In che cosa consiste la galera? Notoriamente, nella privazione della libertà, il che a sua volta significa svariate cose, prima fra tutte l’impossibilità di «farsi un giro» se non nel cortile dell’ora d’aria. Forse bastano questi pochissimi spunti, per intuire cosa stia dietro a qualunque riflessione sul diritto alla mobilità, individuale, collettivo, i suoi eventuali limiti da spiegare e sostenere solo in quanto correlati ad ampliamenti di altri aspetti della medesima libertà. Concetti che valgono soprattutto nell’era delle comunicazioni, le quali comunicazioni sono certo analoghe alla mobilità fisica in quanto strumenti di relazione e connessione, ma dovrebbero essere lette come complemento della mobilità, come un «inoltre» più che un «invece». E in questo senso andrebbero interpretate certe parole d’ordine forse troppo schematiche per il futuro dei trasporti: perché la mobilità è essenziale, consente e migliora l’interazione fra esseri umani, consente di accedere a occasioni di lavoro e svago, avvicina beni di utilità e di consumo, ma non è assolutamente vero che «la mobilità non è un fine a sé stessa». Lo è, se la consideriamo un diritto, appunto eventualmente da meglio definire sulla base di altri diritti, da quello all’ambiente, alla salute, al territorio, a diritti individuali altrui.
Come esercitare un diritto senza privarne altri
Spostarsi non dovrebbe essere un obbligo, e non a caso esiste quel vecchio proverbio su Maometto che non va alla Montagna, perché magari sarà la Montagna stessa a muoversi verso Maometto. Se lo interpretiamo in senso laico e allargato, il detto sta a significare tante cose emerse chiaramente nella nostra epoca di telecomunicazioni: esistono una miriade di attività composte essenzialmente di relazioni immateriali, di informazioni che vanno e vengono, e che non richiedono di spostare fisicamente alcunché o alcun chi. Oppure, sfumando la questione, le attività si possono svolgere magnificamente spostando un po’ meno e un po’ meno spesso le entità fisiche, come quando si avvicinano le abitazioni di chi lavora ai posti di lavoro, di chi studia alle scuole, di chi fa sport ai luoghi dell’attività ludica, e così via. Anche se questo non deve e non può significare limitazione della libertà di movimento per fatti propri, come avviene segregando spazi e strutture, o separando troppo rigidamente nel tempo le funzioni (per esempio con orari di apertura e chiusura). Come sappiamo molto bene, il mezzo di trasporto in assoluto più diffuso del mondo è l’automobile, e il motivo di questo primato novecentesco è che di fatto, in un modo o nell’altro, sembrava rispondere a buona parte delle premesse che abbiamo provato a riassumere. Sembrava, perché non è andata proprio così.
Più diritti per più persone, non di meno
Chi si sposta in auto lo fa prevaricando: indirettamente e direttamente. La prima forma di prevaricazione è quella del modello imposto a chi l’auto non la usa, non ne è passeggero né autista, almeno in quel preciso momento, perché le quattro ruote a motore hanno finito per condizionare tutto il mondo attorno a sé, viviamo ruotando attorno all’auto anche quando dormiamo, o magari non dormiamo se siamo troppo vicini a uno svincolo autostradale. La seconda forma di prevaricazione è quella di aver sostituito con la mobilità automobilistica tutti gli invece, le alternative, modelli di uso dello spazio e del tempo, stili di vita, forme urbane, schiacciando il poco che resta in forme residuali e a continuo rischio di estinzione. Ma per restare al nostro quesito: il mezzo di trasporto individuale a trazione meccanica risponde o no al diritto alla mobilità? Si, ma lo fa come abbiamo accennato togliendone altri di diritti (l’ambiente pulito ad esempio, non citato perché ovvio, o lo spazio sottratto per il parcheggio). Se vogliamo ragionare su un futuro più avanzato, progressista, dove di diritti ce ne siano di più, pare del tutto sciocco rinunciare a qualcosa che si è dimostrato così positivo: perché non togliere i fattori negativi? Il car sharing, l’auto senza pilota, i veicoli che sfruttano energie rinnovabili, bastano questi pochi esempi di cose in pratica già disponibili per comprendere che si possono ottenere risultati straordinari lavorando su quanto ruota attorno a queste innovazioni, da affiancare ad altre. E in questo quadro un allargamento del telelavoro, quartieri a funzioni miste, più mezzi pubblici e mobilità pedonale ciclabile, non diventano un «invece», una forma sottilmente coercitiva che limita la libertà di muoversi, ma costituiscono «inoltre», strumenti adeguati per fare cose che si fanno meglio così. Se non altro per il futuro prossimo della mobilità, della città, delle tecnologie e dell’organizzazione come le conosciamo. In link un rapporto che propone qualche ripensamento (non così radicale ma abbastanza interessante) del ruolo del veicolo a motore a scala mondiale per il futuro.
Riferimenti:
World Economic Forum, Field Guide to the Future of Mobility, white paper gennaio 2016