Forse per cogliere davvero in tutto il suo «splendore» il disastro dell’approccio spazialista-efficientista alla trasformazione urbana, il modo migliore è guardare senza troppi preconcetti quel che ha prodotto là dove si è potuto esprimere senza alcun vincolo, ovvero nelle situazioni in cui sia il territorio che la società locale si presentavano, addirittura in varie fasi successive, nella forma cara ai decisori top-down, della tabula rasa. Dove preesistenze, interazioni, processi dialettici di qualunque tipo, o non esistevano del tutto, o erano considerate prive di qualunque senso e valore, anzi addirittura il «male da combattere». Il campo ideale per il dispiegarsi di questo atteggiamento e dei suoi effetti è la tipica periferia urbana della città moderna, che attraversa le classiche consolidate banali sliding doors storiche, in cui però non si sceglie mai, procedendo invece per automatismi diciamo così tecnici. C’è il primissimo ciclo dello sviluppo urbano periferico spontaneo, che naturalmente può essere coordinato o meno coordinato, a seconda dei contesti, ordinato da norme e infrastrutture di base esistenti, oppure disordinato e carente in assenza di queste, ma pur sempre basato sulla iniziativa singola e il prevalere del particolare sul tutto. In genere il cosiddetto slum nasce da queste basi: subito se lo sviluppo urbano periferico è di tipo disordinato e con scarse risorse economiche, oppure per degrado abbandono e crollo di valore di una struttura ordinata ma spontanea e dunque fragile precedente.
Sensazionale: scoperta vita intelligente nel quartiere!
A quel punto, di cui lo slum può essere soltanto una forma estrema, affiancato o direttamente sostituito da varie gradazioni di disagio urbano, entra in campo la riqualificazione «razionalista», ovvero che alla somma di progettualità individuale sostituisce una progettualità unificata su un modello teorico che fa da contenitore a bisogni ben precisi. Da qui nascono in sostanza quei piani sedicenti organici di radicale riorganizzazione del tessuto urbanistico e edilizio, sulla base di statistiche apparentemente molto accurate, studi sulle necessità di individui e famiglie, risposte spaziali riferite a una modellistica apparentemente consolidata. A poco servono, a quanto pare, le critiche spontanee dei destinatari di tanta manna teorica, secondo cui quei luoghi sono brutti, privi di anima, «unità di abitazione inabitabili»: i proponenti non hanno alcuna intenzione di far marcia indietro, e considerano anzi un’offesa personale quelle critiche, da parte di ignoranti ingrati di tanta beneficienza. Alla medesima famiglia «razionalista» top-down appartiene anche, pur con qualche aggiustamento, la prima fase della riqualificazione urbanistica novecentesca, in cui tornando indietro a metà nell’equilibrio individuale-collettivo, si cerca nell’identità spaziale non solo dell’alloggio interno qualche spunto di miglioramento, pur rimanendo inchiodati al grande progetto di architettura come metodo di intervento. Sono i plateali e ripetuti fallimenti a far intuire che probabilmente c’è qualcosa che non funziona nel manico, nella prospettiva: non si tratta di sostituire tanti progettini con un progettone, ma riconoscerne il valore, e ricomporli in una strategia.
L’equilibrio pubblico-privato non finanziario
Per contrasto, basta pensare al relativo successo di quartieri «razionalisti» sul versante delle forme fisiche, ma per nulla tali su quello del piano organizzativo, dato che è stato il libero mercato a selezionare a modo suo le progettualità individuali e familiari che li compongono. Se proviamo a escludere strumentalmente la questione stretta monetaria compro-vendo, ne emerge un percorso in grado di dare al termine «riqualificazione partecipata» un senso davvero alternativo. Che si fa quando un quartiere è letteralmente scivolato giù (slum è filologicamente derivato da slump)? Letteralmente, si torna al principio, a quella fase che precede anche la prima urbanizzazione, ma attenzione: non facendo tabula rasa fisica e già pensando a una nuova conformazione pure fisica. La piazza pulita essenziale è quella dei bisogni e delle decisioni, dell’equilibrio tra soggetti, ovvero il metodo dell’ascolto e dell’auto-ascolto. Non ci sono un progettista e dei progettati, per così dire, ma gente che cerca casa in quella che già è casa propria. Un famoso archistar internazionale sostiene che storicamente l’architettura nasce nel momento in cui l’essere umano avverte la necessità di cercarsi una adeguata dimora. Da questo punto di vista diciamo allora che una riqualificazione efficace a scala di quartiere dipenda dall’evitare ad ogni costo che si avverta il bisogno di architettura, o meglio il suo manifestarsi in quelle forme che da sempre conosciamo, dove «partecipazione» è comitato di benvenuto per il genio di turno, tecnico politico e mediatico che sia. Il resto, tutto il resto, sono dettagli, come nell’allegato processo di pianificazione partecipativo per il quartiere di Brownsville, al centro di Brooklyn.
Riferimenti:
– New York City, Department of Housing Preservation and Development, The Brownsville Plan: Our Home, Our Future, giugno 2017 (scarica il pdf dal sito del servizio)
– Idem, Neighborhood Planning Playbook, settembre 2015 (scarica il pdf dal sito del servizio)