Quando si mettono in campo delle politiche urbane, si dovrebbe poterle valutare nella prospettiva complessa che sempre si meritano, ovvero prima di tutto sul versante appunto «politico», che significa sia qualcosa di più del puro enunciato di progetto, sia qualcosa di meno delle immaginifiche «visioni» tanto di moda oggi, ma pronte a evaporare appena sorge l’alba di un nuovo giorno. E in nessun campo come i trasporti, o meglio come diremmo oggi la gestione dei flussi tra spazi e funzioni, diventa essenziale distinguere la pura strumentalità o contingenza di azioni puntuali, da un’idea strategica di lungo periodo in grado di promuovere cambiamenti per il meglio. Che cosa distingue davvero una autentica capacità di leadership in questo ambito, la volontà di migliorare (espressa naturalmente col proprio specifico orientamento politico e con gli strumenti anche conoscitivi effettivamente disponibili) l’efficienza della metropoli, magari anche con una propria giustizia distributiva, dall’accontentare via via questo o quell’interesse? Secondo gli studiosi dei processi decisionali urbani in un sistema più o meno democratico-partecipativo, dove si alternano nel tempo e/o si intrecciano i poteri, questa leadership è quella in grado di individuare in modo chiaro l’invariante: magari non tanto la realizzazione dell’infrastruttura, o della rete di infrastrutture, o la messa in campo di certe tecnologie o mezzi di trasporto che alle infrastrutture esistenti o nuove si correlano, ma il vero obiettivo di massima di favorire i flussi in quanto tali. Obiettivo in grado di reggere poi a sostituzioni di leadership, cambi parziali di dettagli anche importanti, addirittura ribaltamenti di prospettiva al presentarsi di innovazioni tecnologiche e organizzative radicali.
Cavalcare l’onda
Oggi probabilmente ci pare un po’ strano considerare l’automobilismo in questa prospettiva, dato che nella nostra epoca arriva con tutto il suo carico di contraddizioni ambientali, sociali, urbane, ma da molti punti di vista si tratta di una ottima invariante, nel caso specifico tecnologica, che ha garantito una continuità relativa sull’arco di quasi un secolo. Dal punto di vista del metodo, pensiamo a quello che è una specie di filosofico «motore immobile» (per le auto pare pure un gioco di parole) a cui tutto si ancora e si adegua: l’organizzazione dello spazio, sia di grande dimensione che locale, i rapporti tra i luoghi, le funzioni, i soggetti sociali ed economici, una rete infrastrutturale dedicata che finisce per trascinare nella propria logica anche tutto il resto. Anche se prescinde in gran parte dalla logica elettorale e dell’alternanza fra parti al potere a cui pensiamo in termini di leadership urbana, la figura di Robert Moses, zar delle trasformazioni urbane a guida pubblica a New York nel segno dell’automobile per quasi mezzo secolo, riassume molto bene l’idea. Ci sono soprattutto la continuità (anche indipendentemente dal potere perdurante dell’individuo che decide), la capacità di seguire tantissime evoluzioni, e infine muoversi in ambiti assai diversi, dal verde pubblico alle infrastrutture stradali vere e proprie, all’edilizia di vario tipo, mantenendo fissa quella centralità del mezzo di spostamento, in grado di legare tutto.
Oggi
Come ben sappiamo, oggi la questione trasporti urbani (e non solo) si gioca prevalentemente sull’equilibrio fra conservare una certa efficienza economica generale, e contenere il più possibile gli impatti ambientali, i consumi energetici, gli effetti sul cambiamento climatico, la sicurezza e via dicendo. Viste le premesse riportate sopra, dovrebbe apparire abbastanza chiaro come sarebbe quantomeno azzardato pensare di puntare su un singolo «progetto», in senso molto conservatore come nel caso delle auto elettriche e/o del car sharing, o ribaltando le gerarchie e puntando sulla mobilità dolce, o affidandosi al classico costoso trasporto pubblico collettivo, o magari alle forme smaterializzate che sostituiscono a parte dei movimenti fisici quelli di dati e informazioni. Se l’auto è stata in grado di essere in un modo o nell’altro il motore immobile dell’organizzazione urbana novecentesca, è quantomeno dubitabile che la sua discendente a basso impatto, o la bicicletta, o qualche trabiccolo volante futuribile, possano (almeno da soli) svolgere un ruolo analogo. Nell’incertezza, probabilmente destinata a rimanere tale per un bel po’, o per sempre, esprimere capacità di visione o leadership oggi significa soprattutto individuare un metodo di governo tale da garantire la massima continuità, che quasi automaticamente si traduce in trasversalità scientifica-tecnica-organizzativa. Ovvero, nella possibilità di elaborare piani e programmi profondamente inter-settoriali all’interno dell’amministrazione territoriale, piani che una volta individuato un obiettivo ne modulino di volta in volta aspetti vuoi prettamente trasportistici, o edilizio-urbanistici, o di altra programmazione ad esempio tecnologica complementare come quanto oggi definiamo smart city (e che ahimè finisce spesso per operare per conto proprio, o pretendere di collocarsi al vertice). La stessa complessità, accettata e gestita, dovrebbe reggere meglio, sia alle alternanze di potere e indirizzo politico, sia alle assai probabili sempre più forti commistioni fra decisioni classiche di vertice, e varie forme di partecipazione dei cittadini.
Riferimenti:
Diane Davis, Mark Watts, Nicholas You, Sense and the city, Modus, ottobre 2016 (pdf scaricabile cliccando sulla prima pagina in chiaro)