Introduzione di Gino Delledonne
Tra le centinaia di aforismi e sentenze urticanti che Adolf Loos ha lasciato ai posteri, una appare particolarmente fulminante ed esplicativa della propria sobria architettura:«Verrà un giorno in cui l’arredamento di un carcere ad opera del tappezziere di corte Schulze o del professor Van de Velde sarà considerato un inasprimento della pena». Sappiamo bene quanto l’architetto viennese aborrisse ogni forma di decorazione in architettura (da qui la polemica con Van de Velde all’origine dell’affermazione), tanto da titolare uno dei suoi più famosi scritti «Ornamento e delitto».
Del come sia caduto poi nel vuoto il richiamo alla sobrietà, e di come ben diversamente siano andate le cose, sono piene le città contemporanee di tutto il mondo. I «tappezzieri», oggi, con l’arroganza di chi ha il vento in favore, dai rivestimenti degli spazi interni hanno attaccato gli esterni degli edifici infliggendo alla città facciate pacchiane, come fossero prese da qualche catalogo commerciale Leroy Merlin o Castorama. A New York come a Shanghai, a Milano come a Londra, l’unicum omologante planetario prescinde dalle specificità dei contesti, dalla storia e dalle ragioni della città.
In questo segnale, il più evidente tra i tanti, è forse possibile cogliere la deriva della professione di architetto e degli insegnamenti accademici che dovrebbero formare i cosiddetti «addetti ai lavori». In un simile ambiente culturale (!) l’architettura appare come una lingua morta. Temi come storia della città e come questa si è costruita nei secoli in una continuità dettata da situazioni contingenti, da necessità materiali come da necessità di rappresentazione di sé (della città, non dell’ego del progettista) fanno scompisciare di risate i professionisti più in voga. Volendo giocare con le parole potremmo dire che oggi le ragioni della città sono interpretate e governate da ragionieri, così come i geometri hanno applicato grossolani metodi progettuali alle geometrie urbane. Concludendo, sul tema della professione di architetto, e della preparazione che dovrebbe esserne alla base, pare davvero interessante il contributo che Giorgio Grassi portò al convegno tenuto a Napoli nel 1998, riportato di seguito. Dal recente Giorgio Grassi – Scritti scelti 1965 – 2015 (ed. Lettera Ventidue, 2023).
Giorgio Grassi, «L’architetto e il suo lavoro», intervento al convegno internazionale L’architetto in Europa: la formazione universitaria e i nuovi orizzonti della professione, Napoli 1998
So di non essere la persona più adatta per un intervento come questo che mi è stato affidato, un intervento introduttivo, di apertura,che deve appunto aprire la discussione e non limitarla e chiuderla come tendo a fare io di solito e poi su temi come i nuovi orizzonti della professione o la nuova formazione professionale, temi che si aspettano anche delle risposte di tipo tecnico-organizzativo, temi di fronte ai quali io mi trovo in difficoltà, devo confessarlo. È un po’ la stessa difficoltà, o imbarazzo, che provo di fronte a termini come professione e professionale, termini che cerco sempre di evitare, termini diventati generici e vuoti, ormai del tutto inadatti ad esprimere dei contenuti, almeno per me.
Non è che non abbia una mia opinione su problemi come questi, ma questa opinione mi deriva da un’idea del lavoro che faccio, l’idea che me ne sono fatto lavorando, facendo progetti e insegnando a progettare, che ha ben poco a che vedere col nostro lavoro com’è diventato, o come a me sembra che sia diventato oggi. Non ha quindi molto senso, per me, di aggiungere alle diverse opinioni che verranno esposte qui anche la mia, che sicuramente è la meno utile oltre che la meno interessante, proprio perché la meno interessata ai problemi del nostro lavoro posti in questi termini.
Una cosa però posso dirla, a partire proprio dall’assurda situazione attuale, a partire dalle condizioni sciagurate oltre che assurde, almeno per me, del nostro lavoro oggi, una situazione impensabile solo pochi anni fa, anche per via dell’assoluto silenzio sotto cui sta passando. Nella situazione del nostro lavoro oggi (parlo del lavoro, ma lo stesso vale per la scuola), una situazione apparentemente senza uscita (almeno per il momento, vista la totale assenza di discussione e di alternative, se non di tipo personale), pur non sottovalutando l’importanza di quelle che gli specialisti in programmi ministeriali e in normative professionali considerano oggi delle priorità (come la parificazione e omologazione a livello europeo dei percorsi formativi e della stessa professione in un modello che privilegia la preparazione tecnico/organizzativa del lavoro, fino ad arrivare all’individuazione di una figura di architetto-manager, che trovo piuttosto deprimente, oltre a preoccuparmi molto sul piano personale), io oggi, ripeto, vista la situazione, non credo proprio che siano questi i problemi da discutere per primi, se si vuol mettere in discussione, come credo si voglia fare qui, la condizione di base del nostro lavoro.
Penso che i problemi siano altri, problemi che vengono prima, che derivano dalla situazione che ho detto, anche se più difficili da definire e quindi da affrontare, specialmente in una situazione di totale assenza di dibattito come l’attuale, ma sicuramente preliminari e più importanti di qualunque ipotesi di tipo tecnico-organizzativo, perché riguardano un lavoro che, almeno per me, ha completamente perso il suo centro, cioè la sua motivazione originale, il suo specifico perché. Basta osservare con un minimo di lucidità e di distacco quello che si fa oggi, quello che fanno gli architetti oggi, nelle città o sulle riviste, per rendersi conto del fatto che la sola cosa ragionevole da fare sarebbe una riflessione sincera e impietosa sul nostro lavoro oggi, sugli obiettivi e sulla natura stessa del nostro lavoro oggi (che è appunto quello che vorrei cercare di fare qui, nei limiti del mio intervento).
Io penso che quella della consapevolezza e della responsabilità di fronte al nostro lavoro, di fronte al nostro mestiere (un vecchio mestiere che mostra i suoi anni, ma oggi anche tutta la sua contradditorietà con quello che succede), sia la questione di gran lunga più importante, proprio perché così vistosamente disattesa e contraddetta dai fatti. Questo diventa particolarmente evidente se guardiamo con il dovuto distacco da un lato quello che avviene nelle nostre città (la città com’è, come sembra essere indirizzata, il suo probabile futuro, ecc.) e dall’altro le condizioni del nostro lavoro (com’è diventato, rispetto a com’era, a com’è stato sempre, ecc.): le condizioni dell’architettura e del suo lavoro.
Per quanto riguarda la città, guardando quello che si costruisce e si pubblica, guardando le città che si trasformano, quelle in cui si vede prender forma la cosiddetta nuova-città (penso ad es. a Parigi, da trent’anni a questa parte, oppure a Berlino, dall’IBA in poi), io penso che ci troviamo ormai di fronte a due città, due città distinte. Due città dagli obiettivi divergenti, dai destini divergenti, due modi divergenti di vederne la storia, di intenderne l’esperienza e di prefigurarne il futuro.
Una città, che chiamerò la città com’era, la città com’è sempre stata finora. Cioè una città che nel suo costruirsi ogni volta rielabora i suoi temi, i temi di sempre (la casa, il luogo pubblico, ecc.), quella città che per crescere e trasformarsi muove sempre dalla sua esperienza e dalla sua identità formatasi nel tempo, orgogliosa della sua identità e della sua unicità (di ciò che fa unica ogni città storica). La città come si presenta ancora nella gran parte delle città europee, almeno fino a oggi. Una città che, nella sua costruzione, vuole ogni volta ritrovare la sua ragione e i suoi obiettivi. Una città la cui costruzione nel tempo sembra più un effetto della città stessa, una sua conseguenza, che non il risultato di una ricerca a sé stante, come ad es. una ricerca squisitamente formale. Quella città che è l’espressione concreta dell’unità dell’esperienza dell’architettura nel tempo, oltre che la prova evidente, nella storia fino a oggi, della necessità di un linguaggio dell’architettura (un linguaggio, cioè un fondamento comune al nostro lavoro, che sia comprensibile e condiviso). Quella città che ci costringe ogni volta a fermarci a riflettere, quella città che mette alla prova ogni volta la nostra intelligenza, la città di cui abbiamo esperienza, le nostre città fino a oggi.
E poi una città, che chiamerò l’altra città, perché altre devono essere le sue ragioni e i suoi obiettivi se è costretta, come sembra, a cercare, per la sua costruzione, altre ragioni e altri obiettivi attraverso una ricerca formale, diciamo così, a tutto campo (dove l’unico oggetto della ricerca sembra essere appunto la forma, la forma che non richiede spiegazioni). Una ricerca espressiva che è la negazione o lo stravolgimento del linguaggio dell’architettura, anzi una stessa ricerca ha fatto a pezzi in modo che non potesse servire più a nulla. Una ricerca fatta di innumerevoli espressioni diverse, che non hanno nessuna relazione fra loro, se non appunto la loro diversità e il loro rapido superamento, e che per questo sono tutte uguali e intercambiabili fra loro.
È questo che ci fa vedere l’altra-città. La negazione della sua propria identità anzitutto. In modo che quell’elemento singolare e unico, appunto l’identità di ciascuna città, che è stata sempre come una trama preziosa, una guida che bisognava ogni volta ritrovare nella sua costruzione, viene sostituita da un modello in cui questa guida viene abbandonata, rinnegata, in nome di nuovi e diversi obiettivi espressivi (già adesso ci sono delle strade, nelle grandi città europee, dove è impossibile capire in quale città ci si trovi, le prime a farne le spese sono state le vie storiche rese pedonali, le più famose, penso alla Kärtnerstraße a Vienna o alla Kalverstraat ad Amsterdam, ma lo stesso succede a Milano con il corso Vittorio Emanuele o con la via Dante).
Il modello attuale di una città come Berlino ad esempio (per parlare di una città considerata all’avanguardia e continuamente portata ad esempio sui giornali), il suo ultimo modello, non è né la città dei grandi tracciati e dei monumenti ad ampi intervalli dei piani barocchi o dei progetti neoclassici, la città dei grandi isolati regolari, né la grande città fatta di diverse città più piccole che conservano intatta la loro identità e che tutti conosciamo, così come non è più il sovrapporsi e l’adattarsi, coerente, naturale, di tutte queste città, ciò che faceva di Berlino una città unica, com’è stato fino ad oggi, ma è diventato invece lo stesso identico modello di tutte le città a forte e rapido sviluppo, di Francoforte o di Londra, di Madrid o di Parigi, o il modello di tante città americane e adesso anche di città più esotiche e lontane come Hong Kong o Shanghai.
Un modello in apparenza disarticolato, una sommatoria di frammenti luccicanti e vistosi, inespressivi per eccesso, un modello che assomiglia sempre di più a quello delle Grandi Esposizioni Universali di buona memoria (e forse non è un caso che tornino di moda oggi, vedi Siviglia o Lisbona), dove tutto era apparenza e spettacolo, però senza mai entrare in conflitto con la città e la sua vita, come invece pretende oggi il modello della nuova città. Una città che, mentre ci costringe a guardare senza chiedere spiegazioni, mette alla prova la nostra capacità di adattamento, in quanto il fatto di viverci o di usarla secondo necessità e chiarezza non è rilevante ai fini della sua figura finale, cioè del suo spettacolo. La mutevole forma di una città che in realtà è sempre la stessa e che va a sovrapporsi, incurante, a delle città che ancora ci fanno vedere con evidenza la loro ragione di essere, la loro condizione di necessità nel tempo. Antiche città diventano palestre per la sperimentazione dell’architettura contemporanea (ho letto di recente su un quotidiano uno scritto di R. Piano, in cui l’Europa è vista proprio come un grande campo di esercitazioni e come un’occasione unica e da non perdere per l’architettura contemporanea, e per gli architetti naturalmente).
Se è questa la nuova città, la città che probabilmente ci aspetta, si tratta, secondo me, di una prospettiva davvero agghiacciante. E poi, paradossalmente, senza mai una parola di spiegazione. E, ancor più paradossale, senza mai una parola di spiegazione. E, ancor più paradossale, senza che nessuno ne chieda il perché. Senza che nessuno si chieda la ragione di tanta presunzione, e anche stupidità, diciamolo pure, rispetto a un patrimonio che è la sola ricchezza rimasta al nostro lavoro (il solo punto di riferimento, il solo punto da cui eventualmente ricominciare, almeno per me). Due città che non hanno praticamente più tangenze, perché la seconda,malgrado le dichiarazioni e i grossolani saccheggi operati sulla prima, è in realtà soltanto l’annientamento della prima, è l’annientamento scientifico della prima, di una città ridotta, nella migliore delle ipotesi, a reperto archeologico, cioè buono soltanto per dei conservatori di professione.
Io credo che se noi ci chiediamo il perché di tutto questo (mi riferisco a quella parte di perché di cui, secondo me, è responsabile l’architettura, cioè gli architetti) difficilmente troveremo una risposta plausibile nell’esperienza stessa dell’architettura, se non rivolgendoci a quell’altro aspetto del nostro lavoro oggi cui ho già accennato, cioè alle sue condizioni, alle nuove condizioni del nostro lavoro. Parallelamente alla trasformazione della città (dell’idea di città che vediamo mettere in opera oggi) vediamo, come dicevo, un lavoro, un mestiere, che è anch’esso talmente cambiato nelle sue condizioni, e anche nelle sue aspettative, da essere diventato in realtà anche un altro lavoro, quasi un altro mestiere. E qui non mi riferisco tanto alle condizioni strutturali, diciamo così, del nostro lavoro (direi proprio senza alternative oggi) e con le quali ciascuno di noi, con maggiore o minore elasticità, fa i suoi conti, né mi riferisco ai risultati, a quello che vediamo in giro e che non m’interessa qui giudicare, quanto proprio al senso e alla natura stessa del nostro lavoro, mi riferisco alla progressiva modificazione dei suoi compiti e dei suoi obiettivi, un lavoro sempre più costretto e impoverito, fino a diventare, com’è effettivamente diventato, da un lato più che altro un lavoro da tecnocrati o da assemblatori di nuovi materiali, e dall’altro sempre più spesso un lavoro da decoratori, o da creativi come si usa dire adesso (o da tappezzieri come direbbe e come effettivamente ha detto già molto tempo fa Adolf Loos).
Dove il ruolo d’interpretazione e di sintesi, di controllo e di misura, proprio dell’architettura da sempre, è diventato del tutto irrilevante rispetto alle questioni decisive del progetto e il compito dell’architetto si è ridotto sempre più spesso a un compito da rifinitore (da addetto agli effetti speciali il più delle volte), perché si possa pensare che si tratta ancora, malgrado tutto, di architettura. Giocando cioè sull’equivoco di un lavoro, con un suo compito e una sua dignità, che di fatto non esiste più da tempo e che viene artificialmente fatto rivivere a fini pratici, appunto l’architetto messo anche lui nella grande famiglia dei creativi, dei tanti creatori di forme che ci sono in giro. Ma bisogna anche dire che gli architetti hanno opposto ben poca resistenza a questo miserabile stato delle cose. In gran parte consenzienti, si sono subito adattati a questo nuovo compito, per questo parlo di una responsabilità specifica degli architetti. Responsabilità di maestri disinvolti (inutilmente aperti, spregiudicati, vista la situazione) e di epigoni opportunisti (è questa una speciale categoria di architetti, particolarmente numerosa oggi, convinta di contribuire alla fondazione di nuovi linguaggi architettonici).
Maestri che vogliono farci credere, con il loro esempio, che oggi la città non può più essere quella che è sempre stata, una città con un suo destino ogni volta da rinnovare, ma che deve essere ben altro, inclusi destini diversi, segno della ricchezza espressiva della nuova città liberata da convenzioni ormai superate. Maestri che vogliono farci credere che compito di un maestro è appunto quello di mettere in circolazione nuovi riconoscibili modi espressivi. Maestri che col loro esempio vogliono dimostrarci (e qui ci riescono bene) che un progetto è anzitutto un evento, un exploit, cioè una prodezza, appunto un’esercitazione formale, e non invece (come altri maestri ci avevano insegnato e come abbiamo sempre pensato) anzitutto un pronunciamento, cioè un bilancio e una dichiarazione d’intenti, proprio perché architettura, proprio perché si confronta con un mondo espressivo che esiste da prima, appunto l’architettura, cioè il progetto come espressione di un giudizio complessivo, come è sempre stato fino a oggi, nei casi migliori.
Ecco, questa è la situazione, o quantomeno questo è, più o meno, lo scenario del nostro lavoro oggi, quello che, secondo me, ci troviamo di fronte quando affrontiamo il nostro lavoro. Nel senso che noi, facendo un progetto, è proprio con questo scenario che dobbiamo fare i nostri conti per primo, e con una disinvoltura davvero impressionante, e naturalmente fanno dei danni, spesso dei disastri, almeno secondo me, e nemmeno se ne accorgono, nemmeno se ne rendono conto, nei casi migliori fanno delle cose inutili (un po’ come tutti noi, vista la situazione), ma nemmeno lo sanno.
Inconsapevoli e in perfetta buona fede questi nuovi maestri non vedono proprio la contraddizione e la profonda lacerazione che sta alla base di quello che fanno, alla base del loro lavoro, oppure non se ne curano, purché alla fine quel lavoro risulti gradevole, cioè un lavoro apparentemente ben fatto (ecco il perché della mia diffidenza ad esempio nei confronti dei cosiddetti puristi, i molti puristi di oggi). Devo dire che è proprio questa specie di grande coltre di superficialità e di faciloneria che si estende compatta sul nostro lavoro oggi, questa specie di grande vuoto incombente e sempre più dilagante in cui vediamo galleggiare allegramente le diverse esperienze dell’architettura contemporanea, che m’impedisce di prendere sul serio i discorsi tecnico-organizzativi sulla professione dell’architetto e sul suo futuro e di appassionarmi alla loro discussione.
Nota: le immagini senza didascalia sono scelte da Robert Maddalena tra opere di Franco Stella, Boris Podrecca e altri