Una più diffusa proprietà pubblica di terreni, urbani o extraurbani, renderebbe un controllo urbanistico e edilizio su quelle aree certamente più agevole di quanto non si sia verificato possibile sinora. Le città avrebbero a disposizione superfici per case economiche a fitto controllato, verde per il tempo libero, orti urbani, forestazione, parcheggi, edifici pubblici e altri servizi municipali. Se acquisite a buoni prezzi, queste terre attribuirebbero poi alla collettività gli incrementi di valore derivanti da quelli di popolazione e investimenti. Una scorta di terreni pubblici disponibili per la cessione ai privati in diritto di superficie, contribuirebbe a contrastare gli eccessi dei cicli speculativi edilizi e immobiliari, attutendo sia le punte minime che le massime. In qualunque area urbana o suburbana degli Stati Uniti esistono ampie superfici da sfruttare nell’interesse pubblico, e molte municipalità potrebbero farsene una scorta, o incrementarla, a poco prezzo, avvantaggiandosi dei pignoramenti per mancato pagamento di imposte, visto che per giunta ciò non intaccherebbe affatto il gettito fiscale. In terreni non usati, così come i disoccupati umani, rappresentano un passivo sociale per la collettività.
La proprietà municipale dei terreni in Europa
Se le città americane hanno sinora fatto assai poco, per una propria scorta di superfici, salvo quelle indispensabili alle necessità immediate, l’esperienza di parecchi centri europei dimostra quanto sia saggia una strategia del genere. L’acquisizione pubblica di terreni per la trasformazione edilizia avviene in città dell’Austria, Cecoslovacchia, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Italia, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia, Svizzera. La Russia è quasi ovviamente l’esempio che più spicca nella proprietà pubblica, ma dobbiamo lasciar passare ancora qualche anno perché si possa valutare quell’esperimento. Molte municipalità tedesche e scandinave detengono da un lungo periodo notevoli superfici di terreni, in alcuni casi sin dall’epoca medievale. E in certi paesi la scorta è stata incrementata dalla disponibilità di superfici demaniali, forestali e simili. In Finlandia ad esempio lo Stato metteva a disposizione fino al XIX secolo terre per fondare città, in genere a condizione di non cederle in proprietà privata individuale. Poi questa clausola è stata modificata alla fine del secolo, ma ancora oggi le città possiedono gran parte delle aree comprese nella propria circoscrizione. Nel 1926 la superficie nazionale delle municipalità finlandesi ceduta a scopi di costruzione era solo il 3,5% del totale posseduto. Helsingfords copre una superficie di 2.500 ettari, ma ne possiede quasi 5.300, in gran parte oltre i limiti urbani.
A partire dalla fine del XIX secolo le amministrazioni cittadine di Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda e Austria hanno sviluppato sistematicamente una politica di incremento delle proprie superfici, sia dentro che fuori i limiti amministrativi. Dal 1904 le acquisizioni di Stoccolma, per la costruzione di case soprattutto, ammontano a oltre 8.000 ettari, che significa cinque volte l’area della città originaria. Le maggiori cinque città svedesi possiedono una quota variabile dal 47% sino all’80% della propria superficie amministrativa totale (Fefle 80%, Norrkoping 75%, Malmo 49%, Helsingburg 49%, Gothenberg 47%). Copenhagen possiede un terzo della propria superficie, e Oslo controlla un’area suburbana doppia di quella della città centrale. L’Aia ha intestati quasi 1.800 ettari, pari al 45% della città, e Zurigo possiede circa 2.300 ettari, metà dei quali dentro i confini.
Vienna al netto della superficie delle strade controlla 6.000 ettari, oltre un quarto della propria area, e Berlino scartate strade e ferrovie ha una riserva municipale di superfici che supera abbondantemente i 30.000 ettari, più di un terzo del totale, a cui se ne aggiungono altrettanti di boschi e campi agricoli fuori dalla zona urbana. Gran parte delle città tedesche possiede considerevoli zone oltre i propri confini, spesso superiori a quelle amministrate all’interno della città propriamente detta; ne è un esempio Goerhitz, con un territorio amministrativo di 3.000 ettari ma una superficie boschiva posseduta di oltre 29.000 ettari. Oltre ai possedimenti in aree edificabili, per servizi pubblici verde e altre funzioni caratteristiche anche delle città americane, in Germania le municipalità controllano ampie zone a boschi e campi, vuoi amministrate direttamente, vuoi cedute in affitto a operatori privati. In molti casi specie dopo l’ultima guerra, molto dello sviluppo urbano è avvenuto proprio su quelle zone, sia cedendole in diritto di superficie che vendendole.
Tutte le città tedesche con oltre 50.000 abitanti possiedono mediamente il 23,6% del proprio territorio municipale, al netto delle superfici di strade ferrovie bacini per trrattamento di acque fognarie e analoghi. Dal punto di vista delle funzioni specifiche disaggregate questa quota lorda del 23,6% al 1933-1934 si articolava in:
Usi |
Percentuale sul totale |
Boschi |
39,9 |
Agricoltura |
39,9 |
Edificabile |
5,6 |
Parchi e giardini |
4,8 |
Edificato |
4,6 |
Funzioni varie |
5,2 |
100,00% |
Nelle città europee questa proprietà pubblica dei terreni si traduce in costi inferiori delle superfici per realizzare vari progetti. Nel caso di quello di Wythenshawe [il grande quartiere giardino pilota su progetto di Barry Parker n.d.t.] l’amministrazione di Manchester ha acquistato 1.500 ettari sul totale di 2.200 complessivi a prezzi agricoli, molto prima del piano esecutivo. Con un risparmio stimato attorno ai cinque milioni, in dollari, e conseguentemente affitti più bassi, o minori costi per la collettività. A Copenhagen si è riusciti a controllare la speculazione fondiaria in modo molto efficace, prima e dopo la guerra, cedendo a prezzi bassi le proprietà cittadine e sostenendo altri prezzi bassi nelle case realizzate in convenzione.
Green Belt e altre fasce di interposizione
Non è certo una idea nuova, quella di contenere l’espansione urbana con una fascia verde. Sin dai tempi del regno di Elisabetta Prima d’Inghilterra, fu emesso nel 1580 un proclama che imponeva «a tutte le persone, chiunque siano e ovunque esse si trovino, di desistere e astenersi dalla costruzione di qualsiasi edificio, casa, fabbricati d’affitto, entro il raggio di miglia tre al di fuori delle porte della Città di Londra, per funzioni di abitazione e alloggio, là dove non vi sia già ora o in passato memoria di abitazioni». Anche se furono compiuti numerosi tentativi di mettere in pratica questo editto, o altri successivi analoghi proclami, bastano le dimensioni di Londra a dimostrare quanto la «cintura verde» della Regina Elisabetta non sia stata efficace. Ma l’idea non fu comunque mai abbandonata, almeno in teoria, e oggi la ritroviamo tra gli urbanisti e chi si occupa di altri problemi urbani nel mondo, oltre che a Londra. La follia del consentire un’espansione continua e disordinatamente dispersa [qui gli Autori usano per la prima volta nel saggio il termine «sprawl» n.d.t.] sulle aree rurali, trasformando campi e boschi in squallide propaggini urbane, rendendo uno spazio aperto verde inaccessibile a chi abita nei quartieri centrali poveri, è sempre più stigmatizzata sia in America che in Europa.
Il concetto della greenbelt si basa sull’idea che la città costruita senza limiti possa espandersi troppo, che un limite sia necessario porlo alla crescita, e che essa debba avvenire in una regione esterna per centri satellite, separati dal nucleo principale e tra di loro da ampi spazi verdi. Una modalità di sviluppo come si capisce favorita, dall’acquisizione di larghe fasce inedificate attorno all’area urbana, in cui proibire qualunque costruzione per sempre. In qualunque caso una città tenda a diventare troppo ampia, la si dovrà così «vestire con un corsetto» di campi aperti, che svolgano la funzione un tempo assicurata dalle fortificazioni medievali, che impedivano la dispersione [seconda e ultima citazione di «sprawl» n.d.t.] sulle campagne. Una greenbelt non solo contiene le dimensioni della città entro limiti massimi auspicabili, ma la tutela anche da sgraziate sovrapposizioni. La fascia offre uno spazio di respiro indispensabile per le zone sovraffollate: un luogo dove non esistono il fumo, la polvere, la fuliggine, sostituiti dall’ossigeno dell’aria pura. Nella greenbelt trovano posto campi da gioco, da golf, laghetti per nuotare e andare in barca, orti, e anche aziende agricole più grandi, pascoli, boschi. Paesaggi e servizi a disposizione conservati sulla soglia della città.
Vuoi in combinazione con questa fascia circolare, vuoi per conto proprio, vanno anche considerate altre fasce verdi a forma di cuneo che si insinuano verso il cuore della città. Superfici del genere non solo forniscono uno spazio di respiro e ricreazione, ma fungono da corridoi di collegamento con l’aperta campagna circostante, oltre che da barriera separatrice tra le varie parti della città. Sono buoni esempi di questi cunei verdi i boschi di proprietà municipale che a Hanover in Germania raggiungono il cuore della città, o i sistemi di parkway che nel nostro paese sono stati realizzati nella Westchester County, Stato di New York, o il Rock Creek Park a Washington D.C. Il sistema delle greenbelt fa parte integrante dell’idea di città giardino, da Letchworth a Welwyn, oltre che naturalmente delle Greenbelt Town pensate dalla nostra Resettlement Administration. Ma se ne trovano realizzazioni parziali in tanti piani europei.
Uno dei più ambiziosi è quello attorno a Londra, dove i terreni vengono acquisiti gradualmente dalle amministrazioni locali sostenute economicamente dalla London County con una somma di due milioni di sterline. Una volta completata, questa greenbelt non potrà essere continua a causa di aree già edificate, ma sarà costituita da una serie di ampi spazi aperti che in qualche modo definiscono un anello attorno alla metropoli. Il piano decennale per lo sviluppo di Mosca prevede un insieme combinato di greenbelt e cunei verdi. I viali che si irraggiano dal cuore della città sono concepiti come parkway e si allargano avvicinandosi all’enorme anello di boschi e parchi in corso di realizzazione tutto attorno. Le rive del fiume Moscova e i numerosi canali e laghi costituiscono altrettanti percorsi a verde su cui dovranno affacciarsi moltissime nuove costruzioni.
Riserve di terreni delle città tradizionali americane
Scorte di superfici analoghe a quelle delle città europee sono assai diffuse anche nella storia della città americana, vuoi sulla costa dell’Atlantico che su quella del Pacifico. Leggi – coloniali – inglesi, olandesi, francesi e spagnole del periodo dei primi insediamenti appartenevano al medesimo genere che ha determinato le riserve municipali in Europa. Lo statuto concesso dal Luogotenente Governatore della allora Provincia di New York alla principale città, contiene la seguente clausola:
«Conferisco con questo atto garanzia a sindaco consiglieri e assemblea della detta Città di New York, perché a loro afferiscano tutti i terreni sgombri, liberi nella città e Isola di Manhattan, sino alla sponda meridionale e in ogni altra parte della Città, e tutti i fiumi, corsi minori, torrenti, ruscelli, stagni della Città e dell’Isola, non reclamate da altre autorità di governo, luogotenenziali o meno responsabili della provincia, o da altri sindaci o vicesindaci precedenti e consiglieri della Città di New York».
La Carta Montgomerie del 1730 dopo aver confermato il documento precedente allarga le competenze estendendole a terreni sull’Hudson e East River per una profondità di 120 metri dalla linea di bassa marea. Gran parte delle superfici viene venduta nel corso dei successivi 125 anni per reperire i fondi necessari agli investimenti, pagamenti di interessi, o spese correnti, ma ancora al 1850 il residuo frutta alla città 100.000 dollari. Fino al 1875 si continua ad alienare proprietà, ma in seguito la politica si inverte per sviluppare un sistema di moli di proprietà municipale. Oggi la resa lorda per la città di quegli immobili ammonta a circa sei milioni di dollari l’anno.
Analogamente, New Orleans sin dall’epoca coloniale mantiene i titoli di proprietà dei terreni lungo il Mississippi, e nel corso di questo secolo ne ha intrapreso lo sfruttamento per un sistema di attracchi e terminali. Boston ha acquisito terreni comprandoli e ne è una parte residua il famoso Boston Common. Sempre in Massachusetts, Salem nel medesimo periodo possedeva terreni, parte dei quali esistono ancora oggi. San Diego in California, prima e dopo l’occupazione americana, possiede terre civiche che gli sono state conferite ai giorni della dominazione spagnola. E sarebbe anche possibile allungare, cercando un po’, l’elenco di queste città americane proprietarie di tanta parte della propria superficie. Ma nessuno ha studiato perché mai le città europee abbiano mantenuto pressoché intatto il proprio patrimonio pubblico, o addirittura l’hanno ampliato, nel medesimo periodo in cui quelle americane dissipavano quasi totalmente le loro proprietà.
Salvo le superfici tutelate per usi pubblici, come strade o parchi, le terre un tempo di proprietà cittadina sembrano tutte essere state cedute. Mentre d’altro canto considerevoli porzioni di terre sommerse adatte alla trasformazione in moli e attracchi sono state conservate. Le poche espansioni di qualche dimensione di terreni in proprietà oltre quelli per strade e parchi, sembrano limitate ad acquisire superfici essenziali alla tutela delle risorse idriche municipali. In certi stati del Nord-Est, in cui l’abbandono delle aziende agricole ha concentrato l’attenzione pubblica verso i problemi della riforestazione, molte amministrazioni di zone rurali hanno acquisito e ripiantato boschi di proprietà municipale. Non c’è bisogno di ricordare come queste tendenze di lungo periodo nei centri maggiori, insieme ad altre tendenze nelle circoscrizioni rurali, non possano essere ignorate se si vuol formulare un programma di acquisizioni pubbliche secondo criteri di fattibilità, per riserve di superfici future.
Criteri per formarsi una riserva di terreni
Sulla base dell’esperienza delle città europee con una larga scorta di superfici disponibili per varie funzioni, e di un piccolo gruppo di città americane con terreni adeguati solo a usi particolari come moli e bacini, pare davvero il caso di auspicare fortemente che nel nostro paese si arrivi ad acquisire da parte delle municipalità riserve di suoli per funzioni diverse dalle sole strade e parchi. Come sarebbe possibile farlo? I metodi con cui le città europee sono entrate in possesso dei nuclei originari delle proprietà attuali, e attraverso i quali nell’America coloniale si acquisivano le scorte poi dissipate quasi completamente, devono essere esclusi a priori. Né il governo federale né quelli statali hanno titoli di proprietà urbani da cedere alle città, e questo cancella la possibilità di costruire riserve future sulla base dei metodi passati.
Di recente sono state presentate proposte secondo cui il governo federale potrebbe garantire sostegni alle municipalità perché possano acquistare i terreni a scopo edificatorio. Un articolo di Frederic A. Delano, Presidente della Commissione Centrale per la Casa, pubblicato da The American City nel numero del gennaio 1937, contiene il seguente passaggio:
«Il governo federale ha messo a disposizione delle ferrovie dei terreni in cambio dei loro servizi in termini di distribuzione della popolazione sul continente, e ha garantito la proprietà di superfici agricole a chiunque si impegnasse a coltivarle. Parrebbe del tutto ragionevole che aiutasse anche le amministrazioni locali ad acquisire terreni per due scopi: primo, realizzare case ad affitti più bassi per famiglie che non sono in grado di permettersi un livello minimo di standard residenziali; secondo, per stabilizzare il valore dei quartieri di case economiche là dove la regolamentazione urbanistica non pare efficace, promuovendo così contemporaneamente il settore edilizio e migliori piani e progetti. Con queste premesse, proponiamo che: “il governo federale si impegni a sostenere una quota dei costi di acquisto dei terreni da parte delle municipalità, a condizione che queste li utilizzino per assicurare un ordinato sviluppo per quartieri. Il governo federale vigilerà per non sostenere la realizzazione di quartieri di mal concepite abitazioni, o di un eccesso di edifici, o di sviluppi urbani mal progettati. Offrirà la propria assistenza finanziaria solo alle municipalità che propongono politiche urbanistiche ben calibrate e concepite”».
La proposta di Delano trova espressione limitata e sperimentale nella Legge sulla Casa del 1937 che istituisce la nuova United States Housing Authority. Ai sensi di quella legge si sono rese disponibili risorse, molto limitate, da destinare a enti municipali per la casa al fine di acquisire terreni da destinare ad abitazioni economiche. La Legge è vigente da un periodo piuttosto breve, e le esperienze non bastano per formarsi un’opinione definitiva sulla sua validità e adeguatezza. Altre proposte per allargare il campo di azione degli Stati, consentendo di gestire prestiti per l’acquisizione di terreni da parte delle municipalità desiderose di realizzare case a basso costo, sono in corso di discussione. Gli studiosi di discipline finanziarie a livello statale dubitano ella loro efficacia, indicando i limiti di potere dei governi statali nel contrarre debiti, e per gli scopi indicati, così come confermerebbe la storia recente e meno recente. Inoltre, e proprio negli Stati in cui il problema della casa risulta più grave, anche un forte incremento del già oneroso debito statale non consentirebbe certo di avviare a soluzione il problema, di dimensioni enormi. Certo si può anche discutere se sia possibile modificare tutto il sistema di risorse statali, già al limite, a sostegno di questo incremento di spesa, per renderlo possibile.
Una terza proposta ha già trovato parecchi ardenti sostenitori, anche perché ben si accompagna alle altre due, completandole, oltre ad avere valore di soluzione in sé. Riguarda l’abolizione dei limiti di indebitamento delle municipalità che vogliono realizzare abitazioni, sia che le risorse derivino da livelli superiori di governo, sia che siano di origine privata. Ma anche in questo caso ci sono fondati dubbi che sia i debiti pregressi, sia il sistema creditizio per formarsi una scorta municipale di terreni, possano rendere praticabile la proposta. Ce n’è però una quarta, migliore, e già messa in pratica su piccola scala nella San Mateo County, California. Un passaggio dello statuto dell’amministrazione in vigore dal 1933 rende possibile acquisire terreni attraverso un prelievo fiscale annuo. In quel modo sono stati acquistati circa cinque chilometri di spiaggia, al novembre 1936, ed erano in corso dopo quella data trattative per acquistarne ancora di più. Purtroppo entrano ancora in campo i limiti di alcuni Stati all’imposizione fiscale, e le opposizioni a un eccessivo allargarsi dei bilanci municipali, anche se resta la grandissima efficacia e praticità del metodo di acquisizione di terreni per utilità collettiva.
In breve, oggi esistono dei limiti alle possibilità federali, statali e locali di finanziare l’acquisto di terreni per costituire scorte municipali. Quelli statali e locali hanno una duplice natura: sono costituzionali e derivano da infelici esperienze passate. Ma anche superandoli si avrebbero pochi vantaggi, per gli altri limiti, quelli economici determinati dal sistema fiscale a quei livelli di governo. I vincoli agli aiuti federali rivolti alla dimensione locale sono solo normativi e potrebbero essere superati con un voto del Congresso anche immediatamente. La capacità di azione del livello federale su valuta, banche, credito, potrebbero mettere a disposizione anche risorse illimitate, per qualunque scopo. Ma se alcuni allargamenti di intervento, poniamo un raddoppio dei fondi per la demolizione dei tuguri e la realizzazione di case ad affitto controllato, paiono immediatamente auspicabili, d’altro canto un uso eccessivo di fondi federali replicherebbe alcuni disagi già verificati nel caso europeo. La ricollocazione abitativa della popolazione in strutture che si possano considerare minimamente decorose secondo i criteri in costante evoluzione di salute e comodità, non può essere considerata soltanto nei suoi vantaggi, dato che comporta inevitabilmente una riduzione di quanto disponibile per altri aspetti, dall’alimentazione, al vestiario, al riscaldamento e via dicendo.
Scorte di terreni pubblici di fatto se non di diritto
Tutti i limiti di cui si è parlato, non stanno a significare però che alle municipalità sia sbarrata la strada completamente ed eternamente, nell’acquisire superfici, e tenersele finché non se ne manifesti il bisogno. E in realtà anche senza consapevolmente perseguire l’obiettivo sono molte le amministrazioni che hanno già acquistato ampi tratti di territorio entro le proprie circoscrizioni, distribuendone i costi su un arco di parecchi anni per diluire i pagamenti secondo le proprie entrate. Si tratta di terreni scelti spesso senza la guida di un programma unitario, e quindi molto eterogenei e discontinui. Non sempre i diritti sono acquisiti in forma definitiva alle municipalità, e quando lo sono deve passare un certo periodo di tempo prima che si decida a quale scopo dedicarli coerentemente, o ricomporli in qualche forma unitaria tramite accordi con le proprietà private e scambi.
Non sono ancora stati rilevati i dati sistematici per questo tipo di acquisizioni, e quindi è difficile generalizzare. Ernest M. Fisher nel 1928 pubblicò una ricerca (Real Estate Subdividing Activity and Population Growth in Nine Urban Areas, Ann Arbor, University of Michigan) comparando la crescita della quantità di lotti edificabili e quella di popolazione in nove zone urbane. In tutte si rilevava una forte sovra-offerta, caratteristica storica delle regioni ma oggetto di una vera e propria impennata negli anni più recenti. Nel 1932 lo stesso autore pubblicava uno studio in collaborazione più ampio sulla situazione dell’area di Grand Rapids (con Raymond F. Smith, Land Subdividing and the Rate of Utilization, Ann Arbor, University of Michigan) dove si analizzava tra l’altro lo spreco di risorse pubbliche e private per una offerta eccessiva. L’anno prima Herbert D. Simpson aveva pubblicato il suo studio sulla situazione di Chicago e le municipalità della Cook County, in cui comparava la sovra-offerta di lotti edificabili con le stime di crescita della popolazione, rilevando che c’erano già fin troppi spazi disponibili, per un bisogno prevedibile su tre decenni. Rilevava anche come un effetto di questo eccesso di offerta fosse quello di ridurre il valore futuro pur di tutelare credibilmente in qualche modo quello attuale.
Studi successivi nella medesima scia rivelano situazioni analoghe da Minneapolis a Denver, San Diego, Los Angeles. Ricerche sulle amministrazioni insolventi della Florida compiute su commissione dei detentori di obbligazioni, sono le prime ad aver calcolato la sproporzione fra le enormi quantità di lotti disponibili e le tasse effettivamente pagate. Una vera rivelazione, e di eccellente qualità, che ci illuminerebbe ancor di più se non fosse stata resa disponibile soltanto in poche copie manoscritte e riproduzioni. Resta la Commissione di Piano dello Stato del Michigan, con la sua prima analisi particolareggiata proprio del rapporto tra pagamenti di tasse e numero di lotti (Earl G. von Storch, Report of the Subcommission on Suburban Subdivision Development, Lansing, Michigan State Planning Commission, 1937). Lo studio si concentra principalmente sulla circoscrizione amministrativa di Redford, nell’area di Detroit, rilevando come l’offerta di lotti arriva a un numero di 27.183, di cui soltanto 1.179 utilizzati. Oltre il 60% del totale aveva smesso di versare i contributi fiscali dovuti prima del 1932. La relazione ne conclude che «l’evasione pare di entità tale da suggerire la possibilità di un totale abbandono di quei lotti da parte dei proprietari». […]
Il ruolo della pianificazione urbanistica
Resta da capire e commentare qualche meccanismo. In gran parte delle circoscrizioni dello Stato di New York in cui una ricerca ha rilevato gli squilibri fra disponibilità di lotti e mancato gettito fiscale [la ricerca è descritta nei dettagli e conclusioni finanziarie nel lungo brano omesso n.d.t.] sono stati istituiti uffici e commissioni urbanistiche. Che però hanno fatto assai poco per orientare o controllare la follia che ha condotto a quello spreco di soldi pubblici e privati, che sono le lottizzazioni premature in aree rurali per funzioni urbane. Ed esiste addirittura motivo per ritenere che una diffusa tendenza a pianificare troppo contribuisca ad alimentare la medesima follia. Anche i più granitici sostenitori dello zoning riconoscono che previsioni eccessive nell’offerta di aree per attività terziarie o edifici multifamiliari siano un errore, e molto diffuso. Ma sono molto in pochi ad accorgersi di come l’errore in assoluto peggiore sia quello dell’eccesso di offerta per le zone a densità più bassa, per le abitazioni unifamiliari, che compare in qualunque piano.
Osservando nel suo insieme un mosaico delle ordinanze di zoning nelle circoscrizioni di un’area metropolitana, appare evidente primo che quel genere di azzonamento viene applicato sia nella città centrale che nelle fasce suburbane e rurali, e secondo che mai e poi mai oggi o in futuro la gran maggioranza di quelle zone sarà richiesta per piccole casette su piccoli lotti, solo per citare una classificazione leggermente più intensiva. In zone dove l’unico uso economicamente efficiente è l’azienda agricola da una cinquantina di ettari, appezzamenti da una ventina o zone boscose da una trentina, è uno spreco destinare superfici a case unifamiliari, anche se si prova a lottizzare in sezioni minime da pochi ettari. E quando le fasce di territorio esterne alla città, dentro o fuori i suoi limiti amministrativi, sono destinate a usi del genere, si sta molto brevemente pianificando il disastro. E peggio ancora si stanno dequalificando le funzioni attuali esistenti privandole di qualunque sicurezza, senza la quale in molti casi potrebbero scomparire, facendo largo a speculatori e truffaldini promotori di «residenze» là dove non ce ne sarà probabilmente nessuna.
Per stabilizzare i valori in quelle aree, per tutelare le funzioni esistenti da intrusioni incompatibili e distruttive, dobbiamo capire che destinare a funzioni di tipo urbano corrente è del tutto inadeguato quando una zona ha caratteri di tipo rurale, vuoi all’interno vuoi all’esterno della circoscrizione urbana. Si tratta, nella definizione di un piano di crescita per zone, di individuare un punto di equilibrio fra zone troppo intensive e troppo estensive, riflettendo su tutto quanto si colloca tra i due estremi. Ed è anche importante regolamentare e controllare le forme urbane che ne derivano. Sempre più amministrazioni seguono i modi in cui le zone vengono suddivise a scopo edificatorio, imponendo asfaltature, marciapiedi, varie reti tecniche (o richiedendo il versamento di oneri) prima che i terreni vengano posti in vendita. Si può così arginare e ridurre al minimo una cattiva progettazione, e tutelare gli acquirenti di case, oltre che proteggersi da future evasioni fiscali per abbandono. […]
Da: The Journal of Land & Public Utility Economics, Vol. 14, n. 3, agosto 1938 – Titolo originale: Land Reserves for American Cities – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini
Su questo sito (oltre agli articoli analoghi e tags segnalati automaticamente dal sistema) vedi anche la descrizione del citato quartiere giardino di Wythenshawe a Manchester del 1935
Immagini da Recent Trends in American Housing, 1931