Le città sono dei cittadini, su questo non ci piove, lo dicono tutti. La faccenda inizia a diventare più complicata quando cominciamo a cercare di capire chi sono esattamente, questi cittadini. Sono quelli che nella città ci abitano, ma in senso più allargato sono anche quelli che in un modo o nell’altro ci hanno a che fare, e in senso ancora più allargato ci hanno «diritto di cittadinanza» anche entità varie, dagli animali domestici alle imprese, senza le quali imprese di solito i cittadini in carne e ossa se ne starebbero a girare i pollici, magari senza uno straccio di reddito. Schematico, ma abbastanza plausibile. Così plausibile che lo scontro fra ambientalismo e sviluppismo, nelle varie sfumature via via assunte, si gioca esattamente su questa gerarchia di diritti di cittadinanza: ne ha di più chi l’inquinamento lo subisce direttamente, o chi sta lontano e sarebbe colpito invece dalla chiusura degli impianti? E poi è più giusto pensare la città per abitarci, o per farci produzioni varie secondo il modello più o meno in vigore da un paio di secoli?
Osservano molti commentatori, che anche se per tutelare la salute degli abitanti si riterrebbe quasi indispensabile fermare la produzione, poi interventi di politiche varie a certe condizioni la fanno proseguire, e per esempio come ha scritto in un caso particolare emblematico un sociologo, si «respireranno gli stessi inquinanti, forse in dose lentamente calanti, e le polveri e le sostanze nocive continueranno a posarsi sulle loro case e sulle loro famiglie e ad essere inspirate da adulti e bambini». Ma col tempo, ci viene promesso, si aggiusterà tutto: anche per intervenire sull’ambiente ci vogliono soldi, e come si fa a guadagnare soldi se non si produce? Già, vabé, ecco. Ma non è certamente tutto.
Se potessimo riassumere questa cosiddetta filosofia, in particolare l’idea di città che esprime, il primo aggettivo che viene in mente è «industrialista», nel senso più brutale assunto dalla parola da diversi decenni. Ovvero al primo posto il lavoro, non inteso come diritto ma come strumento per la produzione di ricchezza che poi penserà eventualmente il mercato a redistribuire, e via via a scendere cose come la salute dei lavoratori, subordinata a quanto sopra, nonché delle loro famiglie e dei quartieri che vengono considerati appendici della fabbrica, magazzini di manodopera da prelevare alla bisogna, luoghi dove si fa la manutenzione ordinaria delle risorse umane da spremere poi direttamente dentro gli impianti.
Ma, esattamente come succede coi mitici e adorati (da chi ci comanda) mercati, anche l’aspetto della salute a ben vedere non riguarda solo lavoratori, famiglie, città. Dal punto di vista dell’inquinamento ci sono di mezzo almeno territori a scala regionale, e basta parlare di emissioni per saltare anche al volo a una dimensione globale. Poi ci sono i modus operandi produttivi e delle relazioni commerciali, che confermano e ribadiscono l’intangibilità della rete e del suo specifico funzionamento. E il cerchio si chiude, trasudando filosofia cosiddetta T.I.N.A.(There Is No Alternative) da tutti i pori. Sorge però spontanea una domanda: se appunto per i nostri banchieri dittatorialmente insediati oggi nei gangli di governo non c’è alternativa, questa alternativa la troviamo poi nei programmi e nelle narrazioni altrui? Sarebbe auspicabile, e c’è ancora un altro motivo perché lo sia.
Sulla rivista Environmental Research Letters è stato pubblicato tempo fa uno studio intitolato «Comparing climate projections to observations up to 2011» in cui si analizzano dagli ultimi decenni e sino a quella data temperature globali e innalzamento dei mari, comparandoli con le previsioni ufficiali dell’organismo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC). E scoprendo, da questa comparazione, che le temperature grosso modo aumentano come dice l’IPCC, ma il livello degli oceani cresce molto di più: non è che le previsioni sui livelli degli anni prossimi siano fortemente sbagliate per difetto?
Non è ancora finita, perché nelle conclusioni si citano la velocissima perdita di massa dei ghiacci dalla Groenlandia all’Antartide, spingendo ulteriormente verso l’alto l’onda del mar. Val la pena qui, già che ci siamo, ricordare anche un altro paio di cose. Primo, che sono in molti a sospettare che lo scioglimento dei ghiacci polari provocherà un rilascio di metano (gas serra) dal sottosuolo, in grado di accelerare ulteriormente il riscaldamento planetario. Secondo, che anche la Banca Mondiale in un suo articolato rapporto avverte che temperature e livelli dei mari stanno crescendo più velocemente del previsto, e il sistema socioeconomico mondiale ne deve alla svelta prendere atto. Possibile che gli eventi piccoli e grandi classificati come «estremi» non siano un sintomo sufficiente per capire di che si parla?
Dicono, ci dicono, occorre tempo, ma di tempo ce n’è poco: quanto ci vuole? Qualcuno sta dicendo, o facendo, qualcosa a proposito? O si spera nella divina provvidenza? Non c’è un politicante magari pure un po’ in malafede, che minacciando sfracelli come hanno fatto per anni usando la scusa dei flussi migratori «invasori», evochi paure millenarie, ma pure investimenti e programmi di adattamento territoriale, ambientale, produttivo? I governi chiedono tempo, ma non sappiamo quanto ne resta a noi. Viene addirittura il sospetto che sappiano tutto, e molto più di tutto, ma non vogliano dirlo a nessuno. Il sospetto più forte però è che siano dei mediocri cooptati, per meriti di mediocrità, senza nulla da dire. E torna la domanda: c’è un’alternativa allo stato delle cose? Basta un’alternativa urbana, tanto per non iniziare subito a scappare verso le montagne, che non è mai una bella cosa.