Quando arriva il developer, prima o poi a stretto giro segue per forza il builder, che opera tutte le sue trasformazioni inevitabilmente brick & mortar. Questo inizio un po’ tristemente anglo-caricaturale, solo per sottolineare una cosa: chi vi parla di sviluppo del territorio mente sapendo di mentire, oppure proprio non lo sa ed è pure peggio. Perché il concetto, ormai vivo e vegeto da una trentina di anni abbondante, gioca sull’equivoco della parola development, che certamente uno di quei traduttori automatici di Google potrebbe anche scodellarvi pronto sul desktop come sviluppo, ma che vuol dire invece nella quasi totalità dei casi, accostato a territorio, trasformazione edilizia e infrastrutturale. Ciò che si sviluppa, che si articola modificando la situazione, non sono vagamente tutte le speranze, aspirazioni, idee, ma assai più terra terra mattoni, calcestruzzo, asfalto, acciaio, vetro, plastica e resine varie, che chiudono metri quadri di terra e metri cubi d’aria nel loro development. Ma non si tratta certo della confusione di chi nella fretta ha scorso troppo rapidamente il dizionario.
L’inciampo logico dei madrelingua
Nei posti dove il significato plurimo del termine development se lo ciucciano col latte, ed è molto più difficile far fesse le masse con quattro ambigue balle raccontate con la giusta enfasi dallo “studioso” comprato di turno, il dibattito sul cosiddetto sviluppo del territorio si deve svolgere ruotando ad altri temi più seri ed espliciti, come green belt oppure in altri contesti urban growth boundary. I due concetti sono analoghi, salvo che il primo della cintura verde nasce dall’esigenza di evitare, nella Gran Bretagna dell’industrializzazione matura ottocentesca, la cosiddetta conurbazione, ovvero la saldatura degli insediamenti e la cancellazione di campagne e spazi naturali in quanto tali. Il secondo, più recente, e usato in posti assai più ricchi di spazio come gli Usa, il Canada, l’Australia ecc., fissa un confine alla crescita degli abitati soprattutto per promuovere un maggiore equilibrio locale e regionale, di solito in presenza di un unico centro dominante. Ma l’idea di fondo non cambia: qui c’è la città, lì non c’è, e gli obiettivi sono di conservare quella situazione di massima, governando le trasformazioni per lasciarla identica. In sostanza, si qualifica preventivamente la parola development, e ovviamente si scatena il putiferio.
Tutto il mondo è paese
Perché anche lì, naturalmente, abbondano come ovunque i palazzinari e i loro sostenitori, quelli convinti che la terra sia stata data all’uomo per farci sopra tanti metri cubi, da chiamare di solito casa, oppure a volte anche emergenza abitazioni, se serve. Ma quando sono chiari gli obiettivi della green belt o degli UGB, è più difficile contestare logicamente un assunto che è valido da secoli, addirittura prescritto da diversi passaggi della Bibbia. E allora la strategia diventa quella di non parlarne: le persone ragionevoli dicono parliamone, del perché sia necessario ignorare la green belt e costruirci sopra case e strade e reti tecniche, visto che i suoi presupposti ambientali mica sono cambiati. E gli sviluppisti replicano: ci sono le esigenze economiche, ci sono le emergenze sociali, ce lo chiede l’Europa, o chissà chi. Ma mai, e poi mai, entrano nel merito. La cosa interessante, però, è che in presenza di un concetto così chiaro e definito, tutta la discussione è trasparente, e al massimo si possono accusare gli schieramenti di attribuire valore inferiore o superiore a un aspetto della faccenda, o di ignorarlo del tutto. Ecco, magari fosse così anche dalle nostre parti, dove basta mandare su un palco un pirla qualsiasi a raccontar balle, perché tanto tutto è discrezionale, “politico”. E poi si stupiscono perché spunta la cosiddetta antipolitica.
Riferimenti:
The green belt: outmoded ideals about urban sprawl do no one any good, The Observer, 26 ottobre 2014