Piccolo Manuale della Guerriglia Urbana di Carlos Marighella a fine anni ’60 spiegava che «Avere il territorio come alleato vuol dire saper usare con intelligenza le sue irregolarità, i suoi punti alti e bassi, le sue curve, i suoi passaggi fissi e segreti, le zone abbandonate, le sue alture, ecc. traendo il massimo da tutto questo per il vantaggio delle azioni». Ma se è vero che la storia prima si esprime in tragedia e poi in farsa, non è altrettanto garantito che lo scontro sul territorio che si svolge di questi tempi fra città tradizionale e agricoltura, usando più o meno il medesimo contesto e obiettivi, sia davvero una farsa.
L’approccio del cosiddetto guerrilla-gardening sta a definire tutte le pratiche di coltura non ufficialmente autorizzate dalle amministrazioni municipali, il che significa un ampio spettro di iniziative, eventi, spazi, tempi e soggetti. Non molto tempo fa i giornali locali londinesi raccontavano per esempio le peregrinazioni di qualche pubblicitario precario da un punto all’altro della città a curare gli improbabili angolini scelti allo scopo, o la vita notturna sui tetti di segretarie e bariste, non a caccia della tintarella di luna, ma solo per curare l’orto, trascurato durante il lavoro di giorno. Per tutti questi improbabili ma simpatici combattenti del nuovo secolo, il premio sarà probabilmente la gloria imperitura nella cultura underground, oltre al sapore aspro ma sicuramente genuino dello scarsissimo raccolto.
Una guerriglia sotterranea, certo più aspra del giardinaggio illegale e forse non meno tragica di quella ispirata da motivazioni politiche, si svolge ogni giorno negli ambienti urbani dello slum terzomondiale, sempre più vasto man mano quantità crescenti di popolazione si spostano dalle campagne in cerca di migliori occasioni. Spesso questi grandi quartieri sono presentati dalla stampa in forma di minaccioso gigantesco brulicare, o dalle statistiche economiche o sanitarie in quanto problemi la cui soluzione si avvicina o si allontana a seconda dei punti di vista. Ma è proprio vero che la città è fatta dalla gente, e che la gente in questo inedito crogiuolo di spazi e popolazione del terzo millennio fa dell’innovazione la vera risorsa. Sta qui, volente o nolente, la città del futuro, sepolta fra le aspirazioni di alcuni e le frustrazioni di altri. La guerra quotidiana per emergere o semplicemente sopravvivere, probabilmente non sfocerà in una specie di fotocopia dello sviluppo urbano occidentale a cavallo fra XIX e XX secolo, ma in qualcosa di sicuramente molto diverso.
Nella baraccopoli dei paesi in via di sviluppo così come nelle opulente e vecchie città occidentali, il tema all’ordine del giorno comune è comunque la sostenibilità: ambientale, energetica, economica, sociale. La crescita dei consumi individuali determinata dall’urbanizzazione da un lato, l’opulenza ormai storica dagli stili di vita dall’altro, rendono urgente ripensare in modo radicale la forma della città e il modo di usarne le varie risorse. Visto che, tra parentesi, la scelta della grande migrazione suburbana, e/o la costruzione di insediamenti nuovi su misura per esigenze mutevoli, pare non più praticabile.
La legge sulle Città Sostenibili approvata a suo tempo dall’amministrazione britannica laburista, tra le altre cose metteva al centro dell’attenzione la capacità relativa di resilienza socioeconomica dei centri urbani. Ma obiettivi di ampio respiro del genere spesso si scontrano sia con l’evoluzione di singoli elementi costitutivi in modo da mettere in crisi l’impianto, sia con la discontinuità politica delle amministrazioni. Ad esempio la sola campagna contro le città-clone (ovvero in balia di pochi grandi operatori economici, generalmente commercial-immobiliari) per un recupero della vitalità locale richiede da un lato costante pressione del governo centrale, ad esempio con decreti attuativi e politiche di sostegno, dall’altro un forte decentramento di poteri alle comunità locali, rappresentative dirette dei piccoli interessi che si vorrebbero sostenere. Solo così l’integrazione fra aspetti ambientali, energetici, socioeconomici e di abitabilità può uscire dall’iper-uranio delle pie intenzioni o delle sole affermazioni di principio.
Se guardiamo da qualunque lato l’idea di città sostenibile, con la sua dose di complessità, integrazione, fisiologici conflitti e anche scontri (la guerriglia per gli orti un ottimo esempio, ma ce ne sono tanti altri), emerge se non altro una certezza: i quartierini di tendenza popolati dalla creative class da soli non ci porteranno da nessuna parte. Forse possono servire a qualche operazione di rinnovo immobiliare, o di rilancio economico di piccole dimensioni e breve respiro. Oltre questa dimensione, possono essere solo una teoria/farsa utile a chi la predica nei convegni, oppure il fiore all’occhiello di qualche amministratore locale più attento alla carriera che agli interessi della città.
Ma se è vero che l’ambiente urbano del terzo millennio si alimenta di tante cose, ben vengano senza esagerare anche i giovanotti e le ragazzotte di bell’aspetto e formazione superiore. I quartieri centrali si gentrificano secondo caratteristiche ben precise, variabili a seconda dei contesti locali, ma si riassumono in due punti: localizzazione molto centrale nell’area metropolitana; densità medio-alta. Il resto, ovvero quanto poi viene spesso descritto nei testi più divulgativi e giornalistici, deriva dall’offerta di ambienti residenziali, di servizi, divertimenti, eventuali posti di lavoro e infrastrutture. Un fatto è certo, ovvero che se l’economia della conoscenza avrà un ruolo sempre più importante, e se esiste un rapporto diretto fra centralità e livello di istruzione, allora non c’è più nessun dubbio. Su cosa? Ma sul fatto che i cantori del neo-suburbanesimo e via dicendo non ce la raccontano tutta, per esempio sulla guerriglia suburbana che sta poderosamente crescendo. Si potrebbe dire, ma questa è un’altra storia, e invece ahimè è la stessa.