La cosa che colpisce di più, quando accadono certe cose, in genere assai sgradevoli, è il regolare «stupore» della classe dirigente politica, mediatica, insomma di chi pretende di anticipare e/o orientare qualunque corrente culturale e di opinione, pur non azzeccandone mai una. Particolarmente odioso, quello «stupore», quando questa autonominata élite pretende di estenderlo unilateralmente anche a chi da tempo cercava di avvertirla in ogni modo del disastro, inascoltato e a volte pure sfottuto in quanto «cassandra» dalle inutilmente fosche e fantasiose allucinazioni. Quando invece, chi il famoso territorio invece di considerarlo lontana categoria dello spirito lo percorre criticamente e sistematicamente, rilevava da tempo quelle forti tendenze e cercava di allertare chi di dovere. Trovandosi invece solo e isolato nel suo vagare da studioso o osservatore privilegiato dentro tessuti sociali locali, in contesti magari visibilissimi ma lontani dalla logica che illumina il luogo comune conformista, tra ombre dei campanili, insegne di distributori, posti di lavoro, strade, centri commerciali.
Cuore senza tenebra
All’epoca della pubblicazione mi era capitato di recensire per il settimanale Carta uno di questi percorsi di riflessione, quello in cui aveva anche molto fisicamente scarpinato Rich Benjamin alla ricerca dell’Utopia Bianca, raccontata poi nel suo Searching for Whitopia: an improbabile journey to the heart of White America (Hyperior 2009). Benjamin attraversava da brillante narratore quel visibilissimo e luminoso cuore di tenebra delle sacche di sedicente purezza wasp. Studioso di discipline sociali nero, urbano, con radici che mescolavano continenti, culture, passaporti, riusciva però sempre e molto proficuamente a dialogare coi suoi interlocutori. Che nel racconto scoprivamo puntualmente bianchi, a volte ricchi a volte no, a volte nascosti dietro i cancelli di qualche gated community videosorvegliata, comunque spesso dentro l’ortodossia ufficiosa da zoccolo duro suburbano del Partito Repubblicano. Ne emergeva lampante una Utopia Bianca per nulla categoria dello spirito, ma impastata col territorio, la geografia, le forme dell’insediamento che esprimono/condizionano le culture.
Culture comunque antiurbane, e radicate nel mondo rurale, suburbano o esurbano (misto di villettopoli e campagna inestricabilmente intrecciate). Tutto nasce in sostanza sospinto dal XX secolo dell’automobilismo di massa, dei mutui agevolati per comprarsi la villetta con giardino lontano dalla metropoli peccatrice, in una purezza finta e comunque forzata, verso cui sciama il cosiddetto white flight, fuga dei bianchi dalle città che considerano pericolose, soprattutto perché culturalmente meticce. Si scappa all’inizio alla ricerca del sogno americano degli steccati bianchi visto un milione di volte, e l’Utopia Bianca prima solo inconsapevolmente vagheggiata pare a portata di mano, poi realtà concreta. Se non fosse per quel lontano orizzonte sporco, di valori relativi e cangiati, che si avverte sempre più come minaccia. Figuriamoci quando è addirittura simboleggiata da un presidente nero, da una candidata donna, da tutte quelle cose orribili che si sentono e si vedono alla televisione o si scorrono nelle bacheche degli amici di Facebook.
Ricontestualizzazioni
L’errore di lettura di questi processi è quello (ahimè diffusissimo) di ritenerli troppo netti e chiari, una volta identificati, e quindi di perdere del tutto il senso di qualcosa che appare in realtà molto più sfumato della specie di guerra di civiltà del conservatore contro il progressista, del suburbio contro la città, del colored contro il wasp, e nemmeno del ricco contro il povero. Quello che si deve riconoscere – e ben oltre i confini geografici e politici dei modelli più estremi – è l’infinita serie di sfumature in cui l’Utopia Bianca si può articolare. A volte gli inconsapevoli suprematisti bianchi nelle loro casette superaccessoriate o modeste, sono vittime tanto quanto gli altri che abitano nelle roulotte scassate nascoste nel buio oltre la siepe della stazione di servizio, e vanno ogni giorno a fare le pulizie, o a curare i bambini. Ma proviamo adesso a fare retromarcia col nostro ideale SUV, e a tornare all’inizio di questa riflessione.
O meglio a ricontestualizzarla nel nostro esurbio nazionale, che a volte molti chiamano «il paese dei miei». Noi abbiamo dei sociologi spesso assai improvvisati, spesso ancora legati a distinzioni città-campagna del tutto artificiose e scavalcate dalla realtà. Se ad esempio guidiamo per un’oretta a est di Milano sulla strada di media pianura, notiamo apparire sui lati della strada una specie di Fort Alamo: il rudere di una cascina che sorge dai campi verdi; sul rudere la scritta PADANIA LIBERA; issata in alto, ben visibile anche a distanza, la bandiera col Sole delle Alpi. L’Utopia Bianca, per quanto sfigatissima, adesso salta agli occhi in quanto tale proprio perché si insedia in un contesto rurale sostanzialmente privo di storia e preesistenze. È la versione più nota del nostro neolocalismo reazionario (così come la città dispersa che pervade) sfrutta e confonde campanili, cascine, piccoli centri storici. Così, esattamente come certi urbanisti che negano l’esistenza di un preoccupante sprawl suburbano solo argomentando più o meno sulle forme delle villette e la vicinanza della chiesa parrocchiale settecentesca, altri osservatori sorvolano più o meno colpevolmente sull’aleatorietà di una interpretazione puramente locale di alcune sgradite evoluzioni sociali: sono invece i cerchi concentrici della nostra Utopia Bianca, allargati dalla metropoli e veicolati dalla medesima inerzia che vorrebbe malamente metabolizzarli per puri motivi di consenso. Trump, da sempre, ce l’abbiamo in casa, insomma.