Pare certamente positivo che, in fondo seguendo virtuosamente e per l’ennesima volta l’intuizione di Jane Jacobs e non solo, l’interesse a proposito delle città si sia spostato abbastanza chiaramente da un approccio monolitico sulle immobili pietre (in senso lato, ovvero tutto ciò che interessa quasi solo architetti e ingegneri), giusto con qualche propaggine economica-sociale, a una visione assai più fluida, a partire dall’integrazione dei flussi materiali e immateriali. Come già accaduto però nel ‘900, quando la prima sintesi detta «urbanistica» finì appunto per suicidarsi per eccesso di presunzione (dentro l’edilizia e le infrastrutture materiali ci stavano molti interessi, ma non si esauriva certo «la città»), anche oggi qualche semplificazione esagerata rischia di non fare benissimo neppure al nuovo virtuoso trend. Il ruolo sedicente salvifico della bicicletta è probabilmente l’aspetto più vistoso e nuovo di questo rischio di semplificazione, e i motivi dovrebbero se non altro apparire chiari, anzi lampanti. Partiamo infatti da una specie di anno zero dell’automobilismo monopolistico pigliatutto, e siamo ancora in una situazione in cui tanti grandi manager del settore si sentono in dovere di dettare le linee dello sviluppo mondiale, climatico, economico, dell’immaginario, figuriamoci di quello urbano. E c’è lì a guardare la ex sorella povera a due ruote, pronta a entrare in campo senza tante storie.
Survival for the fittest?
Forse non è affatto un caso, se la bicicletta moderna e la carrozza senza cavalli (e senza binari) moderna nascono più o meno contemporaneamente a cavallo tra i due secoli scorsi. Cioè non è affatto un caso se il mondo che si evolve attorno a loro è lo stesso, e con entrambe entra in qualche modo in risonanza. Ma qui iniziano certe differenze speculari, tantissime, di cui la principale si capisce solo molto molto tempo dopo, ovvero che la bicicletta è come si suol dire «amica dell’ambiente», ovvero soprattutto non avvelena l’aria pompandoci dentro gli scarichi della combustione di benzina e di tutti gli altri attriti che combina un trabiccolo complesso da una tonnellata sguinzagliato in giro in quel modo. Ma appunto quella grande disponibilità a scendere in campo nel momento stesso in cui si evidenziano certe inadeguatezze ambientali della cugina a quattro ruote, discende proprio dalla parentela: la bici in sostanza sarebbe un sostituto perfetto senza cambiare nulla, così come ad esempio sperimentato nelle infinite «domeniche a piedi» che si susseguono spietatamente simboliche dai primi anni ’70 della crisi petrolifera in poi. E, ci spiegano poi migliaia di studi e ricerche più recenti, non è solo esclusivamente trasportistico base, il ruolo della bicicletta nel metabolismo urbano, visto che crea nuove economie, locali e meno locali, semplicemente con un minimo di adattamento. Il fatto è, che non si è colto, forse non si è affatto voluto cogliere, in difetto di metodo, effettuando una traslazione eccessivamente semplificata dalle domeniche a piedi verso l’universo. L’eccesso di semplificazione è assolutamente identico a quello imposto decenni fa con l’automobile, e va considerato come tale.
L’orrore ambientale della bicicletta
Un serissimo studio comparato, sulla base di altre ricerche di settore trasportistiche, energetiche, ambientali, verifiche sperimentali precedenti, ci propone una tesi apparentemente surreale: la bicicletta in realtà fa più male dell’automobile al pianeta. La fonte è la serissima Harvard University, anche se guardando bene l’intenzione è seria ma non seriosissima e ammonitoria. In pratica, utilizzando criteri come il cosiddetto Anidride Carbonica Equivalente (CO2e) e il Potenziale di Riscaldamento Globale (GWP), nonché mettendo nell’equazione anche le pratiche di produzione dei «carburanti» (energia per le auto, cibo per i ciclisti), si mette in discussione molto chiaramente un dogma: che spostarsi in bicicletta di per sé contribuisca alla lotta al cambiamento climatico. Molto terra terra, comparando i bilanci si arriva alla conclusione che muoversi con un comune veicolo a basse emissioni disponibile oggi sul mercato (un normale auto ibrida), sia più ecologico che fare i ciclisti, se si segue la dieta più diffusa detta «onnivora», che dipende come noto dal comparto agroindustriale. Quello che ci indica però, strizzandoci sarcasticamente l’occhietto, questa ricerca, o le tante altre che si potrebbero fare su tanti altri aspetti del ciclismo così come è oggi (e come ce lo dipingono per il domani alcuni interessati profeti), è che tutto si tiene. Ovvero che se abbiamo sbagliato facendo girare il mondo attorno all’auto, e solo all’auto, non dobbiamo ripetere la stupidaggine di metodo, immaginandoci che basti cambiare una X con una Y per cambiare il risultato dell’equazione. La città e il territorio (per non parlare dell’abusato «pianeta») sono troppo complessi per sperare seriamente di riassumerli in quattro ruote, figuriamoci in due, per quanto simpatiche, utili, e sane.
Riferimenti:
Keith Group (Harvard University), Climate impacts of biking vs. driving, maggio 2016