Ogni tanto capita di sorridere e scuotere il capo, davanti a certe manifestazioni di fiducia infantile per l’innovazione scientifica e tecnologica, dalle foto ottocentesche di improbabili macchine sempre cavalcate da baffuti signori, fino ai contemporanei brufolosi nerd col loro linguaggio incomprensibile. Perché lo sapiamo tutti per esperienza diretta o letture, quanto le mirabolanti promesse di quelle miracolose tecniche si siano quasi sempre risolte in una bolla di sapone, o peggio in un rosario di guai infiniti ed effetti collaterali imprevisti. Non bisogna però dimenticare mai almeno un aspetto, fondamentale di tutta la faccenda: in mezzo alle miriadi di pure stravaganze e fantasie malate, stavano anche le cose che poi ci hanno rivoluzionato per il meglio la vita. E di conseguenza badare bene agli eccessi di diffidenza e superiorità che ci verrebbero spontanei guardando alle innovazioni passate e presenti, anzi in particolare a quelle passate, ponendosi la domanda: ma è proprio vero che le «macchine celibi» (per usare l’azzeccato termine del dadaista Marcel Duchamp) siano davvero tali, ovvero destinate per sempre a non riprodursi socialmente, lasciando soltanto quella traccia da scheggia impazzita dell’innovazione senza sbocco?
Vintage nerd city
Tornano in mente, con queste premesse, certi passaggi del conservazionismo architettonico-urbanistico europeo a cavallo tra XIX e XX secolo, quando forse speranzosi nei medesimi trabiccoli di cui oggi sorridiamo i cultori del bello riflettevano sui modi per adattare le città antiche alla vita moderna. Individuando proprio nell’innovazione più spinta lo strumento chiave per evitare soluzioni drastiche, come quelle invece perseguite dagli ingegneri sventratori, loro sì molto convenzionali e conservatori nel metodo, quando di fronte ai quartieri degradati avevano una sola ricetta: raderli al suolo, o abbandonarli al loro destino. I conservazionisti invece, guardando alle possibilità dell’idraulica, dell’impiantistica in generale, o dei telefoni, o dei trasporti meccanici o altro, sognavano un passaggio soft verso un uso diverso e moderno dei medesimi spazi della tradizione, in questo però «filosoficamente» un po’ contraddetti dall’ondata successiva dei progettisti di città moderne che accettando in pieno la logica industrialista affermavano perentori: «la forma segue la funzione». Il che a noialtri di fatto discendenti di una solida tradizione parrebbe ovvio, ma ovvio non è affatto, come ci insegna se lo guardiamo con attenzione proprio qualunque centro storico recuperato nel secondo ‘900, e recuperato proprio seguendo la filosofia secondo cui gli spazi restano, le funzioni possono benissimo cambiare, basta usare la tecnologia, basta «smanettare» un po’, anche se certo gli austeri cultori dell’arte non usavano quel termine.
Uno zoning a zonzo
Chi poteva per esempio pensare, secondo la filosofia spazio-funzione, che una pulciosa stia per cafoni poteva essere la prestigiosa sede di rappresentanza di un’impresa multinazionale? Eppure, a ben vedere, è esattamente ciò che è avvenuto. Avevamo quei centri storici fatti di pochi prestigiosi palazzi o chiese, e tantissime degradate casupole ammucchiate una sull’altra, cortili microscopici e puzzolenti, stanze stipate di gente sporca perché anche volendo non c’era di che lavarsi, eccetera. Oggi quei medesimi spazi, grazie alle tecnologie varie applicate e interpretate per un paio di generazioni, valgono tanto oro quanto occupano, addirittura in valore d’uso oltre che di scambio, semplicemente perché svolgono benissimo identici altre funzioni, assai pregiate. Il medesimo criterio dell’indifferenza tra spazio e funzione (e quindi anche una parallela necessità di regolamentazione diversa da quella spaziale) lo potremmo da un lato applicare all’idea di zoning, dall’altro a attività diverse da quelle della sola residenza, perché come ovvio tutto questo ragionamento non vuole essere banale giustificazione di certi processi speculativi, o di gentrification, o di terziarizzazione. Basta sostituire all’idea di casupole degradate quella di oscure botteghe, e al razionalismo sventratore o costruttore dei nuovi complessi extraurbani uno dei suoi migliori simboli, cioè lo scatolone shopping mall automobilistico. Che sta tramontando col tramontare del modello territoriale e sociale che l’ha prodotto, ma che se ragioniamo con un briciolo di senno non richiede affatto radicali ripensamenti sul tipo di forma della città, almeno su quel versante. Richiede invece di pensare: cosa possono fare le tecnologie, per rispondere a quali funzioni esattamente? Del resto tra le migliori intuizioni del razionalismo c’era anche quella di negare sé stesso, quando pensava a spazi di qualità che magari potevano cambiare uso senza perderla, quella qualità. Lo dicevano loro, mica noi, che volendo lo spazio è indifferente alla funzione, basta chiamare un nerd adeguato e metterlo a smanettare, per così dire.
Riferimenti:
Helen Roxburgh, Can ‘smart malls’ save the new Chinese shopping centres in danger of closure? The Guardian, 17 settembre 2015