Il diritto all’autodifesa, o sedicente tale, è cosa di cui si discute più o meno da sempre. E se ne discute per via del meccanismo che proverò brevissimamente a descrivere di seguito. Sto camminando per la strada e da lontano vedo un tipo sospetto, anche se non fa nulla di particolare mi pare ovvio che sia sospetto, ne ha tutte le caratteristiche. Man mano si avvicina uno sguardo più particolareggiato mi convince ancora di più delle sue chiarissime intenzioni, anche se il perfido subdolo sospetto in realtà non fa nulla per tradirle, consolidandomi se possibile nella mia convinzione. E così quando mi sta passando giusto accanto, fingendo sempre più subdolamente di guardare altrove e avviarsi verso l’affaccio di una casa, gli do decisamente il fatto suo con una botta secca di ombrello sulla testa, così impara! Salvo poi essere coperto di improperi da una tizia che si è affacciata al balcone, che strilla aiuto vogliono ammazzare mio marito chiamate la polizia … Fermiamoci qui col raccontino inventato, visto che il quadro generale è ampiamente chiaro: il diritto all’autodifesa in realtà non viene esercitato sulla base di una aggressione, e neppure di qualche vago presupposto di aggressione, ma semplicemente sulla base di vaghe soggettive supposizioni (l’aspetto fisico, l’ora tarda nel quartiere ignoto, qualche capo di abbigliamento …), e si tratta di una difesa molto aggressiva e decisa. Immotivata, illegittima, stupida, controproducente.
Il diritto all’autodifesa del quartiere
Difficile, anzi impossibile in buona fede, classificare come nimby le varie battaglie sociali per il diritto alla città. Perché ovviamente non si tratta di difendere qualche orticello di relativo privilegio, o un generico status quo di vaghi equilibri, ma di rivendicare le basi a volte minime della vitalità, o sopravvivenza stessa, di un’area della città, il diritto alla casa in senso lato, alla fruizione dello spazio pubblico, dei servizi, la libera circolazione degli individui, insomma tutto quanto ricade in un modo o nell’altro nella convivenza. Si può anche dire, con un piccolo giochetto cortocircuito di parole, che l’autodifesa di un quartiere sviluppa conflitti allo scopo precipuo di lasciar spazio ad altri conflitti ancora, contro l’appiattimento omogeneizzante e azzerante di solito connotato dalla parola gentrification. Ma resta aperta una questione, anzi più di una: cosa diavolo è questa gentrification, e quando e come manifestare azioni dirette di autodifesa. In pratica, cambiando contesto e soggetti, siamo tornati al raccontino iniziale: c’è qualcosa di sospetto che si avvicina, che fare? Ma la differenza, decisamente a «nostro» favore, nel caso del quartiere da salvare sarebbe nel fattore tempo: ovvero che ce n’è in genere a sufficienza per cogliere sintomi, valutarli, confrontarli, eventualmente studiarli e compararli con l’aiuto di esperti amici, e poi decidere il che farsi. E la prima, essenziale domanda discriminante è: si tratta di gentrification oppure no? Perché è lì che la rivendicazione di un diritto può tragicamente trasformarsi in nimbismo o ribellismo vagamente infantile e poco produttivo.
La trasformazione è un grimaldello per altro?
Gli abitanti di un quartiere che insorgono contro la gentrification, detto in altre parole, sono fisiologicamente costretti a farlo sulla base di sintomi, previsioni, o addirittura supposizioni, esattamente come il passante sospettoso dell’esempio. Ma si dovrebbe badare a distinguere, tra la rivendicazione dell’integrità sociale, che è la vittima dell’appiattimento indotto dalla brutale sostituzione, e dei puri vaghi sintomi, semplicemente perché «si dice» ne siano il preludio. Purtroppo molta stampa di poca informazione da parecchio tempo sta a dir poco confondendo le acque, e certa «scienza» ahimè invece di chiarire rende ancora più intricato (spesso non del tutto in buona fede) individuarla, la gentrification autentica, buttando nel calderone variabili che di per sé non significano nulla, esattamente come il vestito «da cattivo» del tizio sospetto che cammina nella nostra direzione a tarda notte sul marciapiede di una zona sconosciuta. Tempo fa una rivista di costume aveva raccontato della forte perplessità con cui gli abitanti di certi quartieri notavano la trasformazione dei negozi, e addirittura la riorganizzazione dell’offerta alimentare. Fin qui notare un sintomo, ok, ma trarre solo da lì la conclusione di un avanzato o comunque ineluttabile processo di sostituzione sociale pare azzardato. Non si può sviluppare un conflitto rivendicando il «diritto al quartiere» sulla base della sparizione progressiva di un piatto popolare, nei locali sostituito da portate nuove. E invece è più o meno quello che hanno fatto nel caso descritto brevemente nel link: individuato un vago segnale in un ristorante appena aperto e considerato alieno, si è passati subito all’azione, abbastanza violenta se non altro sulle cose, non ancora sulle persone. Facendo la figura dei deficienti e probabilmente facendo perdere la faccia a qualunque futura rivendicazione più seria. Un bel risultato davvero.
Riferimenti:
Jazz Shaw, “Anti-Gentrification” Or Plain Old Vandalism?, Hot Air, 2 novembre 2017
Su un tema analogo in questo stesso sito si veda anche Jack B. Gatherer, Non è gentrification, scemo: ho solo cambiato dieta!