Passiamo la vita a fare libere scelte: ma è proprio vero? Apparentemente si, visto che le alternative che si dispiegano davanti ai nostri occhi parrebbero piuttosto chiare: c’è qualcosa che ci aggrada molto ma di solito va oltre le nostre capacità di spesa (o la disponibilità a «spendere» qualcos’altro, come energie o tempo), e in genere arriviamo alla soluzione di più ragionevole compromesso, magari un po’ azzardato e comunque compromesso. Abbigliamento, alimentazione, trasporti, tempo libero, lavoro, istruzione, cultura – nostri e per chi ha qualcuno che dipende dalle sue scelte anche altrui – tutto si presta ed è oggetto di scelte continue del genere. Ci sono però molte di queste opzioni parecchio condizionate da altre, meno evidenti premesse diciamo così di contesto, ed è proprio questo contesto sovrastante a sfuggire spesso alla visibilità immediata, nel suo ruolo di deus ex machina, a modo proprio risolutore autoritario di conflitti interiori. La macchina da cui spunta la divinità oggetto di queste e altre note, la chiamiamo per brevità «territorio» ed è l’impasto di parecchi fattori: storici, sociali, economici, ambientali, culturali. Così complessa che, per tagliare ironicamente il nodo gordiano, ormai anche la satira parla di territorio, l’ha detto il territorio, ascoltiamo le voci del territorio, la cucina di territorio, le istanze del territorio. Che vuol dire? Boh, appunto.
Deus ex machina territoriale
A ben vedere, le nostre libere scelte davanti alle dispiegate alternative si fanno assai meno libere e chiare, quando proviamo a guardare in faccia la poderosa macchina teatrale che guida la nostra esistenza «dal territorio». Lì dentro siamo capitati per scelta (non libera) o per caso, ma da quello dipendiamo, ed è meglio considerarlo. Pensiamo alle due classiche polarità della città e della campagna, o per meglio dire del nucleo metropolitano centrale e delle fasce suburbane a densità decrescenti. Perché dalle parti nostre la «campagna» (un luogo dove la soverchiante maggioranza del reddito nasce dal lavoro nel settore primario e relativi servizi) è cosa rarissima, con buona pace dei campagnoli per finta e per hobby. Se sto in città le alternative che mi si presentano davanti sono di un certo tipo, se sto in campagna di un altro, e provare ovunque si stia a considerale in quel modo forse aiuta a capire meglio il contesto. Solo per fare alcuni esempi: i consumi di alcuni beni durevoli, dall’auto agli elettrodomestici si presentano in forme diversissime, molto obbligatorie e omologate nella bassa densità, assai più lasche e aperte (ma con vincoli economici e di collocazione culturale) nei nuclei centrali; anche la scelta dell’abitare, ad esempio in affitto o in proprietà, con soluzioni segregate o condivise, con più o meno marcato «stigma sociale» cambia radicalmente a seconda che ci si trovi in un posto o nell’altro.
La Mano Livellatrice del Mercato
In questi tempi di ideologia mercatista dilagante, però, il vero e proprio martellamento mediatico che circonda i nostri consumi pretende anche di illuminare di luce messianica i due contesti, fondendoli in una unica luce, dove «territorio» si confonde artatamente con «ambiente di vita liberamente scelto». Perché accada questo, è facile da capire se ricordiamo il processo di sviluppo che ci ha portato sin qui, da due o tre generazioni almeno: il tutto il nostro mondo occidentale si è compiuta una scelta di crescita urbano-industriale che chiamiamo brevemente «consumismo», e che mira a farci consumare per realizzare soddisfazione quanto più possibile. Esiste un mercato che chiameremo suburbano, dei consumi quantitativi (a costi unitari inferiori), e un altro mercato distinto dei consumi urbani di fascia superiore, in parte «smaterializzati», più qualitativi, a costi unitari anche di parecchie volte superiori. L’idea è che esistano, magari non chiarissimi ai cittadini-consumatori, ampi canali di comunicazione e ricambio tra i due mercati, per renderli più vitali e integrati tra loro. Canali su cui si spostano a propria insaputa le fasce di reddito, di cultura, di età e stato sociale. L’ultima trovata ideologica (per ripeterci che si tratta di «libera scelta») è quella della generazione dei cosiddetti Millennials, o classe creativa che dir si voglia. I quali finché giovinotti e giovinotte pimpanti pompano denaro ed energie dentro quartierini gentrificati dai consumi urbani opulenti e trendy, ma poi farebbero consapevolmente e liberamente un salto da un territorio all’altro. Quando? Quando si appesantiscono di famiglia, scoprendo d’incanto le gioie dei consumi quantitativi di auto, villetta, giardino privato e refrigeratore da due metri cubi. Perché il mercato urbano per loro non ha una soluzione a prezzi accessibili. Possibile che non si capisca, la presa per i fondelli? Leggere, tenendo ben strette le pinze di sicurezza mentali, sia l’articolo business is business linkato, che il rapporto scaricabile dell’associazione degli immobiliaristi.
Riferimenti:
Diana Olick, The Young And The Restless: Millennials Ditch Cities For Suburbs, NBC Business News, 9 marzo 2016
National Association of Realtors, Home buyer and seller generational trends, rapporto 2016 (scaricabile in calce alla pagina di presentazione)