Vivere pienamente la città e usare al meglio le sue qualità abitative di servizio, culturali, economiche, democratiche, vede intrecciarsi almeno tre grandi categorie e problemi. Il primo ambito è quello che comprende anche la piccola fettina chiamata dagli architetti «la città» tout court, ma che di fatto possiamo più coerentemente definire habitat urbano. Composto per una parte dalle trasformazioni a vario grado tecnologico, edilizio, infrastrutturale, spazio pubblico, e per un altro da elementi di natura variamente addomesticata o adattata, il tutto con l’obiettivo di fornire la migliore qualità della vita auspicabile. C’è un secondo aspetto che possiamo riassumere nei termini urbanità o cittadinanza, che coi suoi legami al luogo e qualità inerenti (vale sempre il senso del proverbio medievale tedesco «stadtsluft macht frei», l’aria della città rende liberi) significa partecipazione alla vita sociale, attività, relazioni, consumi e molto di più. Esiste infine il grande e articolato ambito della resilienza, ambientale, infrastrutturale, socioeconomica, che è l’intrinseca capacità di resistere e recuperare efficienza, magari addirittura migliorando le proprie qualità, anche dopo eventi catastrofici che hanno devastato tutti gli equilibri preesistenti.
Il cambiamento climatico del XXI secolo
Fra i tanti effetti del riscaldamento planetario in corso, pur variamente catastrofici, spesso passa in secondo piano quello meccanicamente più «banale» legato allo scioglimento delle calotte polari, e relativo sollevamento dei livelli degli oceani. Le previsioni degli scienziati variano su diversi scenari, tutte confermando però la tendenza e specificando come il processo si stia man mano accelerando. Vediamo in linea di massima queste variazioni, per intenderci sul senso di «catastrofe urbana» indotta, e il rapporto con un approccio di resilienza complessa territoriale e sociale. Secondo alcune ricerche il livello del mare in seguito allo scioglimento dei ghiacci dovrebbe crescere fra uno o due metri entro il 2100. Uno o due metri sono tantissimo, se pensiamo all’organizzazione delle nostre coste fittamente antropizzate, infrastrutturate, e all’infinita serie di intrecci negli entroterra che da esse dipendono, ma non è finita. Non è finita, perché altri studi considerando la possibilità di uno scioglimento totale causa riscaldamento planetario dei ghiacci della Groenlandia, collocano l’innalzamento a un livello di 7 metri: spaventoso, tale da mettere sotto una regione urbana come quella di Londra, per capirci, e a livello mondiale interessare direttamente centinaia e centinaia di milioni di cittadini costieri.
Prospettive e metodi
Di fronte alle prospettive di solo sconvolgimento da innalzarsi dei livelli dei mari, la reazione delle città e regioni urbane costiere dovrebbe poggiarsi almeno su una interpretazione ampia e interdisciplinare dei tre ambiti nominati sopra, come segue.
Habitat urbano
L’habitat urbano è definito dall’intreccio di tre tipi di ambienti: quello naturale, quello edificato/trasformato, quello delle relazioni sociali. All’ambiente naturale appartengono gli aspetti del clima locale, la qualità dell’aria, il sistema orografico; all’artificializzazione che architetti e ingegneri troppo sbrigativamente considerano «la città» tout court, afferiscono l’organizzazione urbanistica, edilizia, gli spazi pubblici e i servizi, i flussi di mobilità e infrastrutture relative, il mosaico del verde a rete; l’ambiente sociale comprende gli individui e le loro varie organizzazioni, articolazioni per gruppi, le economie e convenzioni (il godimento delle strutture fisiche ad esempio). Questo habitat urbano per il futuro è auspicabile idealmente come sintesi equilibrata e in costante evoluzione di ciò che crea identità, ottimizza lo sfruttamento di risorse, esercita il minimo degli impatti.
Urbanità e cittadinanza
Nella moderna società complessa, il cittadino in teoria potrebbe anche vivere e consumare secondo criteri del tutto personali senza badare affatto (così in fondo ci dicono la pubblicità e un’offerta sempre più orientata) agli aspetti collettivi e pubblici del suo stile di vita. Da un altro punto di vista esistono però impliciti obblighi per un cittadino, a contribuire al benessere collettivo, rinunciando in tutto o in parte all’individualismo nei consumi e comportamenti, là dove evidentemente si incrociano con altri diritti individuali o pubblici. A questo si integra e affianca la più diretta disponibilità e impegno a partecipare in vari modi a decisioni, discussioni, trasformazioni (di cui magari anche i comportamenti di consumo fanno parte). Così avviene la sintesi fra la dimensione singola e quella collettiva.
Cos’è «resilienza»
Resilienza significa la possibilità di un sistema di reagire in qualche modo a choc e aggressioni evitando di collassare definitivamente. Molte delle reti su cui si basa la nostra società urbana contemporanea per le sue varie forme di interazione e convivenza sono esposte a tali rischi di choc e aggressione, per catastrofi naturali o eventi umani o limiti interni (sovraccarichi, effetto domino). Per questo motivo spesso occorre ripensare il sistema proprio in termini di capacità di resilienza, e per l’ambiente urbano ciò potrebbe significare ad esempio un recupero dell’autosufficienza alimentare attraverso agricoltura, tradizionale o high tech che dir si voglia, una corrispondente autonomia da punto di vista idrico per tutti i vari usi, incluso quello agricolo, produzione di energia ad alimentare trasporti e servizi, capacità di autorigenerare i propri tessuti e rinnovarli. Una autentica resilienza non si limita a garantire di sopravvivere aspettando che arrivino sostegni dall’esterno, ma consente davvero di riavviare un processo di sviluppo ed evoluzione.
Progetti
Tutto ciò premesso, e nel quadro dell’inevitabile trauma e drastico cambiamento indotto dal riscaldamento e innalzamento del livello degli oceani, dovrebbe apparire chiaro come anche quei grossi progetti ingegneristici e ambientali di cui ogni tanto si occupa la stampa abbiano poco senso in sé, se non si inseriscono entro un sistema integrato e complesso del tipo delineato, ovvero: considerano la città e il territorio nei loro aspetti intrecciati di habitat, e non solo in una sua singola componente, infrastrutturale o no; considerano la cittadinanza, i diritti, le aspettative e stili di vita (oltre che le economie connesse) come elemento con cui confrontarsi, anziché fastidio da aggirare; leggono la resilienza come ripresa di tutto l’organismo, e non di alcune componenti soltanto. Il rapporto allegato prova a ipotizzare da questo punto di vista alcune idee, di intervento sulle reti ambientali costiere o sui servizi urbani, per l’area di Red Hook a Brooklyn, dove per inciso è ambientato il famoso Fronte del Porto con Marlon Brando, colpita gravemente dall’uragano Sandy, che ha per certi versi anticipato un assaggio di ciò che potrebbe comportare un pur piccolo innalzamento del livello del mare. Certo i singoli progetti appaiono specifici per quell’area e le sue questioni (anche se forse la rete ambientale naturalistica di protezione dalle maree, in sé, molto meno), ma non lo è il metodo, estendibile a qualunque altra città del mondo.
Riferimenti:
Co-creating solutions for urban neighborhoods in coastal cities, BASF Corporation, 2016 (prima di poter scaricare il pdf vi viene chiesto di compilare gratuitamente un brevissimo modulo)