Spesso sfogliando quotidiani o riviste di informazione, tra le classiche letture per i momenti di tranquillità non mancano paginoni interamente dedicati all’agricoltura nei suoi rapporti con l’alimentazione, l’ambiente, il tempo libero, la vita quotidiana. Anche sul fronte avanzato dell’high-tech che nella pubblicistica internazionale ha consolidato almeno a parole il comparto della cosiddetta agricoltura verticale. Le premesse sono quelle note, dell’aumento della popolazione mondiale da un lato, dell’impossibilità del sistema produttivo agricolo di rispondere anche in un periodo non lunghissimo alla relativa domanda di cibo, più il degrado ambientale e territoriale dei metodi estensivi attuali, specie a fronte della dilagante urbanizzazione planetaria. Gli sviluppi narrativi però tendono a semplificare parecchio il modello, in sostanza concentrando tutto su una sola proposta, che si confonde grossolanamente con la vertical farm.
Certo volendo schematizzare molto, esiste un problema di territorio a scala mondiale, acuito dalle strategie di mercato delle multinazionali del settore, che hanno escogitato l’idea del land grabbing per continuare a lucrare con sistemi tradizionali di coltura estensiva, con fertilizzanti chimici, organismi geneticamente modificati, organizzazione industriale dei processi. L’idea di massima della vertical farm risolve questi problemi di spazio: c’è in sostanza un sistema di piani di coltura sovrapposti, integrati in un contesto urbano che gli fa anche da mercato di sbocco, e la cosa in effetti si può riassumere come un edificio che invece di contenere gli uffici di una grande impresa o di una banca ,ospita strutture tecnologicamente avanzatissime per la produzione di alimenti. In pratica si realizza l’utopia del chilometro zero ribaltando il concetto stesso di agricoltura, e mettendo zucchine grano pomodori, ma anche animali, o cicli ambientali ed energetici completi, a un tiro di sasso dal consumatore. Una meraviglia? Magari fosse così, e come tutte le meraviglie è meglio provare ad andare a guardare da vicino.
Il guaio è che l’idea che viene comunicata al lettore, volente o nolente, è la solita delle torri scintillanti così come avviene dall’epoca di Babilonia. Ma la questione è più complicata: possibile si risponda in modo tanto semplicione? Non possono non tornare alla mente tante riflessioni attorno al tema del chilometro zero, ai suoi contenuti socioeconomici, ambientali, territoriali, energetici, distributivi. Riflessioni che riportano alla classica contrapposizione città campagna, natura e artificio, istinto e razionalità. Cosa combina quel grattacielo pieno di piantine anziché di impiegati? Non tanto dal punto di vista tecnologico, ma da quello urbanistico allargato, vista la natura squisitamente urbano/planetaria della proposta. Diciamo che stanti le cose come stanno oggi, potrebbe solo prendere un valore immenso, quello controllato dalle multinazionali dell’agricoltura e dal sistema che ruota loro attorno, e ricollocarlo nel bel mezzo della metropoli, «risparmiando» le superfici che altrimenti sarebbero divorate dal land grabbing.
Quel valore immenso, concentrato e moltiplicato dalle tecnologie avanzate che si usano là dentro, di fatto riproduce e forse amplifica l’effetto fortezza dell’insediamento economico autoritario in città, per intenderci il tipo di cose che vediamo dai tempi delle guarnigioni, delle piazzeforti, dell’industria urbana. Il modello che ai nostri giorni appartiene ai grandi centri commerciali migrati dal suburbio verso i nuclei interni, come il Westfield olimpico di Londra, o alle gated communities fortificate per ricchi nelle città più povere. Certo l’agricoltura verticale ha già pronte tutte le motivazioni tecniche e organizzative, per il proprio modello: sarà intuitivo che in quella logica non si possa far andare e venire chiunque, in una torre alta parecchi piani, che contiene impianti magari delicati, o pericolosi per chi non li capisce. Poi nell’area attorno, le esigenze della sicurezza, magari dello spionaggio economico … Insomma riemerge un classico modello già visto negli edifici di ricerca avanzata, o in quelli pubblici di importanza strategica, circondati da barriere new jersey e da auto della polizia, o addirittura progettati ad hoc alla bisogna.
La questione quindi non è quella di essere «contrari al progresso», alla ricerca, all’innovazione tecnologica. E perché mai? Solo, sarebbe utile chiarire quant’è grande il laboratorio in cui questa ricerca si sviluppa. Se si vuole perseguire coerentemente un progetto del genere agricoltura verticale, ci sono almeno due strade, una coerente con l’idea sempliciona che riproduce la torre d’avorio del grattacielo autoritario stile fortezza, e un’altra assai più ragionevole e produttiva, che si riassume oggi più o meno nel nome di Will Allen e del suo progetto Growing Power. Non si tratta tanto di contrapporre un progetto a un altro, ma confrontare due filosofie. In ogni caso, c’è la tecnologia concentrata, applicata all’agricoltura in ambiente urbano, salvo che alla classica downtown novecentesca in cui trovano spazio logico i grattacieli, forse sarebbe più ovvio sostituire un contesto diverso e in qualche modo postindustriale, dove esistono capannoni dismessi o superfici di risulta, insomma qualcosa di più realistico.
La vera differenza tra le opzioni, però, sta nel capire una volta per tutte che la città non è una macchina, e non lo è neppure il territorio attorno. Quando le avanguardie artistiche provavano a immaginare l’uomo nuovo, lo pensavano calato consapevolmente dentro il nuovo spazio che si era costruito con le sue mani. Si è capito più tardi, sulla base di tante dolorose esperienze, che non funziona la metafora della Grande Macchina, c’è qualcosa di più grande (come ci hanno rivelato gli studi sul cambiamento climatico). Diciamo, che esiste un modello solo ingegneristico e poco realistico, e un altro più complesso che comprende i fattori umani e ambientali.
Un impianto in stile Growing Power (che potrebbe anche adottare tecnologie diverse, offrirsi a soggetti e strutture urbane varie) parte da una scala di quartiere, dal riuso di spazi disponibili, dal coinvolgimento diretto attivo della popolazione e delle istituzioni che la rappresentano. Si pone quindi un problema di autocontrollo, che il grattacielo fortezza rinvia a chissà chi chissà quando. Un modello partecipato e sociale non si limita ad affrontare il tema ambientale ed energetico dal punto di vista dell’efficienza dell’impianto, ma anche da quello territoriale allargato, ovvero interviene sul rapporto città/campagna, che altrimenti lascerebbe al puro mercato decidere se si continua o no anche col modello estensivo del land grabbing. Perché non è difficile la torre laboratorio che concentra funzioni agricole, mentre il mercato (controllato dalle medesime forze finanziarie) individua quindi nuove destinazioni lucrose per il territorio lasciato libero.
In definitiva, con buona pace sia di chi cerca la soluzione facile pigliatutto, sia di chi sogna il ritorno a un passato mitico che non esiste, ripensare un rapporto virtuoso fra uomo e ambiente, fra città e campagna, non è cosa tanto facile, e se vogliamo trasformare il pianeta in un grande laboratorio di ricerca, sicuramente meglio farlo in modo partecipato, condiviso, senza lanciarsi in stupidaggini da scienziato delle barzellette, quelli col camice bianco, l’occhio spiritato e l’accento stravagante di chi parla soprattutto da solo.