Gli scienziati pazzi del neoliberalismo

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Foto J. B. Hunter

Ci sono colossali stupidaggini che si presentano in buona o malafede come pensate di «puro buon senso», e altre che addirittura vanno oltre quella sciocca vaga intuizione iniziale, costruendoci su un intero sistematico universo, che poi diventa ancora più difficile da mettere in discussione. Un esempio è quello di chi vuole sempre «ricongiungersi alla natura», cosa di per sé encomiabile se non fosse che la pratica poi consiste nello sdraiarsi sopra, non certo in armonica fusione. I casi sono tantissimi, quello più banale è l’uso per il sedicente ricongiungimento di mezzi di trasporto a elevato impatto diretto o indiretto: si raggiunge la cima solitaria o la valle boscosa del corso d’acqua usando motori sputacchianti, o peggio ancora pretendendo di tracciarsi o farsi costruire un comodo percorso, addirittura un comodo parcheggio. Ma c’è qualcosa di più, perché il ricongiungimento/sopraffazione vuole diventare eterno, residenziale, e allora ecco la casetta sull’albero invece della maggior parte dei rami, o la villetta suburbana con giardino vialetto e steccato che diventa «ecologica» anche se sta nel bel mezzo di una riserva naturale a disturbarla, giusto perché si sono usati mattoni di paglia. E via di questo passo, solo per un presupposto semplicione, fideistico, piuttosto campato per aria. Così vanno le cose, quando si osserva la complessità col vizio di ricondurla a poche e parziali relazioni.

Le tabelline non riassumono la vita

Moltissimi economisti adottano criteri analogamente surreali nel pensare (e a volte ahimè determinare) la realtà spaziale e sociale urbana, ripetendo il medesimo errore di prospettiva di certa urbanistica razionalista novecentesca, ovvero dissezionando l’organismo in parti senza pensare affatto a ricomporle logicamente e conseguenzialmente. Nascono da qui certe intemperate «ricerche» (virgolette d’obbligo) che appaiono del tutto scientifiche e inoppugnabili in superficie, vuoi sulla crisi delle abitazioni, o lo sviluppo locale, o l’efficienza urbana generale, ma che poi osservate un istante si rivelano sprezzanti nei confronti di ogni variabile non ritenuta importante, ed esclusa dal conto come un impiccio. Al limite del leggendario certi calcoli sul rapporto diretto fra vincoli urbanistici di zona e aumento dei costi dell’abitare, valutati sulla base delle quotazioni immobiliari, dove tutto funziona magnificamente finché non si va a vedere cosa diavolo siano, quelle «case» genericamente citate dallo studioso di turno. E si scopre trattarsi di puri metri cubi, in genere terziari, e comunque letti in una logica che esclude ogni prospettiva legata all’abitare concreto. Con la medesima fantasia sfrenata nei presupposti, poi si riesce addirittura a individuare nell’orrore dello slum terzomondiale uno splendido modello di sviluppo socioeconomico, chiudendo entrambi gli occhi le orecchie e le narici sul modo in cui viene realizzato quel succoso «valore aggiunto», vera negazione della qualità della vita. E adesso siamo addirittura arrivati a una apparente saldatura fra ideologie economico-integraliste sullo sviluppo, e sciocchezze apparentemente ambientaliste, addirittura anti-sprawl.

I modelli vanno bene solo come strumento

Cosa dicono i critici del modello di espansione urbana a «crescita continua», sia nella storica versione della macchia d’olio che in quella più moderna e automobilistica dispersa detta «a rimpiattino»? Che consuma un sacco di risorse non sostituibili, e che diventerò presto insostenibile con la crescita smisurata della popolazione e dei consumi, energetici e non. Adesso a questo genere di critica sembrerebbe sommarsi un analogo approccio economico, che al pari di quello delle discipline urbane e ambientali individua nella città più compatta e contenuta la chiave di nuove politiche di sostenibilità. L’idea generale è che sia necessario passare da un modello estensivo a uno intensivo, che produce di più per unità di risorse impiegate, visto che tra parentesi le innovazioni scientifiche e tecnologiche sembrano abbondantemente sostenere questo nuovo paradigma. Ma quasi subito casca l’asino di un approccio di settore, per non dire di segmento, che scambia sé stesso per una visione organica e generale, e che dà (gran vizio di tanti economisti neoliberali) tutta la colpa del mancato decollo all’intervento pubblico, nel caso specifico all’urbanistica. In sintesi, ci dicono i nostri «scienziati dell’economia» la città potrebbe essere infinitamente più densa di persone, edifici, attività, relazioni e reti, ma quegli assurdi vincoli alle trasformazioni, alla «libertà di costruire», tarpano le ali al volo verso il paradiso. La cosa più divertente, è che l’urbanistica pubblica in questa visione lisergica dell’economista viene assimilata all’atteggiamento nimby, ovvero di chi ha come unico scopo della vita bloccare tutto in un eterno status quo. Ora, che le politiche urbane siano discutibili, a volte stupide in modo lampante, lo sappiamo tutti, ma liquidare alcuni secoli di storia perché non rientra nel foglietto degli appunti pare un pomposo esercizio da imbecilli, anche se dotati di lauree, dottorati, curricula chilometrici.

Riferimenti:
Noah Smith, Want Economic Growth? Empty the Suburbs, Bloomberg, 3 maggio 2016

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