Come sappiamo pur un po’ confusamente tutti la questione «consumo di suolo» fa organicamente parte di una serie di determinanti energetico-ambientali da inserire da subito dentro qualunque programma di risparmio di risorse per arginare il cambiamento climatico e i suoi peggiori effetti sulla nostra civiltà. E oltre la declinazione filosofica che certo va benissimo, ma al tempo stesso finisce per confondere un po’ di tutto dentro la questione, dal land grabbing agroindustriale alle puntuali spesso indebite semplici impermeabilizzazioni, ciò che conta di più è la qualità del territorio urbanizzato. Perché urbanizzare, ovvero in qualche misura antropizzare, si deve per forza viste tutte le tendenze rilevate dagli organismi scientifici mondiali più accreditati: ma sono i modi di questa urbanizzazione che non possono essere lasciati al caso e neppure a quella apparentemente giusta e indiscutibile declinazione del «mercato di risposta ai bisogni reali». Troppo distorti e deviati da un secolo e passa di decentramento-suburbanizzazione indotti e sostenuti nella logica consumista allargata.
Ha quindi senso almeno provare a contrastare questa «domanda sbagliata di urbanità» delineando per quello che sono gli scenari della dispersione che ci attenderebbero continuando imperterriti nell’attuale business as usual perseguito anche da tante politiche pubbliche territoriali socioeconomiche e tecnologiche. Per il contenimento delle emissioni si è fissato grosso modo alla metà di questo secolo il traguardo, e forse vale la pena ricostruire lì anche il futuro dell’urbanizzazione. Che se segue le tendenze attuali col normale e prevedibile incremento demografico da varie fonti (inclusa per esempio quella stessa dei profughi climatici da altre aree) si sarà fatta del tutto insostenibile. La fame dei costruttori immobiliaristi e altri che campano dei consumi suburbani diretti o indotti si sarà mangiata anche tutte le più ampie e generose previsioni edilizie dei piani regolatori e toccherà redigerne degli altri alle varie scale obliterando superfici agricole e naturali «altrimenti non si cresce più». E anche là dove non si verifica una vera e propria urbanizzazione dispersa se ne pongono le premesse aumentando la popolazione delle zone esurbane-rurali.
Spesso si ritiene che comunque l’urbanizzazione nel suo insieme (ovviamente a partire dall’edilizia sempre incentivata) crei sviluppo economico, al punto da farla definire da qualcuno lo «sviluppo del territorio» giocando anche sul doppio senso del termine development. Ma va detto che solo per cominciare gli studi rilevano come si tratti per principio di creare settori e posti di lavoro di bassa qualificazione, tecnologia organizzazione e salari. Mentre le fasce ad elevato valore aggiunto continueranno a collocarsi economicamente dove si sono sempre collocate ovvero nella downtown monofunzionale e segregata degli uffici dei grattacieli che fa puntualmente da contraltare allo sprawl di villette e centri commerciali regionale. Nè pare che il lavoro a distanza, del resto creato proprio per rispondere ai problemi dell’insediamento disperso e funzionalmente segregato, abbia in qualche modo alterato le dinamiche classiche del pendolarismo degli ingorghi della domanda di infrastrutture che lo sprawl lo alimentano invece di contrastarlo. Al massimo sostituendo un problema all’altro, come gli ingorghi dei furgoni da commercio online invece delle auto dei pendolari quotidiani.
Gli impatti sociali e ambientali della dispersione o sprawl o città diffusa o infinita che dir si voglia sono ben noti e studiati. Moltiplica il disagio della localizzazione remota da tutto il resto, rendendo complesso raggiungere una funzione dall’altra e penalizzando chi ha meno mezzi di comunicazione e spostamento. Ciò vale per il lavoro, l’istruzione, il tempo libero, la fruizione dei servizi, l’accesso a veri e propri diritti come sono la salute, le relazioni, la natura flora fauna non troppo «addomesticate» come nell’ambiente urbano per quanto a bassa e bassissima densità. Ne derivano addirittura patologie croniche collettive sia fisiche che psicologiche. Contrastabili solo con l’uso e il possesso dell’auto privata che però come noto crea poi tutti i presupposti di inquinamento e nuova urbanizzazione che per così dire chiudono il cerchio. Più dispersione più problemi di disagio più auto per affrontarli e più problemi più urbanizzazione dispersa …
Uno dei fattori strumentali per valutare questa scarsa qualità sociale della dispersione è lo stesso valore immobiliare degli edifici che la compongono, ovvero il prodotto del famoso americano «drive till you qualify», ovvero allontanati dalla città vera e propria finché non trovi qualcosa di abbordabile alle tue condizioni economiche. Il valore della casa è funzione della sua posizione sul territorio oltre che del tipo di edificio, e naturalmente della domanda per abitarci. Una casa con un prezzo più alto significa buona localizzazione e ottima disponibilità per andarci eventualmente ad abitare. Ecco: tutto questo nello sprawl vale meno per unità di quanto non avvenga nella città sedimentata e in genere più densa e multifunzionale. Case che si trovano lontane da posti di lavoro e servizi, su superfici a loro volta di valore inferiore indipendentemente da quello della casa che ci sta sopra, perché più difficili da raggiungere e servire: case economicamente accessibili solo perché bisogna fare più chilometri per andarci e quindi il costo di quegli spostamenti (per fare qualunque cosa non sia abitare in senso stretto) le rende assai meno economiche. Calcolando su un’automobile i costi del veicolo finiscono per ribilanciare tutti i risparmi sulla casa, a volte anche al netto delle altre spese accessorie da distanza e tipologia edilizia.
Dispersione urbana per sua natura e forma è impatto e degrado ambientale già in partenza e indipendentemente da emissioni o inquinamento delle auto. Che certo per il futuro potrà essere migliorato grazie alla introduzione dei veicoli elettrici che lentamente si sostituiscono a quelli tradizionali a carburante fossile, spostando il problema-soluzione specifico alle fonti energetiche di quell’elettricità. Ma resta che i veicoli, specie quelli privati e familiari, nella dispersione percorrono molti molti più chilometri, e quindi necessariamente hanno molti più impatti, in assoluto e pro capite. Le stesse basi indispensabili dell’urbanizzazione, ovvero quelle infrastrutture che la politica conservatrice del business as usual continua a usare come teste d’ariete per promuovere quella sprecona consumistica forma insediativa, sono più costose perché servono maggiori superfici relative: movimenti terra, opere di sostegno e reti tecniche, elettricità, gas, fogne, telecomunicazioni, organizzazioni di carreggiate e percorsi; meno invece ma senza controbilanciare i costi generali pesano invece quei servizi pubblici che necessitano di terreni, come scuole giardini ambulatori ecc.
Si diceva che in sostanza, certo escludendo una politica pubblica che lascia allo spontaneismo non regolato dello sviluppo territoriale il compito di improvvisare le forme dell’urbanizzazione dispersa, occorrono piani regolatori alle varie scale per predisporre quel tipo di territorio e società. Varianti che trasformano in sostanza superfici naturali o agricole in aree edificabili, campi in lottizzazioni, boschi estesi frammentati in giardini pubblici o privati, un sistema di biodiversità comunque ulteriormente ridotta anche rispetto alle forme più impattanti di agro-industria estensiva. Esistono poi i tempi di quella trasformazione da estrema periferia da mettere in conto, ovvero il lungo a volte lunghissimo periodo che la trasformazione suburbana completa richiede, lasciando in sospeso modi e tempi di esistenza di individui e famiglie. Anche là dove una parte della mobilità può essere servita com mezzi diversi dall’auto privata per tutti ci vogliono parecchi anni per realizzare una rete di autobus e insieme le mete che essi raggiungono (scuole servizi sanitari ecc.). E solo alla fine di questo tempo il territorio della dispersione inizia in qualche modo ad assumere le forme fisiche e sociali del paese-villaggio cosiddetto «a misura d’uomo» che molta pubblicistica auspica nel promuoverlo come crescita urbana. Lo stesso vale per i tempi necessariamente abbastanza lunghi della riconversione tecnologica ed energetica dei veicoli, elettrici driverless o comunque a basse emissioni. Fermi restando tutti gli altri limiti sociali e ambientali dell’urbanizzazione dispersa riassunti sopra naturalmente. Diffidate di chi ve la propone come «ciò che vuole la gente e che può essere sostenibile».
Per un maggiore approfondimento contestuale e di caso (peraltro là dove problemi di spazio territoriale parrebbero non essercene affatto e invece si avvertono eccome), nonché utile comparazione quanti-qualitativa di diversi scenari, vedi: Infrastructure Victoria, Australia, Resources (rapporti 19 ottobre 2023)