L’automobilista cafone non esiste. Il fatto è che tutti gli automobilisti sono cafoni, prepotenti urlatori, zozzoni: mica per propensione o cattivo umore, ma proprio per natura intrinseca. Stare appollaiati dentro un coso da una tonnellata che sputa fumo e strombazza qui e là ci fa diventare una sola cosa col contenitore, come confermano studi e statistiche. Per cercare di uscire dalla triste condizione di cafone coatto ci vuole sforzo, autocontrollo, rispetto costante dell’altro punto di vista, e non è poi detto che ci si riesca, il richiamo della foresta è troppo forte.
Quante volte si vedono guidatori accettare senza battere ciglio i peggiori disagi del traffico, e poi improvvisamente sbottare in urla disumane, la faccia cianotica che sporge dal finestrino come quella di un pollo in trasferta? Non se la stanno mai prendendo, che so, col genio dell’ingegneria che ha progettato quell’incrocio in modo da farlo costantemente intasare dalla coda accumulata in quello successivo, ma con un ciclista che gli ha tagliato la strada, magari solo per rifugiarsi il più rapidamente possibile nella corsia riservata se ce n’è una.
Che nemico particolare rappresenta, il ciclista? Quale terribile pericolo incombe sull’automobilista che ne incrocia uno o più di uno? È noto che in qualunque città sono decine, molte decine, i ciclisti che ogni anno sono vittima di qualche incidente d’auto. Non è dato invece di aver mai sentito di un guidatore vittima degli amanti del pedale, che irrompono con tutta la loro ferraglia nel sancta sanctorum dell’abitacolo, sfregiando le sue pregiate carni ancora aggrappate al volante. E allora da cosa ci arriva questa enorme spontanea ostilità?
Quasi di certo dal fatto che proprio i ciclisti sono lì a ricordarci l’esistenza di un altro mondo, o meglio di un altro modo di vedere il mondo, dove esistiamo in contemporanea ad altri utenti dello spazio, ad altri obiettivi dal fulmineo spostamento da A a B senza badare a cosa ci sta in mezzo. Imperdonabile, no, questo promemoria della complessità urbana mentre tutto ci doveva sembrare liscio, facile, piegato dalla forza della macchina ai nostri capricci? Lo stravolgimento grammaticale, di quello che gridiamo dal finestrino, probabilmente anche di quello che pensiamo, è un ottimo simbolo della condizione di semi-demenza a cui ci riducono la scatoletta meccanica e i vasi comunicanti del mondo costruito a sua immagine e somiglianza, che siano gli svincoli (illuminante provare a percorrerne a piedi anche solo uno piccolino: vi è mai capitato?), o i parcheggi, o le escrescenze derivate, dall’accesso al supermercato al quartiere di villette senza marciapiede. In tutto questo mondo, la «natura» occupa un posto a dir poco tragicomico più o meno ridotta a comodo cuscinetto fra una corsia e l’altra ad assorbire l’unto, o coi suoi genuini prodotti di quinta generazione serviti al distributore fast food vicino a quello della benzina. Quando invece la natura, per il solo fatto che ci dà da mangiare, da bere, da respirare e tutto il resto, dovrebbe sempre esserci ben presente. Macché.
È sostanzialmente in questo modo che i razionalisti, in buona fede ma mica tanto razionali a ben vedere, leggevano la città. Ed è nel medesimo modo che le forze dello sviluppo economico l’hanno poi fatta crescere a dismisura, fino a contenere il 50% e più della popolazione mondiale. A quel punto parecchi se ne sono accorti, che si iniziava visibilmente a soffocare. All’inizio pareva abbastanza semplice: se si soffoca si cerca un angolino meno soffocato per tirare un bel respiro, e se quell’angolino respirabile sta troppo lontano si prende la macchina per andarci. C’era il problema che la macchina non ce l’hanno tutti, e sembrò risolverlo l’invenzione dell’automobilismo di massa. Ma si sa che per ogni problema risolto ne nascono alcune migliaia di nuovi, e oggi ce li abbiamo tutti tra i piedi. Crisi petrolifera, cambiamento climatico, sprawl che si consuma a man bassa risorse agricole. E l’aria che ormai è inquinata per ore e ore di viaggio, specie nelle megacittà globali del XXI secolo.
Se forse (forse) a petrolio e clima si potrebbe anche trovare una soluzione tecnologica, è quasi sicuro invece che alla scomparsa di spazi di terra liberi sotto case e strade non ce n’è una. E gli scienziati più che arrovellarsi provano a spiegarlo alla politica, quanto è grave il problema. Ed è anche intuitivo il problema dello spazio: per l’alimentazione come per la produzione di energia. Sembra di rivedere le facce monodirezionali degli automobilisti, ignari del mondo extra-abitacolo, in chi continua a decidere nuove espansioni urbane convinto che quegli spazi si possano sempre trovare, un po’ più in là, o ancora un po’ più in la. Dove, esattamente, sia in quelle gigantesche distese di baracche nei paesi in via di sviluppo, sia nelle nostre moderne ma sterilizzate metropoli, se ovunque il verde è ridotto quando va bene a accessorio ornamentale fortemente artificiale, e per inciso si consuma grandissime quantità di preziosa acqua?
Fortunatamente non tutti gli urbanisti hanno sempre condiviso la versione cosiddetta «razionale» (chissà perché) dello sviluppo della città, e anche parecchi ex razionali si sono convertiti a un’immagine un po’ più complessa della macchina efficiente e produttiva che risolve tutto a colpi di ingranaggi. Poi la tecnica in sé e per sé, quando riesce ad essere un mezzo e non un fine, fa miracoli. Pensiamo all’agricoltura urbana e ai mille modi in cui si sta provando a scavare spazi nell’ex città sterilizzata. Che siano gli orti di risulta, o le reti ecologiche continue che uniscono questi al verde territoriale attraverso superfici pubbliche e private, o infine appunto soluzioni più high-tech come i circuiti integrati delle acquacolture nei contenitori industriali dismessi, o le serre e i tetti verdi.
Quest’ultima è un’idea al tempo stesso semplice e geniale, che unita a una adeguata rete organizzativa potrebbe fare moltissimo per l’ambiente urbano: la terra coltivata, se guardiamo una planimetria di quartiere, può occupare anche una quota elevatissima, se non si calcola a che altezza si trova, basta appunto sostituire a tegole e catrame uno strato di compost e inerti, di solito abbastanza leggero. Ma le soluzioni tecnologiche da sole suscitano al massimo curiosità, fanno pubblicità ai promotori e poco altro, se non sono accompagnate da una evoluzione di comportamenti, amministrativa, organizzativa. Innanzitutto i tetti verdi devono far parte di una strategia più ampia agricola e ambientale per la città, che tocca i temi dell’alimentazione, della distribuzione commerciale, dell’energia, della cultura e formazione.
In tante città dense e artificiali, dove fino a poco tempo fa i parchi decorativi e di passeggio erano rari momenti in cui la selva di cemento si interrompeva, oggi i tetti verdi si inseriscono sia nella rete delle infrastrutture ambientali che nei programmi delle amministrazioni (coordinamento, incentivi fiscali ecc.), e innescano una serie di altre iniziative e possibilità. Ad esempio è assai meno noto del loro ruolo di terreno coltivabile, il fatto che quelle coperture ricevono, filtrano e trattengono acqua piovana, che altrimenti andrebbe sprecata giù nei tombini, e poi fatta defluire e depurata, con i costi che ben sappiamo. Insomma la natura che entra in città lo deve fare nel modo complesso in cui opera altrove, non certo solo scimmiottando sul tetto un piccolo giardino privato tradizionale.
Certo non è possibile semplicemente spalancare la porta e lasciar dilagare la natura fra strade e case, visto che lo spazio urbano artificiale da migliaia di anni è nato proprio per imporre un ordine diverso alle cose, e si deve procedere passo passo, chiedendo permesso. Un conto è fare una modifica puntuale come sostituire le tegole con uno strato di terriccio, oppure tenersi una gallina in giardino invece del gatto, altro mirare a una riorganizzazione complessiva del funzionamento dei quartieri. Qui entra in ballo il classico coordinamento caratteristico dell’urbanistica, con le sue procedure di decisione democratica sui diritti del singolo e della collettività.
L’agricoltura urbana per funzionare al meglio da un lato deve costituire una rete, e non una serie di punti scollegati, poi si deve legare strettamente sia alla produzione non urbana che alla rete distributiva. Nel caso dei pollai domestici l’urbanistica ha affrontato il tema in modo abbastanza classico, ripercorrendo a ritroso le norme sanitarie che dal primo ‘900 avevano tendenzialmente escluso la presenza di animali da allevamento in città (in alcune situazioni di emergenza si sta cercando addirittura di programmare il numero dei cani da compagnia). E per la distribuzione ad esempio moltissime amministrazioni locali hanno escluso la rete commerciale, consentendo autoconsumo e cessione gratuita delle uova, di solito niente consumo di carni.
La questione si fa molto più complessa invece se davvero si vogliono innestare processi di trasformazione urbana più profondi e duraturi. Distribuzione commerciale nella logica di chilometro zero sta a significare rete integrata fra produzione e consumo, ovvero punti di vendita. Una delle soluzioni con gli orti urbani è quella delle consegne settimanali a domicilio, ma questo esclude il ruolo sociale degli spazi commerciali, tanto importante da aver di fatto disegnato la forma delle nostre città nei secoli. Emerge così il modello farmer’s market che unisce elementi di efficienza moderna alla relativa vicinanza e relazione diretta con spazi e modi di produzione agricola, ma a differenza dell’ormai consolidato (e stramaledetto, per inciso) modello del centro commerciale suburbano segregato in un’area monofunzionale, il mercato contadino si vuole proprio al centro della vita del quartiere. Questo richiede di ripensare a fondo gli spazi e le loro relazioni, nonché di convincere gli abitanti in qualche modo a cambiare stile di vita, a rinunciare ad esempio all’ipnotico sogno suburbano della casa con giardino, in una zona enorme dove ci sono solo ed esclusivamente altre case con giardino, meglio se piuttosto distanti l’una dall’altra. Insomma la procedura urbanistica c’è, ma non è certo facile cambiare contemporaneamente anche la testa delle persone, insegnare che non basta sedersi al tavolo e ordinare, senza chiedersi cosa c’è dietro.