Dura da almeno tutto il ‘900 la diatriba sulla natura dell’urbanistica: arte o scienza? Meglio ancora: quale equilibrio, nella miscela delicata di fattori tecnologici, organizzativi, sociali, edilizi, ambientali, politici, che devono far capo alla decisione, comunque discrezionale, di chi governa? Come sappiamo, in un primo tempo, coincidente più o meno col trionfo finale dell’idea di città macchina per abitare, sono in qualche modo gli artisti architetti a imporre un certo genere di equilibrio, che coincide con la loro formazione universitaria e professionale, in seguito adattata e corretta con la definizione della nuova figura del planner. Il tempo come si dice è galantuomo, e però galantuomo molto a modo suo, visto che gradualmente alla faticosa definizione diciamo così tradizionale dell’urbanista terzo millennio ne affiancava, con peso crescente e via via preponderante, altre e inedite, davvero inusitate.
Inquilini sgraditi
In fondo non aveva affatto torto il segretario comunale genovese Silvio Ardy a suggerire negli anni ’20, anche se il momento non poteva essere più sbagliato, l’esistenza di una forma di urbanismo molto composita, variabile, aperta. Un urbanismo cangiante così come cambiavano le competenze gestionali del comune a seconda delle varie evoluzioni (tecniche, sociali, politiche, culturali) e che non cercava certamente rifugio sotto questo o quello specialismo, neppure nella forma della famosa intuizione degli architetti, apparentemente in grado di adattarsi davvero con una marcia in più a tutto quanto. Il metodo, se non il merito, di Ardy si confermò ad esempio oltre oceano dopo la guerra, proprio quando iniziavano a imperversare le grandi trasformazioni indotte dai progetti totalizzanti degli architetti-urbanisti moderni. Negli anni ’50 si può constatare l’esistenza di una Exploding Metropolis, per usare il titolo di una fortunatissima raccolta curata da William Holly Whyte, in cui lo scrittore di successo convertito agli studi urbani a tempo pieno ci avverte- e con un certo anticipo – da un lato che la città con la suburbanizzazione non è più quella di una volta, dall’altro fa da pigmalione alle prime considerazioni della giovanissima Jane Jacobs sulle enormi lacune dell’urbanistica razionalista e degli spazi che definisce. Entrambi, non solo figure innovative e destinate a far scuola, ma che aprono la strada a molti altri approcci diciamo così eccentrici.
Città da galera, e per fortuna
Non si possono considerare in altro modo, i ruoli sempre più determinanti, in una misura o nell’altra, nelle scelte strategiche urbane, di figure culturali e sociali che non hanno nulla da spartire coi tecnici di un tempo, che pure mantengono un proprio ruolo di tutto rispetto. Figure che vanno dall’esperto o meno esperto di tecnologie e organizzazione (pensiamo solo a tutto il mondo che ruota attorno alle variegate idee di smart city) o al peso crescente di associazioni comitati o lobbies miste, in grado nel bene o nel male di influenzare anche profondamente le scelte alle varie scale, magari in modo del tutto indifferente a contraccolpi o effetti domino. Ultimo arrivato, si spera e si ritiene virtuoso e consapevole, di questa schiera di inusitati urbanist, nel senso di cultori dell’urbanismo complesso come lo chiamava Ardy, è il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che a sua insaputa o meno fornisce un sostanziale contributo diretto e indiretto alla lotta per il contenimento del consumo di suolo.
La sua è semplicemente una opposizione, da convinto assertore di diritti urbani, al decentramento del noto carcere di San Vittore, struttura penitenziaria vetusta ma al tempo stesso edificio di pregio che molti vederebbero volentieri dedicato a funzioni urbane e terziarie pregiate. Dice, Pisapia, «Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere». Dove lontano dalla città vuol dire da un lato segregazione, come di norma nello sprawl, dall’altro occupazione di spazi liberi sottratti all’agricoltura e/o alla natura. Insomma, quella del sindaco è la migliore idea di mixed use possibile e immaginabile, e basta sostituire a caso nomi di categorie di cittadini, per rendere quella frase una specie di manuale universale. Grazie, e alla prossima.
Riferimenti:
Maurizio Giannattasio, Pisapia difende il carcere di San Vittore, Corriere della Sera online, 20 ottobre 2014