Quanti danni si fanno, semplificando le cose oltre il lecito al solo scopo di raccattare seguito e consensi! In campo ambientale, specie con le innovazioni e trasformazioni urbane, si tratta di qualcosa che accade di continuo, dividendo in modo del tutto insensato il mondo tra «buoni» che sono tali giusto perché hanno adottato l’ultima moda, e presunti «cattivi» che ci stanno ancora pensando su, non troppo convinti che si tratti della bacchetta magica per salvare il genere umano e il pianeta. Succede con le biciclette, i veicoli elettrici, le pratiche di condivisione, le forme di smaterializzazione dei servici e riorganizzazione del commercio, la produzione edilizia e di energia domestica, ultimamente moltissimo anche con quella pratica sociale appiattente denominata gentrification. La quale in sé e per sé sarebbe abbastanza semplicemente e univocamente definibile come perniciosa (classificando quindi certamente i suoi oppositori qualsivoglia come «buoni»), se non fosse per un particolare niente affatto secondario: cos’è, esattamente, la gentrification? Insomma, difficile combattere una malattia se non se ne conoscono neppure i sintomi essenziali, confusi da una comunicazione faziosa e ignorante, che mescola fini, mezzi, soggetti, sino a non far capire più nulla. Se per esempio io estraggo un fazzoletto, quello è il chiaro segnale di raffreddore o influenza? Di per sé ovviamente no: ma per gli appassionati di semplificazione, segnali del genere possono invece qualificare gentrification, anzi addirittura sono, la gentrification.
Impara l’arte e mettila da parte
Si ritiene ad esempio, anche da parte di certi approcci diciamo così scientifici, che la riconversione di spazi non residenziali verso certe forme di attività costituisca già di per sé sostituzione sociale, degrado, appiattimento: è vero? Specificamente: «L’arte, gli artisti e le attività artistiche, sono spesso citati come fattori che contribuiscono alla gentrificazione di quartieri urbani centrali e all’espulsione degli abitanti a basso reddito». Ecco un modo schematico di scambiare potenzialmente il generico e secondario sintomo, con la malattia vera e propria, perché se è vero che il comparire di attività artistiche commerciali di un certo tipo (quelle raccomandate da certi interpreti superficiali della classe creativa come fattore di sviluppo locale) effettivamente può indicare un processo anche avanzato di sostituzione sociale ed espulsione, esiste anche l’esatto contrario. Ovvero il subentrare, per nulla traumatico ma anzi benefico, di attività variamente creative, compresa l’arte o artigianato di elevato profilo, là dove esistevano spazi della produzione, venuti meno per le solite cause legate a globalizzazione, delocalizzazioni, o semplici crisi fisiologiche di settore da riorganizzazione o innovazione. Il processo intermedio, è invece quello, nonostante tutto di lungo periodo e non necessariamente traumatico, che vede molto lentamente entrare dentro il vecchio quartiere popolare-operaio un mondo bohémien a caccia di spazi adeguati ad attività creative, ma a basso prezzo, spesso in fuga da altri quartieri in corso di gentrificazione.
Se non vince ovunque la speculazione
Secondo certe interpretazioni un po’ troppo automaticamente «mercatiste», la pacifica invasione bohémien di un quartiere altro non sarebbe se non un chiarissimo sintomo di ben altre invasioni future, quelle che il quartiere lo rivolteranno, fisicamente e/o socialmente, come un calzino bucato. Letta da quel punto di vista, la trasformazione funzionerebbe per fasi logiche successive, dall’iniziale spontanea bonifica ed evoluzione degli edifici e delle strade, calo delle attività criminali, maggiore abitabilità complessiva, e primi influssi di spiriti avventurosi che vogliono «vivere l’atmosfera locale». A quel punto il quartiere si è già praticamente imposto in qualche misura come trendy, e iniziano ad arrivare i veri e propri investitori commerciali, da chi insedia nuovi esercizi rivolti ad abitanti culturalmente ed economicamente diversi da quelli tradizionali, a chi interviene direttamente sul mercato immobiliare, vuoi acquisendo edifici esistenti per restaurarli, vuoi realizzandone dei nuovi là dove le norme urbanistiche lo consentono. Ed è proprio sugli aspetti urbanistici, intesi in senso forse un po’ più ampio della pura tutela o no dell’esistente e dei tessuti tradizionali, che fa fulcro la vera interpretazione del processo. Perché la pubblica amministrazione ha di fatto, volendo, strumenti in grado almeno di contenere e limitare (nella quantità e nella concentrazione) la sostituzione edilizia, sociale e funzionale che chiamiamo gentrification. O almeno di evitare che ad una evoluzione del quartiere corrisponda un appiattimento sulla sola residenza di una determinata fascia sociale. L’anali di dei casi studio proposta dalla rivista scientifica degli urbanisti americani, di fatto conforta questa tesi (pur continuando – brutto vizio – un po’ a confondere le acque su cosa sia o non sia gentrification)
Riferimenti:
Carl Grodach, Nicole Foster, James Murdoch III, Gentrification and the Artistic Dividend: The Role of the Arts in Neighborhood Change, Journal of the American Planning Association, Vol. 80, n. 1, 2014
Il download del JAPA è a pagamento, per chi non ha un accesso universitario forse utile la Versione Bozza del medesimo saggio in forma di working paper