Frederic J. Osborn: Sensibilità pubblica e New Town (1963)

«La teoria urbanistica ritiene che non possa mai essere troppo presto per iniziare a programmare, ma l’esperienza insegna come non ci sarà alcun deciso sostegno pubblico a questo, né si farà comunque a sufficienza ed efficacemente, al di sotto di una certa soglia di verificati problemi locali. In altri termini, la situazione deve peggiorare sino al punto in cui qualcuno si sveglierà provando a migliorarla» (Dennis O’Harrow, 1961)

Hatfield

In quanto veicolo principale di civilizzazione, le città hanno regalato all’uomo doni di incalcolabile valore, ma al prezzo di terribili privazioni. Nessun filosofo contabile riuscirebbe a compilarci una tabella millenaria sul bilancio di quell’immenso patrimonio etico e materiale. Ma la prevalenza dei problemi sulle soluzioni, del male sul bene, è tanto sbilanciata da far ritenere che in particolare per quanto riguarda le città più grandi, e la necessità di programmarne dimensioni e organizzazione, qualunque consapevolezza si sia comunque affermata troppo tardi. Anche nella letteratura politica di quel riconoscimento non c’è traccia sino ad anni molto recenti. Neppure le indicazioni di un Platone o di un Aristotele, sull’auspicabilità di alcune contenute dimensioni per la città, o le denunce di poeti, romanzieri, intellettuali, o quei progetti di insediamenti coloniali e centri di piccola scala, neppure l’Utopia di More, sembrano aver mai allargato il campo della necessità di qualche volontario limite alle dimensioni urbane dall’ambito strettamente locale a quello politico generale. Per quanto ne sappiamo, il primissimo cenno dell’accademia sul tema ci arriva quando il professor Alfred Marshall tiene la sua relazione alla Commissione Reale sulle Tasse Imperiali e Locali (nel 1899, l’anno successivo alla pubblicazione del libro di Ebenezer Howard):

«Il governo centrale dovrebbe far sì che città e zone industriali non continuino a crescere senza una migliore e ampia dotazione di aria pulita e spazi aperti in grado di conservare il vigore del popolo e il suo ruolo tra le nazioni […] Non dobbiamo soltanto allargare le strade e creare nuovi spazi per il tempo libero nelle città. Dobbiamo anche prevenire la fusione di un centro abitato dentro un altro, di un villaggio dentro la cittadina; occorre mantenere fasce di interposizione agricola a campi o pascoli, oltre che parchi per lo svago pubblico».

Naturalmente esistevano già da lungo tempo regolamenti municipali su alcuni aspetti della crescita urbana. In tutte le città, progettate o meno che fossero, dovevano esistere norme sulla larghezza delle vie e strade a contrastare tutti i tentativi delle proprietà confinanti di sovrapporsi l’una all’altra coi propri edifici o parti sporgenti di essi, come le esposizioni di merci dei negozi (una battaglia che prosegue sino ai nostri tempi: basta guardare i tavoli dei ristoranti sui marciapiedi di Parigi, o quel seducente campionario di merci in vendita che tanti espongono fuori dalle vetrine, per non parlare di tutte le bancarelle e chioschi di commercio. Occorre imporre regole edilizie, come già detto, per ridurre incendi e malattie, contenere altezze e occupazione di suolo, impedire che si blocchi la luce solare. Si tratta di forme primitive di contrasto alla densità. Tutte norme che però non hanno contenuto la crescita. Né hanno costituito nell’insieme un tentativo di far sì che una città fosse o rimanesse uno strumento utilizzabile agli obiettivi di una crescita civile. Ruolo essenziale demandato però agli interventi complementari e spesso discontinui di forze distinte e auto-referenziali. Anche se da un certo punto di vista queste spinte riuscivano a produrre risultati, non ideali ma migliorabili.

Per la maggior parte le decisioni di localizzazione e funzione dei nuovi edifici restavano ai singoli proprietari o operatori, e le norme e vincoli tanto inadeguati da rendere necessario di quando in quando un bilancio delle difficoltà più acutamente percepite. Per le epoche in cui avvenivano si trattava in effetti di idee di intervento pubblico progressiste e audaci. Se con le conoscenze di oggi in materia urbana possono apparire arbitrarie e goffe, al massimo correttive di sintomi senza capirne le cause, in realtà non abbiamo ancora il diritto di ritenerci tanto superiori (basta pensare a tutti i palliativi che utilizziamo per il problema del traffico senza far nulla su cosa lo genera). Occorre capire gli errori visto che continuano sino ai nostri tempi. Opporsi all’interferenza pubblica caratterizza qualunque società di libero mercato; in termini di principio si tratta di una tendenza sana perché si basa quasi totalmente sull’iniziativa individuale o di interessi particolari, sulle iniziative, i rischi, le responsabilità, caratteristiche di una cultura produttiva e commerciale.

Una cosa che risale molto in là nel tempo, ma possiamo comunque farcene un’idea a partire da ciò che accade in Gran Bretagna dalla Rivoluzione Industriale. Alla ricerca di profitto per sé – e consapevolmente o meno come prodotto collaterale per la società tutta – innovatori e imprenditori investono tempo e denaro nello sviluppo di nuove apparecchiature meccaniche e sistemi organizzativi per la produzione. Nel localizzare le fabbriche e altri impianti dovevano tener conto di molti aspetti tecnici, com la disponibilità di acqua o combustibili, materie prime, lavoro, facilità o meno di distribuzione ai mercati. Dovevano rapportarsi con la proprietà terriera ma per il resto potevano insediarsi là dove credevano più conveniente per la propria attività. Un lavoro già piuttosto difficile che non lasciavo molto spazio alla possibilità e men che meno all’obbligo di considerare gli effetti di quell’attività sulle popolazioni locali, o le città o zone rurali, e neppure gli interessi di altre imprese e attività (aspetto decisamente importante questo). Raramente la pubblica amministrazione interferiva in questo, né contribuiva a facilitare salvo in qualche aspetto minore.

Un principio di progresso

Qualunque cosa possiamo crede o immaginare oggi sul ruolo possibile della pubblica amministrazione come promotrice o sostenitrice delle attività economiche o del progresso culturale, di fatto storicamente i grandi avanzamenti scientifici o industriali traggono la propria origine in società piuttosto individualiste. Karl Marx ne era ben consapevole, così come Adam Smith, nonostante il suo credo quasi religioso nel Fato Storico (insieme alla disapprovazione morale di ciò che esso manovrava), fosse condotto a previsioni diverse da quelle degli economisti classici che pure ne condividevano il concetto di Mano Invisibile. Non dobbiamo aver fede in nessuna di queste entità divine per comprendere perché i governi di società individualiste siano stati così lenti a decidere di interferire in processi che, nonostante le tangibili spaventose conseguenze, di fatto accrescevano ricchezza e potere.

Con vantaggi altrettanto spaventosamente mal distribuiti, sia dal punto di vista della vita urbana che del reddito, della libertà personale, sicurezza, qualità del lavoro e sociale. Ma nel pieno impulso della Rivoluzione Industriale chi apparteneva alle classi dominanti, e anche molti tra quelli che erano discriminati, credevano comunque entusiasticamente nel «progresso»; il giovane studente di Macaulay è assolutamente travolto dalla fiducia nelle innovazioni scientifiche e industriali ottocentesche tanto quanto oggi un suo equivalente lo è nelle possibilità (o impossibilità) dei viaggi spaziali o della fisica atomica. Le inerzie pubbliche nel gestire questo tipo di innovazioni prodotti collaterali dell’industrialismo, che comprendevano anche il lavoro minorile, salari da fame, elevata mortalità urbana, sovraffollamento e tuguri, non dipendevano esclusivamente dalla mancanza di consapevolezza. Qualunque politico o statista, buoni o cattivi che fossero, era assai cauto per quanto riguardava le fonte stesse del progresso.

Rimorso sociale e segregazione di classe

Per la pubblica amministrazione del passato, queste sono le ragioni, non certo le giustificazioni, nel lungo ritardo delle riforme specie per quanto riguarda tutta l’enorme questione della crescita e struttura urbana. Uno dei motivi di tutto ciò è che per buona parte del XIX secolo la base elettorale era costituita dai soli beneficiari della crescita do produzione e ricchezza. Però nonostante gli uomini siano assai spinti dall’interesse personale, con un individualismo che talvolta viene nobilitato in etica e codice di comportamento, pochissimi sono davvero malevoli. Ciò che per lungo tempo ha impedito uno scuotersi della coscienza, e in parte lo fa ancora oggi, è la segregazione spaziale per fasce di reddito, specie nelle grandi città. Si può condurre un’esistenza ricca e gradevole in una città, sviluppando una certa filosofia compiacente, e rimanere del tutto inconsapevoli delle miserie di grandi masse di persone che non stanno molto lontano da noi.

East Killbride

Una cosa possibile non solo al «capitalista» incallito. Ci è accaduto di conoscere un anziano alto funzionario pubblico abitante a Richmond che ogni giorno si recava a Whitehall, convinto che Londra fosse una città superbamente bella, e morto senza mai essere turbato dal sospetto delle vere condizioni di vita a Soho, nello East End, o a Bermondsey. Probabilmente anche al giorno d’oggi un solo difetto della città, non così grave ai suoi tempi, disturberebbe quell’anziano funzionario: la folla sulla metropolitana da Richmond nell’ora di punta. Non era affatto una persona insensibile, ma non lo si poteva certo indurre a qualche indignazione per problemi che non si trovava sempre davanti. Del resto siamo così anche noi. E la cosa ha in certo effetto sugli atteggiamenti e le azioni di qualunque governo democratico in ogni campo, compresi i temi che stiamo discutendo.

Amministrazione pubblica e pubblica opinione

Solo molto recentemente la riqualificazione delle città e la fondazioni di nuovi centri urbani sono diventati temi di discussione e opinione. E siamo comunque ancora molto lontani da una chiarezza di argomenti, consenso sulle cose da fare, o urgenza o meno degli interventi, su questi cronici o emergenti problemi. I governi democratici raramente aprono un nuovo fronte di decisioni a meno di dover intervenire in questioni assai gravi o lacune fortemente percepite da certe influenti fasce della società. Quelle che poi determinano le decisioni possono essere anche diversissime in consistenza, potere economico o sociale. E motivate da propri interessi, o da ideali estetici, religiosi, etici, o da concezioni che iniziano a diffondersi contagiosamente, oppure ancora dalla pura simpatia umana per propri simili svantaggiati da come vanno alcune cose.

Nelle argomentazioni che precedono l’azione pubblica e la definiscono, tutte queste spinte si mescolano, ciascuna con la propria validità e peso. Partiti politici, gruppi di interesse e pressione, associazioni volontarie e solidali, agiscono per spingere l’opinione pubblica ad una pressione sui governi; dentro tali organizzazioni esistono persone intensamente convinte e motivate le cui preoccupazioni si rivolgono agli uni e agli altri. È abbastanza inutile polemizzare qui sul modi dell’interazione politica. In qualunque società, democratica o autoritaria, esistono processi particolari di formazione delle opinioni e decisione, anche se possono variare le quantità e i modi della partecipazione. Se crediamo che il progresso sia consapevolezza, se crediamo che alcune cose contino più di altre, dobbiamo comprendere i processi politici. E tenere sempre in mente il tipo di cose che dovrebbe fare la società, e perché farle.

Obiettivi delle politiche pubbliche

Questa dissertazione si schiera certamente rispetto ad alcune questioni di sviluppo urbano e strategie urbanistiche, e forse val la pena ribadire l’idea di chi scrive sui loro fondamenti sociali, anche senza pretendere precisione terminologica, e la consapevolezza che secondo molti pare ingenuo ripetere ciò che apparirebbe ovvio. Lo si fa perché l’esperienza insegna quanto la maggior parte delle persone benpensanti accettino qualcosa solo quando esposto in modi accettabili da loro, mentre altri ignorano le medesime argomentazioni se declinate in termini sociali e rivolte a questioni che li riguardano direttamente. La nostra premessa è che scopo di qualsiasi legittima politica sociale sia di promuovere una maggiore felicità, e ridurre invece ogni disagio. Una migliore salute collettiva, oggi così accettata come obiettivo da apparire come un fine a sé, in realtà è solo un mezzo per raggiungere quello scopo. E la stessa cosa può valere per un miglioramento del tenore di vita, del reddito, della qualità dell’abitare, delle condizioni di lavoro.

Vale per l’incremento di produttività ed efficienza nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio e amministrazione; anche se ci possono essere sottrazioni di felicità in tutta questa complessiva crescita, per esempio un peggioramento delle condizioni di lavoro o meno prezioso tempo libero. Lo stesso vale per il miglioramento dell’aspetto, anche precisando che si tratta del miglioramento percepito da molti, o da molti che badano a questi aspetti, non certo dei gusti di pochissimi raffinati. È quest’ultimo concetto, del vantaggio o soddisfazione dei molti, ad essere centrale, anche se forse risulta difficile da esprimere. Ci sono stati parecchi tentativi: «Vita, Libertà, e il perseguimento della Felicità»; o «Il Bene del Numero Maggiore (o di Tutti)»; o ancora «L’Ottimo del Benessere Umano»; e infine «Una Vita Più Ricca», solo per ricordare le migliori per quanto imperfette approssimazioni. Non ne aggiungeremo un’altra nostra. L’idea di massima condivisa appare sufficientemente chiara, e importantissime nell’ambito dell’urbanistica. Se la teniamo ben presente può servire a correggere tanti sbandamenti della discussione su cosa debba assere una politica di sviluppo urbano.

L’influenza del riformismo e dei gruppi di pressione

Non trascuriamo la complicazione indotta dal fatto che gli esseri umani sono diversi: non solo nelle preferenze ma ancor più nella consapevolezza di cercare di soddisfarle. I riformatori, come fanno anche i venditori o i pubblicitari, talvolta devono educare i propri potenziali seguaci sul merito di certi prodotti nuovi o poco noti, che ritengono il cliente sarà lieto di aspettarsi una volta conosciuti e compresi. Spesso la messa a disposizione sul mercato deve essere preceduta da qualche esperimento, o dalla distribuzione di campioni. Ci si può concentrare poi sull’accettabilità da parte di una individuata parte della clientela. Chi sostiene il progresso sociale attraverso una azione pubblica ha una maggiore responsabilità: deve anche essere sinceramente convinto di quanto propone, e che una volta accettato induca effettivamente una soddisfazione generale.

Il suo obiettivo è diverso da quello del produttore o del venditore, perché deve operare non attraverso pubblicità e distribuzione, ma dentro i processi intricati e complessi della politica che conosciamo. Un regime di tipo democratico (ovvero in cui i cittadini maggiorenni possono eleggersi i rappresentanti nelle varie istituzioni ed enti), sembrerebbe da questo punto di vista, ed è, più propenso ad agire verso la soddisfazione della maggioranza, di quanto non siano altri tipi di tirannide, sistema feudale, o religioso-dogmatico, per quanto benevolmente orientati. Ma nel lavoro collettivo di una grande società che comprende i desideri di milioni di persone, che devono essere trasmessi all’autorità attraverso strati gerarchici di funzionari, non può certo funzionare il sistema domanda-offerta o produttore-consumatore così come esiste nell’acquisto-vendita dei comuni prodotti. Quanto sia accettabile l’offerta derivante dall’attività della della pubblica amministrazione, non può essere valutato così facilmente, a seconda di come funzionano i grafici commerciali o quelli dei guadagni. I governi di vaste popolazioni nazionali, che gestiscono una moltitudine di questioni, sono in condizioni assai meno favorevoli di poter valutare ciò che più conviene, come succede nel mercato, ma valutare le proprie azioni comunque devono.

Un caso estremo di concorrenza imperfetta

Basildon

Ciò che manca nel processo storico della crescita urbana è l’influenza diretta del consumo di massa sul prodotto inteso come insieme. Esiste naturalmente una concorrenza tra le varie città per attirare popolazione. Ma ciò che si offre non è certo comodità, convenienza economica generale, ambiente umano accogliente. In una città esiste concorrenza tra abitazioni più o meno auspicabili, o fra zone che il mercato offre più verdi spaziose o altro. Ci sono centri turistici che si fanno concorrenza per attirare visitatori vantando le proprie qualità ambientali. Ma il tipo di risorsa che cerca una città industriale desiderosa di svilupparsi sono spazi per le fabbriche, un bacino di manodopera, strutture di trasporto e portuali, energia a buon mercato e via dicendo.

Cose come la bellezza del paesaggio o l’offerta culturale certamente si possono usare come argomenti, non determinanti, a migliorare l’immagine. Ma nella concorrenza territoriale non pesano molto. L’esperienza insegna all’imprenditore che dove c’è un posto di lavoro di solito poi arriverà il lavoratore. E le masse di lavoratori in genere confermano accettando di sistemarsi come meglio riescono. Magari i dirigenti con più soldi troveranno una casa migliore non troppo lontana dal lavoro in una periferia dove qualcuno ha già pensato di realizzare una offerta concorrenziale di abitazioni.

Razionalizzare il sovraffollamento

In una grande città verso cui le persone vengono attratte dalle occasioni di lavoro, le preferenze del consumatore non influenzano più di tanto l’offerta residenziale. Anche quando l’amministrazione locale è stimolata dai rischi alla salute pubblica, o da quelli della responsabilità sociale, ad eliminare il tugurio e offrire abitazioni migliori, le scelte dei cittadini sono così forzate dalle particolari condizioni locali da non determinare un ambiente migliore. Il che si traduce anche nelle imperfezioni dello stesso intervento pubblico sulle urgenze, ma non spinto da una consapevolezza collettiva, né da quella di saggi tecnici o politici dotati di coscienza sociale. Sinora nella produzione di abitazioni migliori la pura concorrenza commerciale è stata solo parzialmente corretta dall’intervento pubblico rivolto a bisogni e aspirazioni collettive. Questo intervento pubblico sarebbe un grande passo in avanti, una promessa per il futuro, ma si deve ancora progredire molto quanto a sensibilità e capacità per diventare adeguati alle necessità sociali ed economiche.

Si conta troppo sulla situazione davvero infelice delle masse urbane quando si offrono sistemazioni certamente più salubri ma davvero lontane da quanto sarebbe consentito dalle tecniche e conoscenze attuali. E così si vede assai più facilmente la tendenza ad offrire soluzioni mediocri o a malapena accettabili, guardando la ricostruzione delle più grandi città europee, da Parigi a Berlino a Roma o Mosca o Lione, dove famiglie che hanno vissuto per generazioni nelle vecchie case borghesi frazionate o nelle case d’affitto o baracche del proletariato, adesso si spostano in edifici di quattro o cinque piani con stanze ancora piccole, ma isolati organizzati in modo da ricevere più luce, o cucine moderne, bagni, docce, e un po’ di verde e prati. In confronto pare di stare nel lusso. Ma ciò che accade in realtà è che si tratta di persone abituate da secoli a condizioni deplorevoli di sovraffollamento, degrado, squallore, e oggi quel sovraffollamento venga semplicemente razionalizzato, modernizzato, ripulendo un po’ lo squallore. Anche nelle città britanniche vediamo sostanzialmente la stessa cosa accadere ai meno privilegiati. Mentre le classi più agiate e in grado di fare sentire maggiormente alla politica la propria voce abitano da tempo nei sobborghi in casette con giardino.

Considerato localmente e comparativamente questo cambio dal tugurio degradato a edifici nuovi a molti piani è senza dubbio un miglioramento. E spesso si tratta del meglio che una amministrazione locale possa fare coi propri mezzi. Anche le vittime di tale cambiamento lo ritengono per il meglio almeno oggi. Ma non basta, e in un’epoca di sviluppo economico pare anche miope. Uomini di stato ed economisti prevedono un raddoppio dello standard comune negli stili di vita e consumi in Gran Bretagna entro i prossimi venticinque anni. Anche realizzata solo parzialmente questa evoluzione inciderà molto sulle domande delle famiglie per una abitazione più adeguata, di qualità e convenienza del tipo che oggi è accessibile solo alle fasce di reddito più alte. E tanti di quei caseggiati in affitto sviluppati in altezza che si realizzano oggi nelle città grazie a quei singolari sussidi potrebbero non essere più accettabili, ben prima di essere completamente pagati.

Adattabilità della specie umana

È una vera sfortuna per l’umanità, il fatto che i mali e i disagi causati dalla crescita delle città non vengano avvertiti in tutti i loro effetti: la situazione moderna non consente il manifestarsi di alcune crisi che obbligherebbero ad una immediata azione pubblica. Si evidenziò un drastico limite alla crescita della città-stato classica greca quando si esaurivano le sue possibilità di produzione alimentare entro i confini, oltre cui iniziava il territorio di altre città armate verso cui non poteva espandersi. E così iniziò il processo della colonizzazione a distanza, di necessaria iniziativa pubblica. La moderna Los Angeles non è arrivata a questo punto critico, essendo una città dell’era automobilistica, dove l’abitare al livello terra generalizzato (in sé accettabile da tutti) ha prodotto espansioni continue di edifici per ottanta chilometri e ridotto due terzi del nucleo centrale a strade, viadotti, sottopassaggi e parcheggi. L’Uomo di Los Angeles si è adattato a vivere la propria esistenza in una colonna senza fine di automobili: e perché mai se non si è fermata a ottanta chilometri quella città dovrebbe arrestarsi a cento o centocinquanta?

Non esiste alcun criterio decisivo, salvo l’assenza di un senso comune a riguardo. A Hong Kong dove sono in pochi a potersi permettere un’automobile la città è cresciuta con una edilizia abnormemente densa; l’abitante di Hong Kong si è obbedientemente adeguato a vivere insieme a oltre 3.500 suoi concittadini l’ettaro dentro a fabbricati in affitto di oltre quattro piani. E non è affatto finita perché i competentissimi tecnici della città sono conviti che lui e la sua famiglia potrebbero anche abitare «comodamente ed economicamente» in fabbricati di oltre trenta piani e densità da cinquemila abitanti ettaro. Si dice «l’unico limite è il cielo» ma in realtà anche quello è come l’espansione urbana per la tolleranza umana, nulla pare impossibile e nessuna amministrazione pare ritenere di dover intervenire. E si spiega così anche la rinuncia secolare a provarci. Ma è inevitabile che quella crescita prima o poi induca disagi, degrado, scarsa qualità. Ma non si coglie perlomeno fin quando la società inizia ad accorgersi di aver superato un limite. Tragico che la storia urbana ci dica così.

da: Frederic J. Osborn, Arnold Whittick, The New Towns – The Answer to Megalopolis, with an introduction by Lewis Mumford, Leonard Hill, Londra 1963; Titolo originale del Cap. V: Town Growth and Governmental Intervention – Estratto e traduzione di Fabrizio Bottini

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