ma non solo, esiste anche l’altro fattore indiretto legato alla povertà nelle economie liberali, ed è anche la relativa povertà culturale, informazione, istruzione, cultura igienico-alimentare. Ovvero la diffusione di una serie di comportamenti abituali per nulla sani, dal consumo di cibi industriali, agli eccessi di grassi, zuccheri, alcol e via dicendo. Per questo si sottolineava la presenza dei fattori concomitanti ma distinti spazio/società, dato che sono due cose ben diverse per quanto sovrapposte in un unici problema.
L’integralismo fazioso degli specialisti
Come sa chiunque abiti in luoghi ben serviti dal punto di vista commerciale alimentare, e contemporaneamente ben articolati da quello della presenza di varie fasce culturali e classi sociali, certi consumi di alcuni segmenti non dipendono certo dall’assenza di alternative. E tra i fattori più facilmente calcolabili delle classi sociali c’è sicuramente il reddito, del resto anche in parte una discriminante sia per l’accesso a certo commercio alimentare (migliori qualità sono più care), sia per l’eventuale accesso regolare ad esercizi posti a notevole distanza dall’abitazione. Ma stiamo comunque parlando di città, di organizzazione urbana, comportamenti, consumi, propensioni, culture, percezioni. Ovvero pur osservando le cose in una prospettiva specialistica, dissezionata, non va scordato che il «laboratorio» di riferimento resta comunque il quartiere, la composizione spazio-sociale che si definisce deserto alimentare sovrapponendo i due fattori dell’offerta e dei comportamenti. Il fatto che la fascia sociale e culturale detta dei «poveri», ovvero chi manifesta caratteristicamente e localmente alcuni consumi e patologie alimentari, abbia redditi bassi, giustifica sostenere la tesi secondo cui «il problema dei deserti alimentari ha più a che vedere col reddito disponibile che con l’offerta locale»? Pare l’ennesima perversione da economisti, troppo abituati a considerarsi in qualche modo primus inter pares in qualunque ambito potenzialmente interdisciplinare. E non bastano tutte le formule e dati dell’universo a convincere il sottoscritto, che ci sia parecchia perversione ideologica liberale, nascosta dietro quelle scientifiche tabelle: se guadagnassero di più mangerebbero meglio, altro che quartieri più vivibili, o più informazione, o più servizi … Mah!
Riferimenti:
Hunt Allcott, Rebecca Diamond, Jean-Pierre Dubé, The Geography of Poverty and Nutrition: Food Deserts and Food Choices Across the United States, paper 2017 (bozza di articolo scaricabile liberamente da Drive Città Conquistatrice; la versione pubblicata in questi giorni, commentata da Richard Florida in CityLab, è su un sito a pagamento)