Finestre rotte suburbane (1956)

suburban_home_lifePraticamente senza alcun anticipo, salvo qualche centesimo e l’impegno a pagare, e pagare, e pagare, finché vivi, anche voi potete comprarvi una vostra scatoletta tra quegli squallidi tuguri immersi nel verde che si stanno costruendo ai margini delle città americane. L’offerta copre tutte le fasce di prezzo, e già mentre state ci state leggendo stanno spuntando come una cancrena chilometri quadrati di scatolette identiche, dal New England, alle praterie fino a Denver, attorno a Los Angeles, Chicago, Washington, New York, Miami: ovunque. In uno qualunque di questi nuovi quartieri, che stia a Hartford o a Filadelfia, potete star sicuri che tutte le altre case saranno esattamente identiche alla vostra, abitate da gente di età, reddito, numero di figli, problemi, abitudini, argomenti di conversazione, abiti, arredamenti, probabilmente anche gruppo sanguigno, uguale al vostro. In qualunque di questi quartieri ci si può inimicare il vicino della porta accanto a velocità incredibile. Se vi comprate quella casetta, potete star certi che i vostri figli vi abbandoneranno al più presto, dato che come minimo non assoceranno mai il concetto di casa a quello di benessere. Per farla breve, signore e signori, ecco a voi la possibilità di verificare da soli alcuni aspetti dei quartieri residenziali contemporanei: quartieri nati nell’errore, alimentati dall’avidità, che infettano qualsiasi cosa che toccano. Che distruggono le città e le relazioni, che creano gravi problemi alle aree invase, che fanno impazzire le migliaia di casalinghe imprigionate là dentro.

Tutte cose ben note ai più accorti economisti, sociologi, psicologi, amministratori e finanzieri, e che sicuramente sospettano anche gli abitanti dei quartieri suburbani, ma non si nota alcun rallentamento nella loro realizzazione. Anzi, agli amministratori di Washington non par vero di esultare ogni qual volta un costruttore vomita migliaia di nuove case su campi che tanto meglio sarebbero serviti a pascolo, perché loro considerano quelle case solo dal punto di vista dell’occupazione, degli scambi di beni e servizi. Posti di lavoro per un esercito di guidatori di ruspe, falegnami, piastrellisti, idraulici, elettricisti, gente che scava pozzi, stende asfalto, camionisti, tuttofare a giornata. Poi arrivano i nuovi proprietari, seguiti da tutte le loro necessità, e sorgono velocissimi il supermercato e il centro commerciale, con tutto il relativo altro esercito di dirigenti e addetti alla vendita, macellai, fornai, addetti alla sicurezza, venditori d’auto, ristoratori, cameriere, piazzisti, postini, poliziotti, pompieri, insegnanti, operatori sanitari di vari livelli: le truppe cammellate ausiliarie della civiltà. Nuovo insediamento, nuovi posti di lavoro, nuovi redditi, nuovi scambi economici, e presto tutti potranno comprasi un’altra televisione: a Washington questa cosa la chiamano ricchezza. Il fatto che si tratti di sola ricchezza materiale, che forse sia effimera, addirittura illusoria, sembra non preoccupare nessuno, al momento.

Case ai reduci

Proviamo a fare un passo indietro e ricostruire la vicenda degli attuali quartieri residenziali. Le prime buone intenzioni che proverbialmente lastricano questa nostra Via Dolorosa moderna, vengono posate alla fine dell’ultima guerra. Ben consapevole del fatto che tredici milioni di giovani avevano rischiato ferite, mutilazioni o anche la morte, e non certo per propria scelta, la nazione grata decide di mostrare la propria riconoscenza ai sopravvissuti. Viene approvata la Legge sui Reduci, in cui uno degli articoli offre un incentivo alle banche per concedere mutui a bassi tassi di interesse, per consentire l’acquisto di una casa. L’accordo è che sia garantito il recupero del credito dal governo anche nel caso in cui il veterano non riesca a coprirlo. I tizi del mercato immobiliare leggono quella legge, si guardano l’un l’altro entusiasti, e il baccano che produce il loro solo fregarsi le mani lo si potrebbe sentire sino a Tawi Tawi. Immediatamente, grazie ai moderni mezzi pubblicitari, stampa, radio, televisione e meraviglie assortite, dilaga l’assurdo — sta continuando a farlo anche oggi — secondo cui il veterano deve essere proprietario di casa. Nessuno che pensa per un istante di dare qualche motivazione a questa stupidaggine. Mai, nei 180 anni di storia degli Stati Uniti, si era immaginato che un giovane che esce dall’adolescenza (o da una guerra) e fa il suo ingresso nella vita adulta, debba automaticamente comprarsi una casa.

I giovani devono spostarsi

Il fatto di essere mobili sta nella natura stessa dei giovani. È piuttosto raro infatti il caso di qualcuno la cui esistenza si evolva dritta come un fuso, dalla scuola allo stesso lavoro che gli durerà fino alla morte. Ci sono tanti alti dirigenti d’azienda che da giovani hanno guidato il furgoncino del panettiere, poi magari hanno tentato di mettersi in proprio senza troppo successo, poi ancora hanno provato con le vendite porta a porta di spazi cimiteriali, prima di entrare nel settore dei bottoni e fare tutta quella carriera Essere proprietari significa una certa stabilità in un luogo: esattamente la caratteristica che il giovane brillante non ha, non deve avere. Un giovane deve restare mobile finché non trova la strada giusta e più adatta. Mentre un uomo con una casa è inchiodato a quel pavimento. L’articolo sui mutui della Legge sui Veterani spalancava possibilità gigantesche.Non sono c’era la garanzia del governo, ma terreni da valorizzare, e visto che la propaganda pubblica aveva convinto il veterano a diventare proprietario di casa, dal punto di vista terra terra degli immobiliaristi c’era solo il dubbio di quanti metri quadrati concedergli, per quei soldi. Detto in termini più correnti, quanto piccola dovesse essere la casa di un piccolo reddito. La questione dei costi diventava l’unico criterio nella casa del dopoguerra, l’economia si faceva sullo spazio.

Casette

Il classico operatore edilizio del dopoguerra è una persona che si pone il problema di quante case riuscire a stipare in un angolino di terreno, riuscendo a ottenere l’autorizzazione urbanistica. Poi si fa un fischio e arrivano le ruspe a strappare ogni albero, livellare avvallamenti, rendere omogenea la desolazione. Poi sorgono le case, una dopo l’altra, tutte identiche: nessuna di quelle realizzate subito dopo la guerra ha una superficie superiore a quella di un piccolo appartamento economico a due stanze. Sala da pranzo, veranda, cantina, spesso anche il solaio, tutto spazzato via dal paesaggio americano. Resta una scatoletta posata su una fredda piattaforma di cemento, con due stanze, bagno, e uno spazio tinello con le dimensioni di uno sgabuzzino delle scope, fra il soggiorno e la piccola cucina. Un tappeto due per tre nella stanza più spaziosa, una vetrata sulla parete del soggiorno. Secondo il costruttore è la finestra della veduta panoramica. Il panorama è quello della casetta identica dall’altra parte di una via senza alberi.

I giovani americani che vanno ad abitare dentro questi cubicoli, non sono in grado, né lo saranno mai, di godere di quella dignità dell’abitare sperimentata dai loro genitori, in quelle spaziose case familiari su due o tre piani, in mezzo a un prato, affacciate su un viale ombroso, come per esempio a Watertown, New York. Per loro e per i loro figli ora c’è solo la scatoletta sulla piattaforma di calcestruzzo, modello standard Cape Cod Rambler. Inevitabile che venga considerata un ripiego, quell’abitazione, dai giovani acquirenti, non certo la casa dei sogni, né quel quartiere in grado di dare la pace dell’anima: ma è l’unica alternativa disponibile. Non c’è altra scelta, impossibile farsi la casa da soli, né si può scegliere il tipo di architettura. Certo si può optare, invece che per quella casa non molto desiderabile, per le altre in affitto, il cui affitto schizza alle stelle non appena la lobby degli immobiliaristi prende il controllo del mercato. Quella casetta nei quartieri è l’unico spazio di vita previsto per le possibilità dei giovane veterano.

C’è un detto fra gli agenti immobiliari un minimo seri, che recita: non comprarti la casa se non sei sicuro di abitarci almeno una decina d’anni almeno. Inoltre, aggiungono, non sempre si tratta di un investimento. Nonostante ciò, le case invece si comprano anche solo per usarle come accampamenti temporanei nel lungo sentiero selvaggio della vita, e cosa ancor più incredibile è lo stesso governo che negli ultimi due anni sottolinea questa idea del tutto singolare. Con la copertura del governo, l’acquirente compra casa così come compra la macchina: troppo piccola per la famiglia che si è allargata? Via dalla vecchia, e dentro la nuova, consiglia il governo, e il mondo delle costruzioni prosegue il suo lavoro sporco cercando di non far scoppiare la bolla. Il modello si è creato coi primissimi quartieri per i veterani, le case vendute come cornetti caldi, e da allora hanno continuato a infornarne. Oggi sono un pochino diverse da quelle del 1947, giusto per via dei materiali migliori, e della manodopera che lavora meglio. Restano identici i problemi abitativi, e nulla cambierà almeno finché resterà lo stesso modello d’azione: finché un quartiere non verrà considerato qualcosa di più di uno spazio con delle case sopra.

Il problema delle lottizzazioni residenziali

Case non vuol dire città, perché quella parola sta a significare una certa composizione di uomini, donne e bambini che ci abitano e ci trovano risposta ai propri bisogni. In queste zone residenziali non ci sono posti di lavoro, e in generale mancano anche strutture ricreative, chiese, scuole, luoghi di incontro. Un altro rischio, attuale e per il futuro, sta nel fatto che quei posti compongono una società stratificata per settori uniformi, in un paese che sinora ha prosperato proprio per la propria non stratificazione, sulla diversità dei singoli. Oggi è possibile semplicemente attraversare in auto le varie zone attorno a una città, e a colpo d’occhio farsi un’idea dei diversi strati sociali. Quartiere case da diecimila dollari: due stanze, automobili economiche, reddito medio 75 dollari la settimana al netto delle tasse, tre figli, 25 dollari la settimana per il mangiare, occupazioni da guidatore di autobus a imbianchino. Quartiere di case modello 13.950 dollari: tre stanze, cosa apprezzata da lavoratori di fascia intermedia o piccoli impiegati, auto di prezzo medio, una media di due figli e mezzo, le scarpe da uomo da 12 a 20 dollari. Segue il quartiere delle case su due livelli separati da 7.450 dollari, progetto su misura per personalità su livelli separati, auto di fascia superiore senza esagerare, conto al negozio di liquori 25 la settimana, qualche biglietto aereo a credito per viaggi in Europa.

La comparsa di chilometri quadrati di nuove case in una zona che era un tempo rurale vicino a una città, significa conflitti anche violenti. I nuovi giovani abitanti, che capiscono solo il disagio dei bisogni a cui non trovano alcuna risposta, sono intolleranti rispetto allo spazio che sono andati a invadere. L’unico elemento di coesione fra i proprietari in questi nuovi quartieri, a ben vedere, è l’odio per gli altri. Costituiscono una sorta di società di mutuo assalto al prossimo, in cui il primo obiettivo dell’aggressione è chi ha costruito quelle case, il secondo il territorio dentro cui si collocano. La comunità originaria che è stata così invasa, per parte sua, non accoglie certo con entusiasmo i nuovi venuti. Certo le questioni amministrative poste a un ente locale dall’improvvisa comparsa di migliaia di nuove famiglie sono tali da far tremare i polsi di chiunque. Ancora più terrificante la situazione dei quartieri interni delle città, abbandonati dal ceto medio e dai suoi contributi fiscali nella fuga verso il suburbio.

Manca lo spirito comunitario

La prima cosa importante da capire dei vicini, è che non si tratta di tuoi amici. Non potranno mai esserlo, nei casi migliori si tratta di una conoscenza superficiale per motivi utilitari. Per usare le parole del sociologo Harold Mendelsohn, dell’American University:

«Nei quartieri residenziali emergono modalità superficiali di relazione. Si tratta di cose artificiali, basate su una mutua utilità, e non sull’amicizia o su un bisogno più profondo. Ho bisogno di un martello, lo chiedo in prestito al signor B. Se con B ho litigato, non importa, lo chiederò in prestito a C. Poi ci sono D e E che si mettono d’accordo per badare ai figli piccoli. O usare tutti insieme l’auto di qualcuno a turni. Tutte cose che sono utili, pratiche. Chi sta in una lottizzazione non ha alcun bisogno di socializzare con gli altri, per quello c’è la città dove si lavora. Quindi chi sta in quei quartieri si saluta con un cenno, va a chiedere delle cose in prestito, e quei rapporti basati su un martello da restituire, per fare giusto un esempio, non hanno più significato del tipo di relazione che instauriamo con l’idraulico che ci viene a fare una riparazione nell’appartamento. Le donne suburbane socializzano perché non possono fare a meno di incontrarsi: sempre nei giardinetti con bambini, bambini che giocano assieme, e così le mamme si incontrano. Ma ancora si tratta di conoscenze di servizio: la tazza di zucchero in prestito, il borotalco per gli arrossamenti del bebè. Ci si forniscono vicendevolmente dei servizi, i medesimi servizi che in una città di norma arriverebbero commercialmente a domicilio».

«Inoltre – prosegue Mendelsohn – non esistono le basi per stringere amicizie più approfondite. Tutti troppo simili per età, tipo di lavoro, numero di figli eccetera. Normalmente, ci si trovano degli amici dove si abita, o dove si lavora. Se si sta in un posto con gente molto simile a sé stessi, si tenderebbe a fare amici, ma in un gruppo omogeneo non c’è nulla da offrire. Che idee si esprimono? Che valori si formano? Cosa dare al proprio vicino? Cosa riceverne?». «Gli abitanti di quei quartieri – si risponde da solo Mendelsohn – non hanno nulla da scambiare l’uno con l’altro. Scambiano qualcosa forse le donne che abitano vicine, ma non ne nascono vere amicizie: la gente troppo simile non ha nulla da comunicarsi, non ha idee diverse da confrontare».

Suburbio e gioventù

«In una vera città – osserva nostalgico Mendelsohn – troveremmo qualche struttura sociale laica o religiosa per il tempo libero, per andare a ballare, far sport, incontrarsi, biblioteche, negozi. In queste lottizzazioni moderne le case sono troppo piccole per le giovani famiglie. Non ci si può divertire in casa, e quando i ragazzi sono adolescenti dove mai andranno a far le loro festicciole, a condurre una normale vita associata? Non lo si può certo fare, in un posto che è composto esclusivamente da case. Questi quartieri distruggono le città e le attività, sono dannosi per i territori che invadono, e fanno impazzire le migliaia di casalinghe che si ritrovano imprigionate là dentro».

«Per un sociologo – prosegue Mendelsohn – una comunità è una entità coesa che risponde a bisogni essenziali e fornisce servizi a chi ci abita. In quei quartieri come abbiamo già detto non esistono le chiese, o ce ne sono pochissime, mancano anche verde e spazi da gioco. Sono solo dormitori alla periferia delle città. Cosa accadrà quando i bambini diventeranno adolescenti, dove andranno,e a far cosa? Certamente andranno a cercare qualcosa da fare fuori dai quartieri. Visto che anche per il cinema bisogna fare chilometri, fino al centro commerciale, l’unica possibilità per i ragazzi di domani sarà quella di prendere la macchina di famiglia. Detto in altre parole: tutto il tempo libero è lontano da casa, nessun rapporto fra l’idea di casa e quella di divertimento, divertimento è qualcosa che succede via, via da qualunque possibilità di controllo dei genitori. Certo non tutto è brutto in quei luoghi, si abita in modo forse più sano rispetto alle case d’affitto popolari di quelle zone industriali urbane intasate di traffico. Oggi i tassi di reati sono insignificanti nei nuovi quartieri, ma non sappiamo però cosa succederà fra dieci anni, quando i bambini cresceranno, senza alcun posto per incontrarsi e giocare, lontano da qualunque supervisione».

Estratto da: The Crack in the Picture Window, Houghton Mifflin Company, 1956 – Traduzione di Fabrizio Bottini

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