Se si parla di far tornare la natura in città, o comunque di rafforzare la presenza degli elementi naturali in città, di sicuro è impossibile non considerare almeno un preventivo giudizio su quali aspetti naturali, e in che misura lasciarli liberi di fare il proprio corso altrettanto naturale. Insomma dovrebbe essere almeno chiaro se vogliamo considerarci pienamente integrati nella fase attuale della civiltà planetariamente urbana (come ci dicono tutte le statistiche, i dati, le prospezioni), oppure altrettanto legittimamente sognare una oscura vendetta degli elementi contro l’umanità usurpatrice che ha osato rubare il fuoco divino e usarlo sacrilegamente a modificare l’Eden primigenio. Perché modificato senza dubbio lo è, il famoso Eden primigenio, e basta guardarsi attorno per capirlo: non solo la natura in quanto tale viene in qualche modo esclusa dagli ambienti totalmente artificiali della città dove viviamo, lavoriamo, svolgiamo tante altre attività, ma anche là dove è rimasta, o arrivata, o messa a bella posta da noialtri, non è più poi così naturale. Facciamo un esempio classico come le alberature delle strade, che spesso stanno lì da generazioni, fanno da collegamento organico e complesso tra le zone verdi più grandi, sono popolate di migliaia di specie di animali e svolgono funzioni ecologiche di altissima qualità. Beh, a volte basta dare un’occhiata alla base dei tronchi per scoprire sino a che punto quei maestosi esemplari di naturale abbiano conservato solo un pezzettino.
Natura urbana cyborg
A parte l’essere ovviamente e innaturalmente allineati a seguire i margini dell’artificialissima strada, i nostri maestosi esemplari di albero cyborg spesso poggiano su zolle di terreno di forma e profondità assai stravaganti, dentro cui affondano radici dagli schemi altrettanto incomprensibili ai loro colleghi delle aree di campagna e dei crinali di collina. E poi spesso non sarebbero neppure riusciti a sopravvivere fino alla loro veneranda età, se non fosse per quei tubi di plastica dell’irrigazione automatica che ogni tanto si vedono sporgere da qualche angolino alla base, o per le disinfestazioni, o le potature periodiche. Di sicuro, tra parentesi, dentro quel fitto fogliame che sviluppano nei mesi estivi, c’è una densità e varietà di abitanti che farebbero l’invidia dei cugini di campagna, abituati al massimo a un paio di nidi e qualche occasionale piccolo roditore che va su e giù da tronco: qui, esattamente come succede in certi condomini, brulica un po’ di tutto dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, con quello che possiamo senza dubbio etichettare il ritmo frenetico della vita moderna. Perché è anche e soprattutto quello ad essere mutato, nell’ambiente della città, il fattore tempo: non si tratta di una battuta, o di una osservazione empirica, ma del risultato di lunghi studi scientifici. I quali hanno rilevato come non solo tra le case e i semafori gli animali selvatici cambino comportamenti, dieta, abitudini di riproduzione, ma anche i vegetali arrivino a manifestare un metabolismo diverso il quale a suo volta finirà certamente per indurre altri, nuovi effetti, sia sulla fauna che sugli altri abitanti della città, bipedi inclusi.
Primavera rumorosa
Si chiama in gergo inquinamento luminoso, nelle carceri a volte viene usato come forma di tortura, negli ospedali o in altre situazioni di emergenza sospende per così dire lo scorrere naturale del tempo. Altro non è però che la normale illuminazione artificiale, quella dei lampioni stradali, delle insegne, delle lampadine accese in ambienti pubblici e privati che da sempre distingue i luoghi urbani da quelli che non lo sono. E che ha un impatto ecologico in grado di modificare la cosiddetta «fenologia vegetale», i tempi e fasi di sviluppo delle piante, le variazioni del loro stato (spuntano le foglie, o cadono ecc.) nell’ambiente. Modificando così per esempio anche tempi e modi delle specie animali che associano la propria esistenza a quella dei vegetali. Quello che è certissimo rilevato, calcolato, è che gli alberi in città per via delle luci accese si anticipano da soli la primavera e sbocciano prima, anche indipendentemente dal cosiddetto effetto isola di calore che alza leggermente o meno leggermente le temperature della città rispetto alla regione circostante. La questione ora non è tanto auspicare un improbabile ritorno a stati più naturali, spegnendo lampioni e rintanandoci da qualche parte a pentirci dei nostri peccati, ma cercare di capire quali nuovi equilibri variamente artificiali sia possibile ricomporre e mantenere in forma virtuosa e sostenibile. Analogamente a quanto avviene in alcuni casi con la fenologia agricola, che di spontaneo ovviamente non ha assolutamente nulla. Così che magari troveremo un giorno la risposta alla retorica domanda che si poneva tanti anni fa il Poeta: «Qui, in mezzo al traffico, c’è un pezzetto di verde, e io mi chiedo perché, mentre nasce una primula, sto morendo». In realtà non stava morendo, era solo un po’ a disagio, poi si è abituato e se ne è fatto una ragione.
Riferimenti:
AA.VV. Light pollution is associated with earlier tree budburst, Proceedings of the Royal Society B, Vol. 283, n. 1833, giugno 2016