C’era una volta chi poteva spostarsi e chi se ne doveva invece stare praticamente sepolto tutta la vita. Una vera condanna da un lato, uno spudorato (anche se a volte, pur raramente, guadagnato) privilegio dall’altro. Nasce così anche la simbologia della disponibilità del mezzo di trasporto come indicatore di categoria sociale, distinzione fra chi va da qualche parte, vede il mondo, e chi non esce da ambiti ristrettissimi, che siano le mura della città, i limiti del villaggio, i confini del podere. L’evoluzione tecnologica e la moltiplicazione dei mezzi di trasporto poi amplia e un po’ «democratizza» questa disponibilità, ma resta comunque la distinzione di status, ben rappresentata addirittura dall’uso del termine classe nei trasporti collettivi, ferroviari o navali che siano. Con l’avvento dell’automobile, nel senso dell’automobile di massa, le cose cambiano sensibilmente, diventando molto molto più intricate: perché non solo cambia il mezzo di trasporto, ma si trasforma radicalmente anche l’idea di movimento, quando i flussi da un punto all’altro diventano di fatto il cuore e il senso dell’attività umana. Un ottimo caso simbolico in questo senso, è l’accusa rivolta allo zar dei lavori pubblici dell’area di New York, Robert Moses, di aver reso quasi impossibile l’accesso alle spiagge di Long Island a chi non è dotato di auto privata, costruendo i ponti delle parkway troppo bassi per farci passare un autobus, ed escludendo così i poveri (qualcuno insinua, principalmente i neri, poveri).
Il motore dell’economia e del consumo
Altrettanto significativo, il muoversi delle case automobilistiche a tutto campo, acquisendo la maggioranza azionaria di compagnie di trasporto pubblico per farle poi fallire, partecipando direttamente alla realizzazione di infrastrutture dedicate, introducendo nelle proprie linee di prodotti e investimenti anche beni di consumo durevoli indirettamente ma saldamente legati all’auto, lavatrici, frigoriferi e via dicendo. L’oggetto automobile da un lato diventa indispensabile per accedere alla città suburbana, nuovo luogo simbolo di stabilità familiare e sociale, e dall’altro si fa simbolo e cuore di tutta la crescita economica: non c’è casetta familiare senza auto, e non c’è casetta abitabile senza aspirapolvere, frigorifero gigante per le scorte (il centro commerciale è lontano, anche se raggiungibile, in auto) che contiene tanto quanto un baule di auto pieno, a sua volta corrispondente a un carrello della spesa colmo, e poi i detersivi per tenere pulito tutto quanto, gli artigiani e i materiali per le manutenzioni periodiche, la rete dei distributori e dei meccanici sparsa ovunque, l’indotto pubblicitario. Ma ci sono anche le segmentazioni di mercato dello status symbol, abbastanza infinite e che un po’ riproducono il vecchio sistema delle classi sui grandi mezzi collettivi, salvo spezzettarlo fino all’assurdo: dal modello cosiddetto sportivo (che spesso è tale solo perché più basso e scomodo di quello normale) alla graduatoria di cilindrate, accessori, marchi più o meno considerati giovanili, familiari, esclusivi, identitari.
Movimento virtuale
È abbastanza significativo che, con l’avvento dei flussi virtuali di massa rappresentati dalle reti con o senza fili e dai dispositivi mobili, emerga più netta la distinzione fra ciò che l’auto privata effettivamente fa, e ciò che in realtà è: un sistema tecnico per accedere a determinati spazi, qualità servizi, e che a volte funziona assai male. Ce ne accorgiamo quando, per la millesima volta, si sperimenta sulla pelle l’infinita difficoltà di attraversare arrancando a passo d’uomo un’area metropolitana (con l’auto «veloce e sportiva» che ci hanno venduto a caro prezzo per via dell’immagine «fresca e dinamica» con cui si presenta nella pubblicità), a fare qualcosa che via email o altra operazione internet potrebbe richiedere giusto un paio di click, due minuti. E torniamo così a poco più del senso originario di quella distinzione, fra chi può vedere il mondo e chi sta invece forzatamente inchiodato a un solo luogo, condizione al giorno d’oggi prevalentemente mentale e culturale. Insomma gli status symbol sono cangianti, e pare che per l’auto privata ci si avvii al tramonto, fermo restando il valore d’uso di qualcosa in grado di muovere persone e merci efficientemente da un punto all’altro. Tutto questo, nel caso specifico della cultura e della storia recente cinese, vale per la bicicletta, in termini lontanissimi dai nostri occidentali (e lontanissimi anche da quel recente ritorno sportiveggiante di origine americana), da mezzo di trasporto dell’età matura dell’operaio modello membro di una famiglia socialista, a simbolo di arretratezza di cui liberarsi comprando un’automobile, all’emergente status postmoderno nel segno della condivisione tecnologica. Che presto, molto probabilmente, invaderà anche i nostri paesi occidentali, in quella versione «senza rastrelliere», inconsapevolmente molto egualitaria.
Riferimenti:
Helen Gao, How the Chinese navigate urban sprawl, The New York Times, 10 aprile 2017