Ci sono cose senza valore, e questo lo sappiamo tutti, lo sappiamo al punto che non c’è bisogno di ripeterlo. O forse si? C’è proprio bisogno di ripeterlo, e tanto bisogno, perché a furia di darle per scontate si tratta di cose che poi qualcuno si porta via, salvo poi restituircele a pagamento col proprio marchio registrato. Alcune di queste cose si stanno via via affermando come beni comuni, altre sono qualcosa di più sfumato e meno immediatamente percettibile, che però all’interno dell’ambiente urbano risultano in qualche modo evidenti in quanto legano fra loro la sfera prettamente privata e quella pubblica, ne costituiscono un trait-d’union chiaro e irrinunciabile. Contribuiscono a far si che quell’ambito o spazio pubblico non si limiti ad essere una questione di principio e poco altro. Per esempio, come si esprime il diritto alla città? Certamente in modo sfaccettato, ma quanto sfaccettato senza rischiare appunto di decollare rapidamente verso l’iper-uranio smaterializzato dei principi? C’è un diritto alla casa, un diritto al lavoro, un diritto ai servizi, ma se questi si esprimono (anche in buona fede, cosa che può anche non accadere) burocraticamente con politiche di settore, manca l’elemento di integrazione spaziale indispensabile.
La tessera del mosaico metropolitano
Il XX secolo ha prodotto per teorie e sperimentazioni successive uno di questi elementi di integrazione spaziale, che si chiama unità di vicinato, e affronta parallelamente il tema dell’abitazione, dei servizi, del verde, dell’istruzione obbligatoria e delle relazioni appunto di vicinato. All’inizio si tratta solo di osservazioni sistematiche su alcune tendenze spontanee, ovvero il rapporto fra le attività offerte dalle scuole ai cittadini e alle famiglie (dall’istruzione, al seggio elettorale, alla palestra per adulti ecc.), e la localizzazione delle case di questi cittadini. L’avvento dell’auto di massa introdurrà un secondo criterio che dovrebbe essere fondamentale, ovvero quel quartiere è grande tanto quanto lo consente la mobilità dolce, e in sicurezza per gli alunni della scuola che ne è il fulcro. Infine, il fatto che gran parte di quei complessi vengano realizzati su iniziativa pubblica, e con abitazioni destinate alle fasce di reddito più basse, introduce l’elemento sociale del diritto alla casa gestito direttamente. Come sappiamo per esperienza, questo modello di quartiere, specie nella versione progettuale razionalista affermatasi fra gli anni ’30 e ’60 del ‘900, per vari motivi finisce per trasformarsi in una specie di ghetto, non solo scarsamente integrato al proprio interno, ma esportatore di disintegrazione urbana.
Quello che manca
Perché la proclamata autosufficienza dell’unità di quartiere non solo non era tale nella realtà sperimentata: qualcosa non funzionava già nel manico, e si tratta esattamente del medesimo modello meccanico da cui discende gran parte della sua realizzazione. Quella suddivisione per comparti poco comunicanti della città e della società, che nello zoning e negli studi sociali si chiama segregazione, nel quartiere autoproclamato autosufficiente vuol dire dividere artificiosamente una fascia di età dall’altra, una fascia di reddito dall’altra, vuol dire considerare il concetto dell’abitare poco più che dormire e consumare i pasti. Forse tutto questo poteva funzionare in un modello del tutto teorico e un pochino forzato dall’obiettivo della casa per tutti, ma forse non ci si è chiesti a sufficienza cosa diavolo volesse dire la casa. Per esempio il rapporto casa lavoro casa servizi, casa relazioni, che passa attraverso la mobilità, un tema toccato molto marginalmente e in buona sostanza rinviato o delegato per decenni: che senso ha una abitazione decorosa in un bel quartiere, e magari anche un buon lavoro, se poi per svolgere quel lavoro devo stare quasi sempre lontano dalla casa per soli motivi di trasporto? Moltiplichiamo il tutto per ciò che il quartiere autosufficiente solo a parole non contiene, e otteniamo la metropoli contemporanea dove regna un solo tipo di cittadinanza piena: quella che ci si può comprare. Meno soldi, meno cittadinanza, meno accessibilità di tutto, ivi compresi i beni comuni faticosamente guadagnati e tutelati.
Un’idea dell’abitare equo desunta dal centro commerciale: provocatoria?
In buona sostanza la diseguaglianza nella città di oggi la si può anche leggere solo ruotando attorno a questo concetto allargato dell’abitare, e non troppo allargato se pensiamo che tutto parte dalla casa intesa come alloggio, esattamente come facevano da un’altra prospettiva i teorici dell’unità di quartiere razionalista. Le città gentrificate del terzo millennio, inducono sprawl e segregazione applicando brutalmente le due formule immobiliari che mescolano spazi e flussi: la prima è la trinità location location location, che dice tutto ha a che fare con la tua posizione nel mondo, anche posizione fisica rispetto al resto; la seconda è il motto apparentemente democratico drive till you qualify, che dice l’esatto contrario, ovvero che la location te la devi poter permettere, altrimenti non solo te la sogni, ma devi anche pagare un alto costo di tempo e carburanti per poterla raggiungere part time, giusto a fruire di una fettina di vantaggi. Aver segregato funzioni con la motivazione di una efficienza urbana meccanica, in fondo ha favorito anche questo, questa manifestazione contemporanea dell’eterna ingiustizia, dell’eterna diseguaglianza, sotto mentite spoglie. Ma oggi nasce un’idea a suo modo piuttosto provocatoria: così come il quartiere commerciale urbano specializzato ha reagito ai suoi problemi economici inventando il BID, Business Improvement District (che declina in uno spazio misto accessibile pubblico privato l’organizzazione di un centro commerciale), allo stesso modo l’unità di vicinato potrebbe ripensarsi come SID, Social Improvement District. Una sparata, forse, ma una straordinaria pensata potenzialmente di sinistra.
Integrazione a tutto campo
Uno studio condotto su un tema molto particolare come l’emergenza abitativa dei lavoratori poveri di Londra, che non riescono a tenere e men che meno garantirsi uno stile di vita accettabile, e minacciano quindi il futuro stesso della metropoli di cui sono un pilastro indispensabile, arriva anche a questa conclusione. Se la casa è un elemento irrinunciabile della cittadinanza, essa va considerata in tutti i suoi aspetti, quindi anche implicitamente in quelli lasciati in sospeso dall’antica neighbourhood unit razionalista, a sua volta interpretazione e sviluppo assai parziale delle originarie teorie sociologiche sul rapporto casa-servizi. L’idea centrale sarebbe di integrare stavolta casa, servizi, lavoro, mobilità, tempo, a iniziare dalla produzione di case ma non solo:
“Un SID si potrebbe comporre di circa 7.000 nuclei familiari. In alcuni casi quartieri interamente nuovi, in altri già esistenti. La dimensione deve garantire le indispensabili economie di scala, spazi servizi infrastrutture. Occorre una forte iniziativa pubblica, ad esempio dal punto di vista urbanistico per i terreni, per coinvolgere i privati, per le reti tecniche, i trasporti. Ma il vero punto innovativo è la partecipazione delle imprese sociali e della collettività”.
Ci si può immaginare questo ambiente, come sfondo per una vera e propria montagna di esperienze urbane sinora solo immaginate, dal mescolarsi delle startup tecnologiche alle abitazioni economiche, all’integrazione agro-metropolitana non puramente spaziale, ma anche produttiva, distributiva, o la dipendente rete commerciale e di trasformazione cosiddetta sostenibile. Un rapporto virtuoso già in partenza col tema dei trasporti e mobilità promuove sia le forme più innovative, da quelle condivise di mercato (auto, biciclette) sia la maggiore integrazione con altre reti, di negozi, servizi, posti di lavoro. Il quartiere autosufficiente non solo ragionato in termini di Social Improvement District lo diventa molto di più, ma si pone da subito il problema dei flussi in rapporto alle altre zone: è il contrario della segregazione, in un senso e nell’altro. C’è molto su cui riflettere, insomma. Anche se il rapporto scaricabile di seguito affronta, come giusto, la questione in termini assai più ristretti, e territorialmente definiti: non si può mica avere tutto dalla vita, per adesso queste interpretazioni svolazzanti sono farina del sacco di chi scrive.
Riferimenti:
Charles Leadbeater, Brell Wilson, Margarethe Theseira, Hollow Promise: how London fails people on modest incomes and what should be done about it, Centre for London, settembre 2014 [scarica direttamente un pdf ]