I gradi della partecipazione urbana (1969)

L’accesa controversia sulla partecipazione dei cittadini, o controllo dei cittadini sulle decisioni, o il massimo coinvolgimento possibile dei più poveri, si esprime soprattutto in termini di estremismo retorico e fuorvianti eufemismi. Per promuovere una discussione più avanzata qui si propone la partecipazione dei cittadini utilizzando esempi tratti da tre programmi sociali federali: quelli per la Riqualificazione Urbana, il piano Anti-Povertà, e Model Cities. Volutamente provocatoria, la prospettiva sulla partecipazione si articola per gradi successivi, ogni livello corrispondente a un diverso potere del cittadino di condizionare un piano o programma.

La partecipazione dei cittadini è un po’ come il mangiare gli spinaci: nessuno si dice contrario in termini di principio dato che fa indubbiamente bene. Che chi è governato partecipi del proprio governo, in teoria, rappresenta la pietra angolare di una democrazia, concetto riverito e acclamato decisamente da chiunque. Gli applausi scroscianti si riducono però a un semplice educato battere di mani, quando il medesimo principio viene rivendicato da neri poveri, messicani naturalizzati, portoricani, indiani, eschimesi, bianchi poveri. E quando queste fasce sociali prive di potere evocano una partecipazione che sia redistribuzione di potere, il consenso americano su quei principi fondamentali esplode in una miriade di obiezioni ed opposizioni razziali, etniche, ideologiche e politiche. Ci sono state negli ultimi tempi parecchie dichiarazioni, e articoli, e libri, a chiarirci sin nei dettagli chi siano i cittadini privi di potere del nostro tempo. E di recente si è aggiunta la documentazione sul perché, questi have-not si sentano così discriminati e insultati da questa assenza di potere per riuscire ad affrontare le profonde ingiustizie e diseguaglianze della propria vita quotidiana. Non si è però analizzato a sufficienza il senso dei due slogan contrapposti: «partecipazione dei cittadini» contro «massimo livello di partecipazione praticabile». In breve: cos’è questa partecipazione dei cittadini, e come si rapporta agli imperativi sociali del nostro tempo?

Partecipazione è potere

Dato che la questione è oggetto di arroventato contendere politico, molte delle risposte sono state ridotte a innocui eufemismi tra cui self help o «coinvolgimento del cittadino». Altri hanno ammantato il tutto di fuorviante retorica parlando di «controllo assoluto», prerogativa di nessun altro che non sia il Presidente degli Stati Uniti. A mezza strada tra modesti eufemismi e retorica esasperata, anche gli studiosi faticano a seguire gli sviluppi della controversia. Per chi segue sulla stampa il tutto appare semplicemente sconcertante. La mia personale risposta a cosa sia la partecipazione dei cittadini è che si tratta semplicemente di una categoria di esercizio del potere. La redistribuzione di questo potere consente ai cittadini have-not che ne sono oggi privi, esclusi dai processi economici e politici, di esserne consapevolmente inclusi in futuro. È la strategia attraverso cui chi non ha potere inizia a contribuire al modo in cui si condividono informazioni, si fissano obiettivi e percorsi, si stabiliscono tasse e distribuiscono risorse, attuano piani, si gestiscono contratti e promozioni. In breve, il modo in cui si può indurre una riforma sociale tale da consentire a tutti di godere i vantaggi dellopulenza.

DALLA RITUALITÀ FORMALE AL VERO PROGRESSO

Esiste una differenza sostanziale tra la pratica di una vuota ritualità di partecipazione ed esercizio reale di potere per influenzare i processi. Una differenza brillantemente sintetizzata in un manifesto realizzato la scorsa primavera da un gruppo di studenti francesi per raccontare la ribellione giovanile-operaia. Il manifesto sottolinea l’aspetto fondamentale, che partecipazione senza redistribuzione di potere è qualcosa di vuoto e frustrante, consente a chi il potere se lo tiene stretto di affermare di aver consultato tutti, mentre avvantaggia soltanto pochi. Un modo per conservare lo status quo. E si tratta essenzialmente si quanto avvenuto nella maggior parte dei 1.000 processi partecipativi dei Community Action Programs, e promette di ripetersi coi prossimi 150 di Model Cities.

Tipologie di Partecipazione e Non-partecipazione

Una schematizzazione per otto livelli contribuisce ad analizzare questa piuttosto confusa questione. A titolo illustrativo pensiamo queste otto tipologie come una scala, in cui a ciascun gradino corrisponde un certo potere dei cittadini nel determinare il risultato finale delle decisioni. I due gradini più bassi sono (1) Manipolazione e (2) Terapia. Due livelli di «non-partecipazione» espressamente concepiti a sostituire quella vera e propria. E il cui reale obiettivo non è certo di consentire alle persone di partecipare a piani e programmi, ma lasciare che chi detiene il potere possa «educarli» e «sanare» il sintomo. I livelli 3 e 4 arrivano rispettivamente alla concessione simbolica in cui chi non ha potere inizia sia ad ascoltare che ad esprimersi, ovvero a (3) Informazione e (4) Consultazione. Quando chi detiene il potere offre a chi non ne ha queste cose, senza partecipazione completa, almeno si può sapere e farsi ascoltare. Ma è è anche una situazione in cui manca la possibilità di imporlo,il proprio punto di vista. Con una partecipazione ristretta a questi livelli non c’è propulsività, «forza», per cambiare lo status quo. E il gradino (5) Conciliazione rappresenta semplicemente un livello più elevato di concessione simbolica, visto che le regole danno a chi non detiene potere la possibilità di dare un contributo, mentre chi decide è sempre lo stesso. Salendo ancora la scala arriviamo a più poteri per il cittadino nelle decisioni. Si può operare in (6) Partnership e trattare con chi detiene il potere. In cima troviamo i livelli più alti (7) Poteri Delegati e ( 8 ) Controllo dei Cittadini in cui gli ex have-not assumono un autentico potere di decisione e gestione.

Ovviamente questo schema per otto livelli è una semplificazione, ma aiuta a illustrare un tema poco chiaro, quello della graduazione del potere ai cittadini. Sapere che esistono dei livelli rende possibile superare le iperboli, e capire meglio vuoi la sempre più acuta richiesta di partecipazione, vuoi il gioco a confondere di chi detiene il potere. Si tratta di una tipizzazione che deriva da esempi dei programmi federali come quelli sulla Riqualificazione Urbana, Anti-Povertà e Model Cities; ma si potrebbe facilmente applicare anche a quanto sta succedendo nella Chiesa, dove si verificano domande di più potere dei preti o dei laici per cambiare; o nelle scuole superiori e università, in cui la faccenda è diventata un vero e proprio campo di battaglia per gli studenti; vale in generale per mondo dell’istruzione, amministrazioni locali, forze dell’ordine (e forse addirittura per le grandi aziende che potrebbero essere il prossimo campo di espansione). Tema di fondo comune, la presenza di «signori nessuno» in vari ambiti che cercano di diventare «qualcuno» dotato di potere sufficiente per esprimere punti di vista, aspirazioni, bisogni.

LIMITI DELLA TIPIZZAZIONE

La scala graduata accomuna cittadini senza potere e con potere per evidenziare le differenze tra gli uni e gli altri. Ma nella realtà potenti e have-not non sono affatto blocchi contrapposti così separati e omogenei. Dentro a ciascun gruppo esiste una serie di punti di vista divergenti, divisioni significative, interessi consolidati in concorrenza, frammentati sottogruppi. Schematizzare così astraendo si giustifica col fatto che in gran parte dei casi chi non ha potere percepisce davvero chi ne ha come «sistema» monolitico, e i potenti guardano al resto dei cittadini come «quegli altri», senza comprenderne le differenze anche profonde di classe e ceto. Si noti che la tipizzazione non comprende una analisi degli ostacoli principali per raggiungere una vera partecipazione. Ostacoli che si trovano su entrambi i lati della semplificata staccionata a dividere i due campi. Sul versante dei potenti ci sono razzismo, paternalismo, resistenza a una redistribuzione del potere. Su quello degli have-not ci sono culture e conoscenze inadeguate della struttura socioeconomica, difficoltà organizzative e di rappresentanza dei vari gruppi di cittadini, superamento della demotivazione, frustrazione, sfiducia.

Altra cautela da prendere rispetto a quegli otto gradini della scala è: nel mondo reale ce ne potrebbero anche essere 150, di diversi livelli, e assai meno netti nelle distinzioni. In più, alcuni dei caratteri utilizzati nell’illustrare ciascuna delle tipologie si possono benissimo applicare anche agli altri gradini. Ad esempio l’utilizzare in qualche modo cittadini delle fasce prive di potere decisionale dentro un programma o in un gruppo tecnico di lavoro è cosa che può avvenire in uno qualunque degli otto livelli, ed essere quindi proposto come elemento tipico, legittimo o illegittimo, di partecipazione. A seconda delle motivazioni che li animano, i detentori del potere possono coinvolgere chi non ne ha a scopo di cooptazione, mitigazione, sfruttamento di particolari capacità e competenze. Alcuni sindaci addirittura si vantano in privato di ingaggiare esponenti della comunità nera al solo scopo di distruggerne la credibilità di fronte ai concittadini della comunità.

Con tutte queste premesse di seguito vengono illustrati casi e caratteristiche derivati dai citati programmi federali in corso.

1 – MANIPOLAZIONE

In nome della partecipazione dei cittadini, li si inserisce in organismi e comitati di consultazione, allo scopo di «educarli» e orientarne il consenso. Invece di una autentica partecipazione questo primo gradino della scala mostra distorsione in strumento di pubbliche relazioni gestito da chi decide. Si tratta di una forma partecipativa illusoria, emersa per la prima volta quando coi programmi di riqualificazione Urban Renewal vennero invitati alcuni esponenti della cittadinanza nei Citizen Advisory Committees (CACs). Manipolazione era anche quella delle sottocommissioni sulle minoranze, formalmente destinate a tutelare i diritti dei Neri dentro i programmi di riqualificazione. In pratica, queste sottocommissioni, al pari delle analoghe CACs, fungono soprattutto da formale carta intestata a sancire la correttezza dei programmi di riqualificazione (che qualcuno chiamava Negro removal plans). Alle riunioni dei Citizen Advisory Committees, sono i funzionari pubblici a educare, convincere, e rapportarsi ai cittadini, non viceversa. Le linee guida federali sui piani di riqualificazione legittimano questo metodo di manipolazione definendolo «raccolta di informazioni» oppure «relazioni col pubblico», e di sostegno all’operato della commissione.

Questo stile di non-partecipazione si applica anche ai programmi contro la povertà. Se ne trovano degli esempi nelle Community Action Agencies (CAAs) dover sono state create strutture dette «consigli di quartiere» o anche «gruppi consultivi di quartiere». Organismi spesso del tutto privi di funzioni e poteri utilizzati dalle CAAs per dimostrare che «la base» viene coinvolta nei programmi. Mentre i programmi non sono sempre discussi con «la gente». Oppure vengono presentati a qualche incontro in termini assai generali, del tipo: «Vorremmo la vostra firma sul progetto di un centro multiservizi che possa ospitare in una unica struttura medici del settore sanità, operatori sei servizi sociali, specialisti del mercato del lavoro».

Chi firma non viene informato che quel centro del costo di 2 milioni di dollari l’anno per gli abitanti non cambierà affatto le cose, per esempio le code per gli utenti, rispetto agli uffici sparsi per la città. Perché nessuno si è informato prima su quali erano le esigenze, i bisogni a cui rispondere nel quartiere. Nessuno sa che il costruttore di quell’edificio è un parente del sindaco, né che il nuovo direttore del multiservizi sarà la stessa persona che ha gestito la non-partecipazione per l’agenzia di riqualificazione urbana. Dopo aver firmato, gli orgogliosi cittadini vanno in giro a raccontare di aver «partecipato» alla realizzazione di quel nuovo centro di quartiere che offrirà preziosi posti di lavoro locali e servizi sociali. Solo dopo la cerimonia del taglio del nastro in quartiere si capirà di non aver chiesto le cose più importanti, di non aver avuto buoni consigli operativi e legali per capire cosa si andava a fare. Il nuovo centro, aperto dalle 9.00 alle 17.00 nei giorni feriali, crea problemi invece di risolverne. I vecchi uffici sparsi in città non accettano più gli abitanti del quartiere ai loro sportelli se non si presenta un certificato rilasciato dal «loro» ufficio nuovo fiammante.

Purtroppo questo genere di trucchetti legali non è un caso unico. Anzi è caratteristico di tutto ciò che è stato fatto nel nome della retorica di «partecipazione di base». Una finzione che ha prodotto quella esasperata ostilità degli have-not verso chi ha il potere di decidere. Una nota di speranza sta invece nel fatto che, così spudoratamente presi in giro, alcuni cittadini abbiano capito l’antifona, imparando a usare un metodo più adeguato. E oggi chiedano nuovi livelli di vera partecipazione, così che i programmi pubblici possano davvero rispondere ai loro bisogni e priorità.

2 – TERAPIA

Da un certo punto di vista, la terapia di gruppo mascherata da partecipazione dei cittadini, potrebbe essere classificata come il livello più basso della scala, dato che è sia disonesta che arrogante. Chi la pratica, dagli esperti di salute mentale agli psichiatri, ritiene che assenza di potere corrisponda a disagio psicologico. A partire da questo assunto, dietro la maschera del coinvolgimento nella programmazione, questi operatori sviluppano in realtà una terapia clinica di gruppo. Ciò che rende questa forma di «partecipazione» così detestabile, è che i cittadini vengano impegnati in molte attività, ma allo scopo di curarli della loro «patologia» anziché cambiare qualcosa al razzismo e vittimismo che l’hanno creata. Ricordiamo il caso di un incidente avvenuto in Pennsylvania meno di un anno fa. Con un padre che portava il figlio in gravi condizioni al pronto soccorso di un ospedale, per sentirsi dire dal giovane medico di turno che bastava riportarlo a casa e dargli un po’ di acqua zuccherata. Il bambino moriva quello stesso pomeriggio, di polmonite e disidratazione. Il padre profondamente scosso protestava alla Community Action Agency locale. Ma invece di procedere con una inchiesta sull’ospedale per verificare eventuali cambiamenti organizzativi a evitare il ripetersi di questi casi, si invitava il padre a partecipare ai corsi (terapie) di cura dei bambini tenuti dalla stessa CAA, promettendogli che «qualcuno magari chiamerà il direttore dell’ospedale così che non succeda più».

Esempi meno drammatici ma assai più comuni di terapia mascherata da partecipazione dei cittadini, si trovano nell’attuazioni di programmi per l’edilizia pubblica, con le associazioni di inquilini utilizzate come veicolo promozionale delle campagne sul controllo dei minori. Si riuniscono gli inquilini per far sì che «adeguino i propri valori e atteggiamenti a quelli della società più in generale». E a partire da questa base li si pilota lontano da questioni più importanti come gli sfratti arbitrari, la segregazione nei complessi edilizi, i tempi infiniti delle manutenzioni anche banali come un vetro rotto d’inverno. La complessità del concetto di disagio mentale dei nostri tempi è leggibile nelle esperienze di studenti o militanti dei diritti civili di fronte ai gruppi armati di pistole o fruste che terrorizzano il Sud. E c’è bisogno di psichiatri con sensibilità sociale a gestire queste paure ed evitare la paranoia.

3 – INFORMAZIONE

Informare i cittadini sui loro diritti, responsabilità, possibilità di scelta, è un primo importante passo per avviarsi vero una legittima partecipazione. Ma troppo di frequente questo avviene concentrandosi troppo sul flusso di informazioni da chi decide a chi le decisioni le subisce, senza alcun canale retroattivo e nessun potere di negoziazione. In questa situazione, specie se le informazioni vengono fornite nelle fasi finali dell’attuazione di un programma, il cittadino ha pochissime possibilità di esercitare qualche influsso su ciò che «è pensato per il suo bene». Gli strumenti più utilizzati in questo genere di comunicazione unidirezionale sono stampa, altri media, opuscoli, manifesti, indagini.

Anche le assemblee possono diventare veicoli di comunicazione in un solo senso, utilizzando il banale strumento della superficialità, lasciando poco spazio alle domande, fornendo risposte irrilevanti. Poco tempo fa a un incontro urbanistico del programma Model Cities a Providence, Rhode Island, il tema erano i tot-lot [piccoli campi da gioco per bambini n.d.t.]. Un gruppo di cittadini delegati dal quartiere, impegnati in almeno tre-cinque incontro simili la settimana, discutevano per un’ora la localizzazione di quegli spazi. La zona è metà bianca, metà nera. I rappresentanti neri notavano che si mettevano quattro tot-lot nella parte dei bianchi, e solo due in quella dei neri. I rappresentanti della municipalità replicavano con una lunga relazione tecnica dettagliata, su costi al metro quadrato e disponibilità di superfici adeguate. Era lampante che molti degli abitanti non capivano affatto quella spiegazione. Così come appariva chiaro a un osservatore dello Office of Economic Opportunity, che esistevano altre possibilità di intervento, di reperimento di risorse economiche, per una migliore e più equa distribuzione di quei servizi. Ma intimoriti da tutto quel gergo tecnico-legale, dal tono degli specialisti, i cittadini accettavano la «informazione» insieme alla proposta dei quattro spazi da gioco nella zona bianca del quartiere.

4 – CONSULTAZIONE

Chiedere l’opinione dei cittadini, così come informarli, può essere un progresso verso una autentica partecipazione. Ma se il consultarli non si mescola ad altre modalità di partecipazione, questo gradino della scala resta ancora nel campo della finzione, visto che non esiste alcuna sicurezza del peso effettivo di quella consultazione. Il metodo più frequentemente utilizzato sono i sondaggi di atteggiamento, assemblee di quartiere, incontri pubblici. Quando chi decide limita solo a questi livelli il contributo dei cittadini e delle loro idee, la partecipazione è esclusivamente rituale, simbolica. Le persone sono percepite come astrazioni statistiche, e la stessa partecipazione valutata da quanti frequentano gli incontri, portano a casa un opuscolo, restituiscono un questionario compilato. Quel che guadagnano i cittadini da tutte queste attività è di aver «partecipato al processo di partecipazione». Per i decisori invece è la prova di aver coinvolto «la gente» come e quanto dovuto.

I sondaggi di atteggiamento stanno diventando un particolare oggetto di contesa nei quartieri ghetto. Gli abitanti sono sempre più a disagio sulla quantità di indagini a cui vengono sottoposti più volte la settimana, sui loro problemi e aspirazioni. Per usare le parole di una di loro: «Un sacco di dannate domande ma poi non cambia niente, salvo il fatto che l’intervistatore ha guadagnato tre dollari l’ora, e io quel giorno non ho potuto fare il bucato». In certi quartieri gli abitanti sono così infastiditi da aver chiesto di essere pagati per rispondere alle domande. Questo tipo di sondaggi non porta indicazioni valide sulle opinioni di una comunità se viene usato da solo senza altre fonti dai cittadini. Indagine dopo indagine (tutte pagate coi fondi anti-povertà) si «documenta» che le casalinghe vorrebbero nella propria zona più spazi da gioco in sicurezza per i bambini più piccoli. Ma in realtà le donne che avevano risposto a quelle domande del questionario non sanno affatto di avere quell’opinione. Gli vengono proposte domande di basso profilo, e trovano in qualche modo qualcosa che sia utile al quartiere. Se ne sapessero di più su programmi sanitari assicurativi, per esempio,magari non avrebbero messo in cima all’elenco dei desiderata quei tot-lot per bambini.

Un esempio di uso scorretto di questo livello di consultazione lo troviamo a New Haven, Connecticut, in un incontro coi cittadini su un finanziamento del programma Model Cities. James V. Cunningham, in un rapporto non pubblicato per la Ford Foundation, descrive la folla a quell’incontro «decisamente ostile»:

Appartenenti alla The Hill Parents Association chiedono di sapere perché gli abitanti non abbiano partecipato alla redazione della domanda. Il direttore CAA, Spitz, spiega che si tratta semplicemente di una proposta di finanziamento federale, e che una volta ottenuti quei fondi, la popolazione sarà coinvolta ampiamente nel progetto. Un osservatore esterno presente all’incontro lo descrive così: Spitz e Mel Adams gestivano completamente l’assemblea. Non c’era nessun rappresentante di The Hill sul palco. Spitz spiegava a 300 persone che quella gigantesca assemblea era un esempio di partecipazione urbana. E per ribadirlo, visto che era evidente l’insoddisfazione del pubblico, chiedeva di «votare sui singoli punti». E il voto avveniva così: alzate le mani se siate a favore dell’ambulatorio. Voi siete contro? Un po’ come chiedere se vogliono più bene alla mamma o al papà.

È stata questa atmosfera di sospetto e la lunga vicenda di forme simili di «partecipazione simbolica» a far chiedere poi agli abitanti di New Haven un controllo sui programmi. Per contro è utile invece citare il caso di Denver in cui i tecnici hanno imparato come anche le migliori intenzioni non contano se non si è sufficientemente aperti e sensibili ai problemi e aspirazioni dei più poveri. Il direttore operativo del programma Model Cities program ha descritto il metodo con cui i professionisti presumevano «un forte bisogno di educazione al consumo» degli abitanti, piuttosto oppressi dai prezzi dei commercianti. I residenti per parte loro ritenevano che quei negozi svolgessero un certa valida funzione sociale. Anche con quei prezzi alti, facevano credito ai clienti, davano consigli, spesso erano l’unico posto nel quartiere dove scambiare i buoni del welfare. A seguito di questo scambio di punti di vista, tecnici e abitanti hanno convenuto di sostituire al programma di educazione al consumo la creazione di indispensabili punti di credito nel quartiere.

5 – CONCILIAZIONE

Eccoci a un livello dove i cittadini iniziano ad avere una certa influenza, nonostante sia ancora evidente la simbolica concessione. Un esempio di strategia della conciliazione è quella di collocare alcuni «scelti» rappresentanti dei poveri nei consigli delle Community Action Agency o in altre commissioni pubbliche quella sull’istruzione, l’ordine pubblico, la casa. Se non riescono ad avere il sostegno esplicito di una certa parte del quartiere, se l’élite di potere mantiene comunque la maggioranza, queste persone possono essere facilmente scavalcate o raggirate. Altro esempio è invece quello dei comitati consultivi e programmatori di Model Cities. Dove si concede ai cittadini di proporre osservazioni all’infinito mantenendo però ai decisori la discrezionalità di stabilire come e quanto quelle osservazioni siano legittime. Naturalmente il grado in cui i cittadini subiscono passivamente questo processo di conciliazione dipende in gran parte da due fattori: qualità dell’assistenza tecnica nell’individuare/esprimere priorità, e capacità organizzativa comune nel proporle efficacemente.

Non sorprende che il livello di partecipazione dei cittadini in gran parte dei processi Model Cities si collochi a questo stadio della scala di partecipazione, o anche sotto. I programmatori al Department of Housing and Urban Development (HUD) paiono molto determinati a far rientrare nella sua bottiglia il genio della cittadinanza che da lì era scappato (in alcune città) a seguito dell’auspicare «la massima partecipazione possibile» nei programmi anti-povertà. Così, HUD orienta la propria azione di trasformazione e riqualificazione fisica dei quartieri degradati usando le amministrazioni locali. C’è scritto nelle norme che tutte le risorse economiche di Model Cities passino attraverso delle City Demonstration Agency (CDA) controllate dai consigli comunali. E così come stabilito dal Congresso, ciò conferisce a quei consigli un potere finale di veto su pianificazione e programmazione, influendo non poco sui rapporti diretti tra le comunità interessate e HUD.

HUD chiede alle CDA di costituire consigli di decisione e coinvolgerci rappresentanti locali per la redazione del piano fisico-sociale nel primo anno. Poi segue un quinquennio di attuazione. HUD non richiede affatto che siano presenti cittadini have-not in quegli organismi decisionali CDA. Le Performance Standards for Citizen Participation stabiliscono solo che «i cittadini hanno diritto ad accedere al processo decisionale». E così conseguentemente le CDA strutturano i propri gruppi di decisione comprendendo eletti, rappresentanti delle scuole, del settore casa, salute, servizi e occupazione, dei lavoratori, delle attività economiche. In alcuni casi anche abitanti dei quartieri. Molti sindaci interpretano ovviamente quella indicazione di HUD «diritto ad accedere al processo decisionale» come scappatoia per relegare i cittadini nella solita posizione puramente consultiva. E sono tante le CDA che creano consigli consultivi di abitanti, in percentuale allarmante con una qualifica del tutto fuorviante dato che non hanno alcuna funzione e autorità limitatissima. Qualunque CDA costituisce una decina di consigli di pianificazione o task force tematiche funzionali: salute, servizi, istruzione, casa, disoccupazione. In gran parte dei casi, i cittadini have-not vengono invitati a partecipare a questi organismi insieme ai tecnici di vari uffici, ma non mancano neppure gruppi di soli tecnici che operano in parallelo a gruppi di soli abitanti.

Nella gran parte dei programmi Model Cities si è speso tempo infinito nel comporre sistemi di gruppi, consigli, comitati tematici per la fase preliminare annuale. Senza però definire le responsabilità e poteri delle varie strutture, che rimangono ambigui. Una ambiguità che sarà fonte di notevoli conflitti sull’arco di tutto l’anno. Perché i cittadini ormai dovrebbero capirlo come siano stati ancora una volta inclusi nella «partecipazione» imposta di fatto come conciliazione dai decisori. I risultati di una ricerca (condotta nell’estate 1968 prima dell’inizio delle fasi due quinquennali di settantacinque finanziamenti) sono stati pubblicati dal Bollettino HUDnel dicembre successivo. Nonostante il linguaggio molto cauto e diplomatico, si riconosce in sostanza la criticità e ambiguità sopracitate di queste complicate strutture di partecipazione e rappresentanza; e inoltre si rileva che:

1. Nella maggior parte dei casi le CDA non hanno affatto trattato le modalità di partecipazione con gli abitanti.

2. I cittadini, sulla base di esperienze negative con gli organismi decisionali locali, hanno un atteggiamento molto sospettoso nei riguardi di questi programmi panacea. Non credono legittimamente nelle motivazioni dell’amministrazione locale.

3. Le CDA non collaborano con gruppi di cittadini davvero rappresentativi dei quartieri e che da essi hanno avuto un mandato. Come accade in tanti programmi sulla povertà, le persone coinvolte fanno parte prevalentemente di alcune fasce di lavoratori in ascesa. Che accettano di sostenere programmi predisposti dagli uffici cittadini anche se non riflettono affatto i punti di vista di disoccupati, giovani, dei più poveri o dei più radicali tra gli abitanti.

4. Chi partecipa a tre o cinque riunioni la settimana lo fa senza neppure conoscere i propri diritti, le proprie responsabilità, che possibilità di scelta ci sono nei vari programmi. Ad esempio non si è capito che è possibile rifiutare la consulenza tecnica offerta da chi non gode della loro fiducia.

5. Gran parte dell’assistenza tecnica di CDA e uffici cittadini è di bassa qualità, paternalistica, con atteggiamento di sufficienza. Ha reazioni burocratiche di fronte a qualunque spunto innovativo degli abitanti. Gli interessi consolidati degli uffici pubblici sono comunque ciò che sottotraccia guida tutto il processo.

6. Gran parte delle CDA non sviluppano programmi organici a sufficienza per affrontare davvero la questione del degrado urbano alle radici. Si fa del «riunionismo» per produrre poi del «progettismo» sfociando in una lista della lavandaia di tradizionalissimi programmi gestiti da tradizionalissimi uffici gli stessi che hanno già prodotto lo slum attuale.

7. Gli abitanti non ricevono informazioni adeguate per giudicare i progetti, né per produrne di propri come sarebbe in teoria. Nel migliore dei casi ricevono informazioni superficiali. Nel peggiore non ricevono neppure copie dei materiali ufficiali.

8. Gran parte degli abitanti non sono consapevoli del diritto al rimborso per le spese personali della partecipazione, come trasporti, babysitter, e cose del genere.

9. La formazione degli abitanti, per consentire loro di orientarsi nel labirinto statale, federale, cittadino di reti e sotto-reti, non viene quasi mai affrontata.

Tutti questi rilievi alla mancata partecipazione contribuiscono a un nuovo punto di vista di HUD. Nonostante le procedure del «secondo giro» di finanziamenti non siano cambiate, nelle ventisette pagine del Bollettino HUD si ribadisce più volte la necessità che le amministrazioni locali conferiscano più potere ai cittadini. Si suggerisce anche molto caldamente di iniziare a sperimentare l’ingaggio di consulenti tecnici di fiducia direttamente da parte degli abitanti. Più di recente lo scorso febbraio è circolato un documento di OSTI, studio privato di consulenza per la formazione e l’assistenza tecnica ai cittadini che lavora già con i programmi Model Cities nella regione del nord-est. Che conferma i risultati della ricerca di cui abbiamo già riferito aggiungendo che:

Praticamente nessuna struttura del programma Model Cities opera secondo una partecipazione intesa come autentica condivisione riconosciuta dai cittadini. Che trovano in generale impossibile influire significativamente sui piani in corso. In gran parte dei casi i tecnici CDA e degli altri uffici lasciano agli abitanti solo ruoli marginali di controllo a posteriori o approvazione formale, «timbro» su quanto già stabilito. Là dove ai cittadini viene conferita responsabilità diretta nella gestione dei programmi, il tempo concesso e le risorse tecniche messe a disposizione non sono adeguati a far molto più di un approccio tradizionale, ai problemi che si stanno cercando di risolvere. In generale, si è riflettuto molto poco su quanto necessario per consentire ai cittadini una partecipazione continuativa nelle varie fasi. Nella maggior parte dei casi si considerano gli uffici tradizionali come veri attuatori dei piani Model Cities, non sviluppando meccanismi a sostegno di innovazioni organizzative o di metodo, o facendo sì che i cittadini abbiano influenza sul lavoro attuativo degli uffici. […] In generale si continua a programmare «sulle persone» e le grandi decisioni sono assunte dal personale CDA e approvate definitivamente e formalmente dai comitati.

6 – PARTNERSHIP

A questo livello della scala di partecipazione, il potere viene effettivamente redistribuito tra decisori e cittadini attraverso la negoziazione. Si condividono le decisioni e i programmi conferendo responsabilità a organismi congiunti, comitati di piano, attivando meccanismi di risoluzione delle difficoltà. Dopo la definizione delle regole avvenuta attraverso forme di give-and-take, esse non sono soggette a cambiamenti unilaterali. La Partnership opera con efficacia quando esiste una organizzazione nella comunità e i rappresentanti rispondono del mandato; quando i gruppi di cittadini hanno le risorse finanziarie per sostenere ragionevolmente quei rappresentanti durante il tempo di lavoro; quando si possono ingaggiare e pagare (eventualmente anche licenziare) tecnici di fiducia, legali, organizzatori. Con queste componenti, i cittadini riescono davvero ad avere qualche influenza sui risultati di un programma (sempre che entrambe le parti trovino conveniente la forma della partnership). Un rappresentante delle comunità la descrive come «Andare alle riunioni col cappello in testa anziché in mano».

Nel programma Model Cities solo quindici su un totale di settantacinque programmi cittadini della cosiddetta nuova generazione hanno raggiunto questo livello di condivisione del potere con gli abitanti. In tutti i casi tranne uno ci si è arrivati per la rabbia degli abitanti, anziché su iniziativa dell’amministrazione, a negoziare i nuovi poteri condivisi. A partire dalla frustrazione di chi aveva subito le forme precedenti di finta partecipazione: uscendone sia infuriato che scaltrito, e senza alcuna intenzione di farsi turlupinare ancora. La minaccia era di opporsi a qualunque finanziamento di programma. Sono stati mandati delegati allo HUD di Washington. È stato usato un linguaggio molto duro, e le negoziazioni sono avvenute in una atmosfera di rancore e sospetto.

In gran parte dei casi la condivisione del potere è qualcosa di conquistato dai cittadini e non concesso dalle amministrazioni. In ciò non c’è nulla di nuovo: chi ha potere vuole tenerselo, e storicamente chi non ne ha deve strapparlo, non gli viene certo offerto. Un sistema di partnership funzionale è stato negoziato dagli abitanti di di un quartiere modello di Philadelphia. Come in tanti altri casi di programmi Model Cities grant, Philadelphia aveva predisposto la propria domanda di oltre 400 pagine presentandola a un’assemblea convocata molto rapidamente di rappresentanti dei cittadini. Quando è stato chiesto ai presenti il sostegno, c’è stata una rabbiosa reazione per il macato processo partecipativo nella redazione del documento. Un portavoce dei quartieri minacciava di mobilitare una protesta popolare se non si concedevano almeno un paio di settimane per studiare ed eventualmente modificare la domanda di finanziamento. L’amministrazione le ha concesse.

All’incontro successivo sono state introdotte nuove regole di partecipazione: da un ruolo consultivo dei cittadini a una decisa condivisione. La domanda di Philadelphia inoltrata allo HUD comprendeva alla lettera quegli emendamenti (comprendeva anche un nuovo capitolo introduttivo a modificare la descrizione di quartiere modello, da un approccio paternalistico a una valutazione oggettiva di punti di forza, potenzialità e difetti). Conseguentemente, il consiglio decisionale CDA di CDA è stato ricomposto assegnando cinque degli undici posti alle organizzazioni degli abitanti, al cosiddetto Area Wide Council (AWC). AWC ha ottenuto una sub-assegnazione da CDA per oltre ventimila dollari al mese, utilizzata per il mantenimento dell’organizzazione dei gruppi di quartiere, i rimborsi ai rappresentanti, in ragione di 7 dollari ad assemblea, il pagamento dei compensi ai professionisti urbanisti, organizzatori di comunità e altri contributi tecnici.

AWC può iniziare procedure di programma di propria iniziativa, partecipare in forma congiunta ai consigli CDA, emendare piani redatti dagli uffici cittadini. Ha potere di veto su progetti proposti da CDA all’amministrazione cittadina, finché non siano stati esaminati ed eventualmente rivisti. Rappresentanti di AWC (che è una federazione di organizzazioni di quartiere articolata su sedici «nodi») possono partecipare alle riunioni delle task force tematiche CDA, commissioni urbanistiche, sottocommissioni programmatiche. Anche il consiglio comunale ha un potere di veto (secondo la legge federale), ma AWC ritiene che la propria forza di rappresentanza locale sia sufficiente a negoziare su qualunque contrasto.

7 – POTERI DELEGATI

La negoziazione tra cittadini e amministrazioni pubbliche può anche portare a un processo decisionale che per alcuni piani e programmi vede la prevalenza dominane dei cittadini. Le commissioni di Model City o i comitati delegati di CAA in cui i cittadini sono in maggioranza ed esercitano autentico potere, ne sono degli esempi. È un livello della scala di partecipazione elevato a sufficienza perché gli stessi cittadini possano essere pienamente responsabili e rispondere delle decisioni che li riguardano. Per ricomporre le differenze chi esercita il potere deve cominciare sin dall’inizio un processo di negoziazione, anziché reagire a uno stimolo dall’altra parte. Un grado raggiunto in pochi casi di Model Cities, tra cui Cambridge, Massachusetts, Dayton e Columbus, Ohio, Minneapolis, Minnesota, St. Louis, Missouri, Hartford e New Haven, Connecticut, Oakland, California.

A New Haven, gli abitanti del quartiere Hill hanno costituito un ente delegato a gestire l’intero processo dei programmi Model Cities. L’amministrazione cittadina, che ha ricevuto un finanziamento di 117.000 dollari da HUD, ne ha delegati 110.000 all’ente dei cittadini che possa ingaggiare una squadra tecnica di consulenti. La Hill Neighborhood Corporation ha undici rappresentanti su ventuno nel consiglio CDA, quindi la maggioranza in caso di emendamenti al piano. Altro modello di poteri delegati è quello di operare parallelamente per gruppi di amministratori e cittadini, stabilito un diritto di veto per questi ultimi nel caso le divergenze non si risolvano attraverso la negoziazione. Una coesistenza curiosa che ben si applica quando i cittadini risultano troppo preventivamente ostili all’amministrazione locale, resi sospettosi da un passato di «collaborazioni» non riuscite.

Tutti i programmi Model Cities devono essere approvati dai consigli comunali perché lo Housing and Urban Development federale li finanzi, e dunque questi consigli mantengono un diritto di veto finale anche quando i cittadini detengono la maggioranza nei comitati CDA. Nel caso di Richmond, California, il consiglio comunale ha consentito che i cittadini esprimano anche un contro-veto, masi tratta di una procedura ambigua e non sufficientemente sperimentata. Varie forme di poteri delegati richiesti dai quartieri si riscontrano anche nei Community Action Program, e nelle ultime linee guida dello Office of Economic Opportunity si sollecita ad «abbondare coi criteri di partecipazione» dei residenti. In alcune città i CAA delegano agli abitanti organizzati in ente la redazione/attuazione di programmi decentrati, come i centri multiservizi o altri. Nei contratti di delega in genere si specificano le voci di bilancio e programmatiche concordate, e i punti tematici delegati: che siano politiche urbane, assunzioni e licenziamenti, stipula di sub-contratti di fornitura, acquisti e affitti. (in alcuni casi la delega è così ampia che la si potrebbe anche classificare al seguente ultimo livello del controllo dei cittadini).

8 – CONTROLLO DEI CITTADINI

Crescono le richieste di gestire scuole, questioni razziali, la sicurezza nei quartieri. Oggi nel paese nessuno ovviamente ha controllo assoluto su nulla, ed è importante non confondere le reali intenzioni con l’affermazione di principio. La gente, molto semplicemente, chiede un grado di potere (controllo) adeguato a far sì che chi partecipa possa gestire un ente o un programma, essere pienamente responsabile della strategia e gestione, in grado di negoziare le condizioni in cui anche «da esterni» queste possano essere modificate. Il modello di riferimento è di solito un ente di quartiere senza intermediazioni tra sé e le fonti di finanziamento. E ne esistono sperimentalmente già alcuni, che erogano servizi sociali o producono beni. Altri sono nella fase di costituzione, e probabilmente altri tipi ancora senza dubbio ne emergeranno, man mano chi non ha potere esercita il diritto di decidere della propria esistenza.

Gli aspri conflitti per il controllo comunitario sulle scuole Ocean Hill-Brownsville a New York City hanno suscitato forti timori nell’opinione pubblica che segue la stampa, ma altri esperimenti meno noti dimostrano come anche gli have-not siano in grado di migliorare la propria città autogestendosi l’intero processo di programmazione, attuazione e gestione. In alcuni casi si dimostra addirittura di riuscire a farlo senza impegnare nemmeno tutte le proprie forze, utilizzandone altre per confrontarsi con l’opposizione locale innescata dall’inaudito conferimento di finanziamenti federali a un gruppo comunitario interamente composto da neri. Gran parte di questi programmi sperimentali si sviluppano grazie a risorse per la ricerca e la sperimentazione dello Office of Economic Opportunity, insieme ad altre agenzie federali. Tra gli esempi ricordiamo:

1. Un finanziamento da 1,8 milioni di dollari alla Hough Area Development Corporation di Cleveland per predisporre un programma di sviluppo per il ghetto, con una serie di iniziative, da un innovativo complesso commerciale-residenziale con uno shopping mall integrato a case popolari, a un prestito garantito a imprese di costruzione locali. Componenti e consiglio dell’Ente sono le organizzazioni di quartiere, nero.

2. Circa un milione di dollari (595.751 il secondo anno) concesso alla Southwest Alabama Farmers Cooperative Association (SW AFCA) di Selma, Alabama, per una cooperativa di mercato su un territorio da dieci circoscrizioni di contea, per produzioni agricole e allevamento. Nonostante vari tentativi di intimidazione (compresi posti di blocco abusivi per bloccare i camion diretti al mercato), la partecipazione nel primo anno è cresciuta fino a 1.150 coltivatori e a un guadagno di 52.000 dollari dalla vendita del raccolto. Il consiglio di cooperativa eletto si compone di due coltivatori diretti neri per ciascuna contea a economia depressa.

3. Circa 600.000 dollari (300.000 in un finanziamento supplementare) ad Albina Corporation e Albina Investment Trust per costruire una linea di produzione gestita da neri e rivolta a persone prive di formazione ed esperienza nell’area di Albina. Si tratta di impianti del settore tessile e metalmeccanico operanti nel mercato e gestiti direttamente dai lavoratori attraverso un meccanismo di trust.

4. Circa 800.000 dollari (400.000 il secondo anno) ad Harlem Commonwealth Council per dimostrare come anche un ente comunitario possa catalizzare e spingere sviluppo economico con meccanismi di programmazione e gestione partecipativi. Dopo diciotto mesi di pianificazione e negoziazione, il consiglio è pronto a mettere in campo diverse iniziative tra cui due supermercati, un centro manutenzioni automobilistiche e servizi (che comprende un programma di formazione professionale), un ufficio finanziario per prestiti a famiglie con redditi inferiori a quattromila dollari l’anno, una compagnia di elaborazione dati. Un gruppo tutto composto da rappresentanti della comunità nera di Harlem sta già gestendo un impianto metallurgico.

Sono molti i gruppi di cittadini che utilizzano la terminologia «controllo completo» ma in realtà nel programma Model City non ci sono esperienze condotte secondo quei criteri dalla fase di pianificazione e negoziazione alla gestione. Daniel P. Moynihan qui sostiene che a rappresentare gli abitanti basterebbe già il consiglio comunale democraticamente eletto, mentre Adam Walinsky ne illustra così invece la non rappresentatività:

… si esercita un «controllo» attraverso la rappresentatività? Nel ghetto di Bedford-Stuyvesant, a New York, ci sono 450.000 persone, tante quante l’intera città di Cincinnati, più di tutto lo Stato del Vermont. Eppure in quell’area c’è solo un istituto superiore, e l’80% degli adolescenti abbandona la scuola; la mortalità infantile ha tassi doppi rispetto alla media nazionale; ci sono ottomila edifici abbandonati, salvo che dai topi, eppure nella zona non è stato investito un dollaro in riqualificazione urbana in tutti i 15 anni di operatività del programma Urban Renewal; quanto al tasso di disoccupazione è noto solo a Dio. Come ovvio, Bedford-Stuyvesant ha alcune necessità specifiche, ma nonostante questo è sempre confusa dentro gli otto milioni di abitanti della città. E c’è voluta una causa legale per ottenere a questa area nell’anno 1968 il suo primo rappresentate eletto al Congresso. Allora: in che senso si può dire che il sistema rappresentativo si è fatto carico di «parlare a nome della comunità» nei lunghi anni di abbandono e degrado?

Le osservazioni di Walinsky su Bedford-Stuyvesant si possono applicare più in generale alle zone di ghetto in qualunque città di tutto il paese da costa a costa. Appare quindi probabile che in quei ghetti dove gli abitanti hanno ottenuto un notevole potere nei programmi Model Cities, dopo il primo anno di operatività si pensi a nuovi enti completamente gestiti e governati dagli abitanti e con un bilancio proprio contrattato. Se si lavora su regole certe, se i cittadini comprendono quanto entrare a piena legittimità nel sistema pluralista sia fondamentale, si comincerà a dimostrare come è possibile un contrasto alle forze politiche e socioeconomiche che determinano e opprimono la povertà.

Ci sono città che per crescita di popolazione nera vedranno quel gruppo diventare dominante, ed è improbabile che gruppi oggi molto vocianti di cittadini come AWC a Philadelphia alla fine chiedano più potere per l’autogoverno dei quartieri. La loro strategia sarà piuttosto di puntare al governo cittadino. In altre città destinate a restare prevalentemente bianche per il futuro prevedibile, è invece probabile che gruppi simili a AWC spingano per forme separatiste di governo dei quartieri, creare e gestire servizi decentrati, dalle forze dell’ordine alle scuole alla sanità. Molto può dipendere da come le amministrazioni cittadine sapranno collocare risorse a favore di chi ha meno, correggendo gli squilibri del passato.

Fra le argomentazioni contrarie al controllo da parte dei cittadini spiccano: sostiene forme di separatismo; è una balcanizzazione dei servizi pubblici; è troppo costoso e poco efficiente; fa sì che gruppi di politicanti neri sfruttino i poveri esattamente come accadeva coi loro predecessori bianchi; è incompatibile con meritocrazia e professionalità; potrebbe alla fine risolversi tutto in uno scherzetto di cattivo gusto in cui si danno diritti a chi non ne ha senza le risorse sufficienti per esercitarli con successo. Tutte argomentazioni da non prendere certo alla leggera. Ma non prendiamo alla leggera neppure quelle degli esasperati sostenitori del controllo da parte dei cittadini: gli altri tentativi di togliere chi non ha potere dalla condizione di vittima sono tutti falliti!

Da: Journal of the American Planning Association, Vol. 35 n. 4, 1969; Titolo originale: A Ladder of Citizen Participation – Traduzione di Fabrizio Bottini

(*) Sherry R. Arnstein, Direttrice delle ricerche in politiche urbane a The Commons, ente senza scopo di lucro di Washington, D.C. e Chicago. Già consulente generale per la partecipazione dei cittadini nella divisione Model Cities dello Housing and Urban Development federale, e consulente di settore per il Comitato Presidenziale sulla Delinquenza Giovanile.

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