Il jet comincia la sua discesa, e si resta incollati al finestrino. La scena sotto è incredibile: più di cinquanta chilometri quadrati di isole color del corallo, a forma di puzzle del mondo quasi terminato. Nelle verdi acque basse tra i continenti, sono chiaramente visibili le forme affondate delle Piramidi di Giza e del Colosseo. Al largo ci sono tre grandi gruppi di isole a formare una palma entro una serie di mezzelune, popolate di alberghi sviluppati in altezza, parchi tematici, e mille case di lusso costruite su palafitte sopra l’acqua. Le «Palme» sono collegate tramite moli a una spiaggia tipo Miami stipata di mega-hotel, torri ad appartamenti e approdi per yacht. Mentre l’aereo lentamente plana verso il deserto nell’entroterra, manca il fiato per l’ancora più improbabile veduta che si para davanti. Da una foresta cromata di grattacieli (quasi una dozzina alti più di 300 metri) spunta la nuova Torre di Babele. È impossibilmente alta un miglio e mezzo: l’equivalente di due Empire State Building messi uno sopra l’altro.
Vi state ancora stropicciando gli occhi dalla meraviglia e incredulità quando l’aereo atterra, e vi da il benvenuto un emporio-aeroporto, dove vi seducono centinaia di negozi pieni di borse Gucci, orologi Cartier, lingotti d’oro massiccio da un chilo. Prendete nota mentalmente di fare qualche acquisto d’oro duty-free sulla via del ritorno. L’autista dell’albergo aspetta in una Rolls Royce Silver Seraph. Gli amici hanno raccomandato l’Armani Hotel nella torre da 160 piani, o l’albergo a sette stelle con un atrio così gigantesco da contenere la Statua della Libertà, ma voi invece avete optato per realizzare una fantasia infantile. Avreste sempre voluto essere il Capitano Nemo delle Ventimila Leghe Sotto i Mari. Il vostro albergo a forma di medusa, a dire il vero, sta esattamente trenta metri sotto il livello del mare. Ciascuna delle sue 220 suites di lusso è dotata di pareti di plexiglas che offrono vedute spettacolari di sirene che passano, oltre ai famosi «fuochi d’artificio subacquei»: una allucinante esibizione di «bolle d’acqua, sabbia turbinante, e illuminazione accuratamente studiata». L’ansia iniziale per la sicurezza di un alloggio sul fondo del mare è dissolta da un sorridente responsabile. L’intera struttura è dotata si un sistema di sicurezza multilivello, vi rassicura, che comprende anche la protezione contro i sommergibili terroristi, i missili e gli attacchi aerei.
Anche se avete un importante incontro d’affari nell’area di libero scambio di Internet City, con clienti da Hyderabad e Taipei, siete arrivati con un giorno di anticipo per concedervi una delle rinomate attrazioni del parco a tema di dinosauri Restless Planet. E dopo una notte di sonno ristoratore sotto il mare, salite sulla monorotaia diretti alla giungla giurassica. La vostra spedizione incontra alcuni Apatosauri che pascolano tranquilli, ma venite immediatamente attaccati da una feroce banda di Velociraptor. Le belve animatroniche sono così impeccabilmente verosimili – sono state progettate da esperti di storia naturale del British Museum – da farvi strillare di paura ed eccitazione. Con l’adrenalina ben pompata da questo incontro ravvicinato, rifinite il pomeriggio con un’emozionante corsa in snowboard sulla locale pista black diamond. Giusto di fianco c’è il Mall of Arabia, il più grande centro commerciale del mondo – altare dove si celebra il rinomato Shopping Festival che attira 5 milioni di frenetici consumatori ogni gennaio – ma decidete di rimandare a dopo la tentazione. Invece, vi concedete una costosa esperienza di cucina thailandese fusion in un ristorante vicino alla Elite Towers che vi ha raccomandato l’autista dell’albergo. Una splendida bionda russa continua a fissarvi con sguardo da vampira assetata, e cominciate a chiedervi se il panorama locale del peccato sia stravagante quanto quello dello shopping…..
È il seguito di Blade Runner?
Benvenuti in paradiso. Ma dove siamo? É il nuovo romanzo di fantascienza di Margaret Atwood, il seguito di Blade Runner, o Donald Trump che si è fatto un acido? No, siamo nella città-stato di Dubai, nel 2010. Dopo Shanghai (popolazione attuale: 15 milioni), Dubai (popolazione attuale: 1,5 milioni) è il più grosso cantiere del mondo: un emergente mondo dei sogni del consumo opulento, di quanto qui si è soprannominato «stile di vita supremo». Dozzine di bizzarri megaprogetti – come «The World» (arcipelago artificiale), Burj Dubai (l’edificio più alto della Terra), Hydropolis (quell’albergo di lusso sott’acqua), il parco tematico Restless Planet, un impianto sciistico sotto una cupola mantenuto costantemente in un ambiente che all’esterno è di 40°, e il super-centro commerciale The Mall of Arabia – sono attualmente in corso di realizzazione, o lasceranno presto i tavoli dei progettisti.
Sotto il dispotismo illuminato del Principe della Corona e Chief Executive Officer, il cinquantaseienne sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, l’Emirato di Dubai – che ha le dimensioni del Rhode-Island – è diventato la nuova icona globale dell’urbanistica immaginata. Anche se spesso viene paragonato a Las Vegas, Orlando, Hong Kong o Singapore, il regno dello sceicco assomiglia più a una loro sommatoria collettiva: un pastiche di grosso, brutto e cattivo. Non è solo un ibrido, ma una chimera: frutto del lascivo accoppiamento delle fantasie ciclopiche di Barnum, Eiffel, Disney, Spielberg, Jerde, Wynn, e Skidmore, Owings & Merrill. Il multimiliardario Sheik Mo – come affezionatamente chiamato dagli espatriati di Dubai – non solo colleziona purosangue (la stalla più grossa del mondo) e super-yacht (il Project Platinum di 160 metri, dotato di sottomarino e ponte d’atterraggio), ma sembra anche avere impressa l’opera di culto di Robert Venturi, Learning from Las Vegas, nello stesso modo in cui i musulmani più pii mandano a memoria ilCorano (una delle cose di cui lo Sceicco va più fiero, per inciso, è di aver introdotto in Arabia le gated communities).
Sotto la sua guida, la costa del deserto è diventata un enorme circuito stampato su cui l’élite delle imprese transnazionali di engineering è invitata a inserire grumi di alta tecnologia, zone per il divertimento, isole artificiali, «città nella città»: qualunque ultimo grido del capitalismo urbano. Si può trovare, naturalmente, l’identica fantasmagorica quanto generica composizione di blocchi Lego in dozzine di aspiranti città di questi tempi, ma Sheik Mo ha un suo criterio distintivo invariabile: tutto deve essere «world class», ovvero essere il numero uno nel Guinness dei Primati. E così Dubai sta costruendo il più grosso parco a tema del mondo, il più grosso centro commerciale, l’edificio più alto, il primo hotel subacqueo, solo per citarne alcuni. La megalomania architettonica di Sheikh Mo, anche se ricorda Albert Speer e il suo mecenate Adolf Hitler, non è irrazionale. Avendo «Imparato da Las Vegas» capisce che se Dubai vuole diventare il paradiso dei consumi di lusso di Medio Oriente e Asia Meridionale (l’ufficialmente definito «mercato interno» da 1,6 miliardi), deve incessantemente cercare l’eccesso.
Da questo punto di vista, la mostruosa caricatura di futurismo della città è semplicemente un’abile strategia di marketing. I proprietari adorano architetti e urbanisti che la consacrano come punta di diamante. L’architetto George Katodrytis scrive: «Dubai può essere considerata il prototipo emergente del 21° secolo: oasi protesiche e nomadi proposte come città isolate distese su terra e mare». In più, Dubai può contare sul periodo di massime quotazioni del petrolio per coprire i costi di queste iperboli. Ogni volta che spendiamo 40 dollari per riempire il serbatoio, stiamo aiutando a irrigare l’oasi di Sheik Mo. Ed è proprio perché sta rapidamente pompando le sue ultime modeste risorse di petrolio, che Dubai ha optato di diventare una post moderna «città di netti» – come Bertolt Brecht definiva la sua immaginaria città del boom economico di Mahagonny – dove i super-profitti del petrolio devono essere reinvestiti nell’unica vera risorsa inesauribile d’Arabia: la sabbia. (E a dire il vero i mega-progetti a Dubai di solito vengono calcolati secondo il volume della sabbia spostata: 500 milioni di metri cubi nel caso di The World).
Al-Qaeda e la guerra al terrorismo possono vantare qualche merito, per questo boom. Dopo l’11 settembre, molti investitori mediorientali, temendo possibili cause o sanzioni, hanno ritirato le proprie quote in Occidente. Secondo Salman bin Dasmal della Dubai Holdings, solo i sauditi hanno riportato in patria un terzo del proprio portafoglio di un trilione di dollari in investimenti esteri. Gli sceicchi li stanno riportando a casa, e lo scorso anno si calcola che i sauditi abbiano sepolto almeno 7 miliardi di dollari sotto i castelli di sabbia di Dubai. Un altro fiume di ricchezza da petrolio scorre dal vicino Emirato di Abu Dhabi. I due staterelli dominano gli Emirati Arabi Uniti: una quasi-nazione messa insieme dal padre di Sheik Mo e governante di Abu Dhabi nel 1971 per allontanare la minaccia dei marxisti in Oman e, più tardi, degli islamisti in Iran. Oggi, la sicurezza di Dubai è garantita dalle portaerei americane abitualmente ormeggiate nel porto di Jebel Ali. A dire il vero, la città-stato si propone aggressivamente come avamposto, «Zona Verde», in un’area sempre più pericolosa e turbolenta.
Ne frattempo, mentre un numero crescente di esperti avverte che l’epoca del petrolio a buon mercato sta finendo, il clan di al-Maktoum può contare su un vitale torrente di profitti da petrolio in cerca di una collocazione tranquilla e stabile. Quando i forestieri mettono in discussione la sostenibilità dell’attuale boom, i responsabili di Dubai sottolineano che la loro nuova Mecca si costruisce sui dividendi, non sui debiti. A partire dalla decisione fondamentale del 2003, di aprire senza limiti la proprietà agli stranieri, ricchi europei e asiatici sono corsi a diventare parte della bolla di Dubai. Un affaccio su spiaggia in una delle «Palme» o, ancora meglio, un’isola privata nel «Mondo», ora ha le quotazioni di St. Tropez o di Grand Cayman. I vecchi padroni coloniali hanno guidato il branco, con espatriati e investitori britannici divenuti la miglior pubblicità per il mondo dei sogni di Sheikh Mo: David Beckham è proprietario di una spiaggia e Rod Stewart di un’isola (si mormora sia stata battezzata Gran Bretagna).
Una maggioranza invisibile di non garantiti
Il carattere utopico di Dubai, va sottolineato, non è un miraggio. Anche più di Singapore o del Texas, la città-stato è davvero un’apoteosi di valori neo-liberali. D’altra parte, offre agli investitori un comodo sistema, in stile occidentale, di diritti proprietari, inclusa la freehold ownership, caso unico nella regione. Compresa nel prezzo un’ampia tolleranza al consumo di alcol, droghe leggere, agli abiti scollati, e ad altri vizi d’importazione formalmente prescritti dal diritto islamico. (Quando gli espatriati di Dubai ne decantano l’inimitabile «apertura» stanno decantando questa libertà di gozzovigliare: non quella di organizzare sindacati o pubblicare opinioni critiche). D’altra parte, Dubai insieme ai suoi vicini emirati ha raggiunto il massimo in fatto di annullamento delle garanzie sul lavoro. Sindacati, scioperi, militanti, sono illegali, e il 99% della manodopera del settore privato è costituita da non-cittadini, facilmente deportabili. Davvero, i grandi pensatori di istituti come lo American Enterprise o Cato devono sbavare contemplando il sistema di classi e diritti di Dubai.
In cima alla piramide sociale, naturalmente, c’è la famiglia al-Maktoum e i suoi cugini, che possiedono ogni profittevole granello di sabbia dello sceiccato. Poi, il 15% della popolazione nativa – con la caratteristica uniforme del privilegio rappresentata dal tradizionale dish-dash bianco – a costituire una leisure class la cui obbedienza alla dinastia è sostenuta da trasferimenti di reddito, scuole gratuite, posti di lavoro governativi. Un gradino sotto, i coccolati mercenari: 150.000 più o meno, ex paracadutisti britannici, insieme a altri europei, libanesi, indiani, manager e professionisti, che traggono il massimo vantaggio dalla propria agiatezza ad aria condizionata, con due mesi di ferie all’estero ogni anno. Ma sono i lavoratori a contratto dal Sud Asia, legati a una singola impresa e soggetti ad un controllo sociale totale, a costituire la gran massa della popolazione. Lo stile di vita del Dubai è sostenuto da grandi numeri di cameriere dalle Filippine, Sri Lanka, India, e il boom edilizio poggia sulle spalle di un esercito di malpagati pakistani e indiani, che lavorano su turni di dodici ore, sei giorni e mezzo la settimana, nel forno arroventato del deserto.
Dubai, come i suoi vicini, si fa gioco delle regole dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e rifiuta di adottare la Convenzione dei Lavoratori Migranti. Human Rights Watch nel 2003 ha accusato gli Emirati di costruire la propria ricchezza sul «lavoro forzato». E davvero, cme ha sottolineato di recente il britannico The Independent in un servizio su Dubai, «Il mercato del lavoro assomiglia da vicino al vecchio sistema senza garanzie esportato a Dubai dagli antichi padroni coloniali: i britannici». … «Come i loro impoveriti antenati» continua il giornale, «gli attuali lavoratori asiatici sono obbligati a firmare un contratto di virtuale schiavitù per anni, quando arrivano negli Emirati Arabi Uniti. I loro diritti scompaiono all’aeroporto, dove i funzionari delle assunzioni confiscano passaporti e visti, per controllarli».
Oltre ad essere super-sfruttati, i servi del Dubai devono anche diventare invisibili. I desolati campi da lavoro nelle periferie della città, dove gli operai si affollano in sei, otto, anche dodici in una stanza, non fanno parte dell’immagine ufficiale turistica di una città del lusso, priva di quartieri popolari e povertà. In una visita recente, si racconta che anche il Ministro del lavoro degli emirati Arabi Uniti sia rimasto profondamente scioccato dalle condizioni squallide, quasi insopportabili di un campo di lavoro molto lontano tenuto da un grande appaltatore delle costruzioni. Ma quando i lavoratori tentano di formare un sindacato per migliorare le paghe o le condizioni di vita, vengono immediatamente arrestati. Il Paradiso, comunque, ha anche angoli più oscuri dei campi di lavoratori senza diritti. Le ragazze russe nell’elegante bar dell’albergo sono solo la fascinosa facciata di un sinistro mercato del sesso costruito sui rapimenti, la schiavitù, la violenza sadica. Dubai – lo dice qualunque guida di tendenza – è la «Bangkok del Medio Oriente» popolata da migliaia di prostitute russe, armene, indiane, iraniane, controllate da varie bande e mafie internazionali. (La città, comodamente, è anche centro mondiale per il riciclaggio di denaro, con uno stimato 10% degli affari immobiliari che avviene in transazioni solo in contanti).
Sheikh Mo e il suo regime profondamente moderno, naturalmente negano qualunque collegamento con questa fiorente industria delle luci rosse, anche se chi ne capisce sa che le puttane sono essenziali per tenere pieni di uomini d’affari europei e arabi tutti quegli alberghi a cinque stelle. Ma anche lo Sceicco in persona è stato direttamente toccato dal più scandaloso vizio di Dubai: la schiavitù di bambini. Le corse dei cammelli sono una grande passione negli Emirati, e nel giugno del 2004 la Anti-Slavery International ha pubblicato fotografie di bambini in età prescolare che facevano i fantini a Dubai. HBO Real Sports contemporaneamente riferiva che tra questi fantini «alcuni hanno solo tre anni: vengono rapiti, o venduti schiavi, affamati, picchiati, violentati».
Alcuni dei piccoli fantini erano ritratti al circuito di proprietà della famiglia al-Maktoum. Il Lexington Herald-Leader – un giornale del Kentucky, dove Sheikh Mo possiede due grossi allevamenti di purosangue – ha confermato in parte la storia di HBO in un’intervista a un maniscalco locale che aveva lavorato per il principe della corona in Dubai. Raccontava di aver visto «bambini molto piccoli», anche di quattro anni, in groppa a cammelli da corsa. Gli allenatori affermano che le grida di terrore dei bambini spingono gli animali a correre più forte. Sheikh Mo, che si definisce un profeta della modernizzazione, ama impressionare i visitatori con antichi proverbi e acuti aforismi. Uno dei preferiti: «Chiunque non tenta di cambiare il futuro resterà prigioniero del passato». Ma il futuro che sta costruendo a Dubai – tra gli applausi dei miliardari e delle imprese transnazionali da tutto il mondo – non sembra altro che un incubo dal passato: Walt Disney incontra Albert Speer sulle coste della penisola arabica.
Tom Dispatch, 14 luglio 2005 – Titolo originale: Sinister Paradise. Does the Road to the Future End at Dubai? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini