«Ma allora dove sei?» mi urla ridacchiando il camionista dal finestrino, rallentando fino ad affiancarsi alla bicicletta e in pratica bloccando il traffico. Gli ridacchio sul muso a titolo di risposta automatica, e solo mentre si allontana, tra i colpi di clacson delle auto impazienti, finalmente capisco a cosa diavolo si riferisse: è la scritta sul dorso della mia maglietta, e chi se la ricordava più: Io (non) Sono Qui. Slogan nazionalpopolare avanguardista che accompagnava una decina d’anni fa la mostra dove l’ho comprata. Primo capitolo del progetto Estetica dei Non Luoghi, di Omar Calabrese, la mostra dall’autoironico (sperabilmente) titolo Hic Sunt Leones, curata in collaborazione con Maurizio Bettini, proponeva «proiezioni di mappe di non-luoghi, mappe di territori inesistenti, della fantasia, carte immaginarie di luoghi fantastici dal mito di Atlantide all’Isola del Tesoro di Stevenson, dalla Nova Atlantys di Francis Bacon alle Terre di Mezzo di Tolkien. Hic Sunt Leones era l’indicazione utilizzata dai Romani sulle mappe per indicare i limiti della loro conoscenza. Oltre i territori esplorati, oltre quella linea c’erano i leoni, belve feroci, le terrae incognitae , sconosciute e dunque pericolose. Prima di quei limiti l’uomo si fermava, ma la sua immaginazione procedeva».
Così recitava il pieghevole distribuito all’ingresso, in un angolo del surreale centro commerciale dove era stata allestita l’esposizione. Poi, il visitatore si ritrovava a passeggiare in un ambiente nudo relativamente piccolo, dove su pareti bianche erano proiettate varie immagini, e interviste a «grandi studiosi del panorama culturale nazionale». Ma quella scritta della maglietta in vendita di fianco all’ingresso, quel Io (non) Sono Qui che cita certe cartoline illustrate, ne ribaltava il senso in più di una direzione, perché il visitatore della mostra sui non-luoghi dentro il non-luogo ci stava anche da molto prima di intravedere l’ingresso: è un altro il panorama che conta. Non era certo la pur acuta osservazione di un Umberto Eco proiettato sulle pareti bianche, a dare il senso vero al tutto, ma i chilometri quadrati di ottimo terreno inopinatamente strappato all’agricoltura da tutto il coacervo di interessi reali o virtuali munifici sponsor della mostra e di tutta la galassia di territorio vetrocementato che la conteneva.
I veri appassionati del surreale, che comprassero o meno la T-shirt, avrebbero dovuto coerentemente considerare quel minimo spazio espositivo e le sue pur interessanti suggestioni, in quanto scintillante e denso sgabuzzino, annesso al più grande universo della neoscatolonia sparpagliata che lo conteneva. Ovvero il centro commerciale Le Acciaierie inaugurato in pompa magna con concerto gratuito dei Cugini di Campagna (altre braccia inopinatamante strappate) fra le ultime nevi dell’inverno 2005. Di cui subito si mormorava, fra gli addetti ai lavori, una incipiente crisi per eccesso di azzardo nel posare un tale gigantesco complesso retailtainment nelle (ex) solitudini dell’alta pianura bergamasca: tra il Serio, il Faceto e l’Oglio tagliati dal serpentone allora in fase preliminare di realizzazione della mitica Bre.Be.Mi. Pur crisi c’era (in effetti vedere parcheggi semivuoti anche nei fine settimana in genere fa pensare) non sembrava certo riguardare l’idea di «modernità» sottesa al reticolo di strade steso a collegare un non-luogo all’altro. Non-luoghi che non hanno mai avuto neppure bisogno di intellettuali parlanti per qualificarsi come tali: crocicchi di strade «I Went Down To The Crossroads» che ripartono verso le quattro sacre direzioni, verso altri crocicchi, ecc. Quando si dice l’arte diffusa sul territorio!
A ridimensionare il senso di vuoto che poteva come può cogliere l’osservatore spaesato, ad avvicinargli l’orizzonte in forma divulgativa, ci pensano sempre più quei bei pezzettoni di cemento granigliato che spuntano rigogliosi dalla pianura, forse per conferire un senso a quelle strade, vista l’assenza di altra funzione ragionevole. Impagabile ad esempio, un paio di chilometri a sud del centro commerciale, lungo uno dei nastri d’asfalto lunare, la barriera antirumore che spunta orribile e incongrua da un prato, inspiegabile in un ambiente del genere. Ma basta dare un’occhiata dietro e si scoprono mucche da latte, molto sensibili (sia le mucche che soprattutto il latte) al rumore delle auto in transito dai luoghi ai non-luoghi. I semiologi parlanti proiettati sulle pareti della mostra, non sfigurerebbero certo sia sui pannelli antirumore che direttamente sulla pezzatura delle vacche da quote latte.
Io (non) Sono Qui, sono solo di passaggio, magari I’m a Passenger per dirla con Iggy Pop, solo in transito, per vedere una mostra dove brillanti intellettuali, sostenuti dai Fratelli Pedroni, dalla Regione Lombardia assessorato Culture Identità e Autonomie, ecc. sembrano far di tutto per farci dimenticare nel buio della sala proiezioni quello che appare abbastanza evidente nella luce del sole: il fatto che i non-luoghi sono anche (e qui soprattutto) una variante della privatizzazione dello spazio pubblico. Hic Sunt Peones, nell’universo della Bre.Be.Mi.