Esiste un ovvio motivo diciamo così «tecnico» per cui le città storiche del passato remoto ci appaiono caratterizzate prevalentemente dai loro spazi, edifici, infrastrutture pubbliche: erano costruite infinitamente meglio di quelle private. Per due concatenate e consequenziali ragioni, pure quelle «tecniche», ovvero che da un lato i mezzi a disposizione non erano certo quelli attuali, in termini di materiali, energia, conoscenze, e dall’altro il concentrarsi così necessariamente sulla shared-city collettiva comportava uno spostamento culturale e sociale nella medesima direzione, c’era una domanda e un immaginario sbilanciato verso quegli aspetti della piazza, del portico, del grande ambiente molto accessibile a tutti, anziché verso l’alloggio e gli altri ambiti pertinenti. Da qui il relativo sconcerto quando qualche articolo sulla stampa, magari scritto dallo «studioso» in vena di usare linguaggio e approccio divulgativo ci parla dell’eccezionalità di Pompei soprattutto perché restituirebbe la «vita quotidiana» degli antichi Romani, contrapposta ideologicamente alla «vita pubblica» della Capitale, dato che della colonia sotto il Vesuvio ci sono rimaste le case, mentre di Roma soprattutto i Fori, le Terme, i Mercati, e Teatri ecc. Una sciocchezza fortemente influenzata dalle culture privatistiche del nostro tempo, e basterebbe dare un’occhiata alla vita quotidiana delle scorse generazioni per intuirlo.
Economia mentale del vicolo
Se è pur vero, che anche nell’epoca di forzatissima prevalenza della città pubblica, in fondo tutti agognavano a qualcuno dei privilegi dei pochi in grado di permettersi la seconda casa nel «sobborgo giardino» di Pompei, è altrettanto vero che la vita quotidiana di tutti si svolgeva in questi ambienti pubblici e collettivi. Basta dare un’occhiata alla letteratura quando descrive ambienti assai vicini a noi, diciamo così della città moderna, per valutare quanto (con l’ovvia eccezione dei segregati dal lavoro o analoghi) esista un quasi pauroso squilibrio fra l’importanza minimale dell’alloggio, e quella soverchiante di tutto il resto. Un romanzo qualunque, letto da questo punto di vista, rappresenta una sequela ininterrotta di parchi, vie, piazze, sagrati, e poi naturalmente portici, passaggi, mercati, ambienti chiusi ma con un andirivieni e scambio continuo tali da confonderli con quelli aperti. Poi c’è il momento del sonno, vuoi pesante come il piombo, vuoi percorsa da incubi o riflessioni, o dal delirio della febbre, e quello certamente, insieme a qualche dialogo intimo, vede comparire il luogo chiuso e domestico. Ma resta, sospesa, l’antica domanda del popolino della suburra per scimmiottare i ricconi almeno un po’ ritagliandosi una caricatura della villona pompeiana, e sappiamo come in fondo è andata a finire, con l’aiuto dello zoning di mercato: ambienti pubblici rosicati e risicati, e sempre più luoghi privatizzati e segregati, per la residenza e le funzioni segmentate (che un tempo erano comuni e pubbliche), o per il commercio, il lavoro, il tempo libero e i servizi. Logica che trionfa nell’anticittà detta suburbio, ma anche negli spazi densi urbani pretende spazio.
La trappola del conformismo è sempre in agguato
Anche nel momento in cui tutto sembrerebbe indicare la strada opposta, quella abbastanza risibile logica dello zoning di mercato, con tutto ciò di ideologico che lo sottende, vorrebbe trionfare, seppellendo il buon senso sotto la pura inerzia della «applicazione della legge». Succede quando al modificarsi della composizione familiare, della disponibilità di risorse o a spenderne (tantissime) in quella direzione, torna a restringersi l’ambito privato, almeno culturalmente parlando, ma senza fare i conti col mitico mercato. Il quale come abbiamo imparato sulla nostra pelle non da ieri, non sa che farsene di cosucce come la domanda e l’offerta, lui punta e pretende lo «sviluppo» o meglio la «crescita» di ciò che dobbiamo comprare e far nostro, mica gli frega nulla se noi vorremmo avere o usare o contemplare qualcos’altro. E intervengono in suo soccorso, va da sé, gli ideologi, i chierici del pensiero corretto, sia nelle forme politiche che tecniche: la legge non prevede che possa esistere una città diversa da quella ideale, dove ideale è quanto fissato dalle norme urbanistiche le quali norme urbanistiche sono fissate, dal mercato, unico arbitro possibile e immaginabile. Così, se io voglio stare come nei romanzi della letteratura classica, in un piccolissimo ambiente buono solo per dormire e al più lavarsi, e magari spendere tutto il resto delle mie risorse in spazi pubblici di condivisione e relazione, bisogna impedirmelo ad ogni costo. Ci sono i «tecnici» per questo, quelli che fissano le norme minime, la normalità oltre la quale esiste la trasgressione punibile, una specie di lampo dal cielo che incenerisce gli eretici: tu avrai la villetta con giardino, ti sposerai e andrai ogni mattina a fare l’impiegato in macchina salutando la moglie sul cancelletto! Non è proprio così, ma mica tanto diversa, la faccenda, se ci riflettiamo un momento. Proviamo a uscirne?
Riferimenti:
Pete Sullivan, Tiny House Movement Pushing the Boundaries of Traditional Zoning, Planetizen, 11 luglio 2015