Nasceva ufficialmente a Londra circa un secolo fa, l’idea di urbanista moderno, quando su iniziativa del Royal Institute of British Architects si riunivano a congresso studiosi e professionisti da tutto il mondo rivendicando in sostanza una grande intuizione maturata proprio e principalmente nel mondo dell’architettura: le trasformazioni urbane non potevano più avvenire di fatto spezzettando nello spazio, nel tempo, nei flussi economici e nelle decisioni decine di competenze e prospettive diverse. Che ci fosse un gran bisogno di qualche genere di sintesi lo dimostrava da solo e da subito già il contenuto e il tono delle comunicazioni, a tratti surreale come quando George Lionel Pepler esordisce così: «Se non fosse per la straordinaria importanza dell’argomento che propongo, quasi dovrei scusarmi del fatto di presentarlo a questo Convegno, vista la distanza da una prospettiva propriamente architettonica». E di argomento importante si tratta di sicuro, visto che è la London Orbital, dopo un paio di generazioni caposaldo del grande piano regionale di Abercrombie, e capostipite di tutti gli schemi metropolitani del mondo.
Ma la confusione su cosa diavolo siano, l’urbanistica e l’urbanista, decisamente imperversa, e lo si vedrà di lì a non molto con la divaricazione di fatto in due tronconi (due a dir poco) o gruppi di principi generali, confusi spesso anche dagli stessi protagonisti con alcune forme esteriori, testimoniando la fatica di allontanarsi da quella citata «prospettiva propriamente architettonica». Ci sono da un lato i sostenitori dell’approccio razionalista modernista, diventati poi negli anni famigerati per i quartieri di casermoni o falansteri che dir si voglia. Dall’altro i discendenti del riformismo socio-ambientale utopistico, superficialmente antindustrialista, con le loro densità ridotte, l’integrazione tra verde e architetture, l’attenzione alla comunità spontanea. Ovviamente c’è anche tantissimo che mescola e confonde nei fatti questi due approcci, in fondo davvero divisi da qualcosa di superficiale e accomunati dalla profonda radice comune: valga per tutti la costante ricerca della dimensione ideale intermedia fra l’individuo-famiglia e la società più in generale, declinata via via fra unità di vicinato, quartiere autosufficiente, separazione per zone omogenee o a funzioni composite.
Un primo deciso segnale di discontinuità, rispetto alle divaricazioni, ri-convergenze, nuovi equilibri di questa comunità tecnico-scientifica, arriva verso la metà del ‘900, quando fa capolino un inatteso dissenso esterno. Anche qui per molti versi succede, anche se informalmente e spalmato nel tempo e nello spazio, qualcosa di analogo alla Town Planning Conference di Londra 1910, c’è una convergenza, una coincidenza, ma al tempo stesso tutto si articola da subito in vari rivoli di cui proviamo a individuare un paio di grandi famiglie, corrispondenti a quelle degli architetti-urbanisti. La prima famiglia ha anche il suo bel nome proprio da sfoggiare come santino di riferimento, ed è (inutile forse ricordarlo) quello della casalinga urbanista per caso Jane Jacobs, temprata nell’opposizione culturale sociale e politica al dispiegarsi meccanico della città razionalista governata con criteri meccanici e autoritari. La seconda famiglia non sa ancora di essere tale, e si esprime nel puro iniziale disagio per quello che qualche audace ha iniziato a chiamare addirittura sprawl, riprendendo un nomignolo già usato da paesaggisti e conservazionisti tra le due guerre mondiali. Il disagio per i quartieri dormitorio ormai prodotti in serie «immersi nel verde» dai discendenti perduti della cultura della città giardino, immemori sia di cosa sia una città, sia della differenza tra un giardino e un prato davanti al cancello di ingresso.
E arriviamo ai nostri giorni, in cui per dirla con le statistiche internazionali, l’urbanizzazione planetaria trasformerebbe l’urbanistica in una specie di potenziale geopolitica, e il suo approccio in un nuovo, ennesimo convergere di società, saperi, aspirazioni. La domanda a cui ci sarebbe da trovare risposta è chi adesso, dovrà farsi carico della responsabilità di elaborare un nuovo modello all’altezza dei tempi e dei bisogni, e di gestirne la trasformazione in spazi e sistemi ambientali sempre più vasti e comprensivi. Non certo più l’intellettuale solitario degli albori del XX secolo, con la sua fusione di arte e scienza che rinvia alla politica, ma neppure quel vago anelito partecipativo assembleare emerso dal disagio di metà secolo, ed espresso soprattutto in opposizioni locali, la cui capacità di elaborare progetti si è poi incanalata in modi del tutto tradizionali, per quanto molto più attenti ad esprimere la domanda. Come si riformula, oggi, l’idea di città e territorio?
Riassumendo per sommi capi un processo ancora ampiamente agli inizi, ma di cui si possono già intravedere parecchi segnali, la nuova urbanistica potrebbe configurarsi a partire da un rinnovato intreccio, non solo analogo ai due descritti sopra, ma in grado in qualche modo di ricomporli nella continuità. Il «nuovo urbanista» (chiamiamo così per semplificare un soggetto non certo individuale) deriva coerentemente dalla transizione che per tutta la seconda metà del ‘900 ha visto dialetticamente scontrarsi l’idea originaria, di approccio scientifico-professionale universale, quella di espressione spontanea di disagio e bisogni locale dei destinatari della pianificazione, sfociando sostanzialmente in un processo comunicativo e di relazione.
Un processo dove pianificare, individuare priorità, decidere modi e tempi, entra direttamente nel fare politica, nella partecipazione in quanto diritto, inclusione, potere effettivamente praticato in modo diffuso, ben diverso sia dall’elaborare grandi progetti o contrapporsi ad essi con istanze alternative particolari. Una città e un territorio che esprimono un processo di pianificazione sanno amalgamare il punto di vista degli abitanti e dei portatori di interessi piccoli e grandi, quelli mediati e metabolizzati dei loro rappresentanti eletti ai vari livelli, e soprattutto sono in grado di riequilibrare (o almeno provare a farlo sistematicamente) il peso relativo dei decisori, determinato dal loro potere. Si integrano così – in verticale e in orizzontale – anche le conoscenze specifiche, quelle che nella prima metà del ‘900 avevano a volte diviso la disciplina urbanistica, a volte addirittura determinato gerarchie che parevano eterne e naturali fra i saperi e il loro ruolo relativo. Restano le discipline prettamente spaziali tradizionali, ma si integrano quelle sui flussi (materiali e oggi immateriali), sociali, ambientali, ciascuna poi articolata a sistema nei propri aspetti gestionali. Forse qualche importante architetto entusiasticamente accorso alla Town Planning Conference di Londra 1910 resterebbe perplesso, magari scandalizzato, davanti a questa perdita di sacralità delel forme fisiche, del «contenitore» che domina il contenuto. O forse, ne coglierebbe il grande spirito innovativo, di fatto analogo nel metodo e negli obiettivi allo spirito di quei tempi.
Su La Città Conquistatrice molti testi, d’epoca e non, trattano il tema della figura dell’Urbanista
Alcuni concetti ripresi nell’ultimo paragrafo derivano da una rilettura in prospettiva storica dell’ultimo rapporto ONU-Habitat, Urbanization and development – Emerging futures – 2016