È abbastanza noto che tradizionalmente al buffone di corte si consente un po’ di tutto, compreso dare allegramente dell’idiota al sovrano. Ci si diverte, il pazzerello col cappelluccio a sonagli poi andrà a rotolare ubriaco in un angolino, e il sovrano smaltita la bisboccia si ritroverà con ben altro spirito a parlare di cose serie. Credo che in gran parte il bel libro di cui mi occupo qui avrà un successo (più o meno assicurato, visti gli autori, la qualità della scrittura, la presumibile capacità promozionale) sostanzialmente in questa prospettiva. Meglio di niente, e forse meglio in generale, visto che avere successo in certi ambienti asfittici non è destino che augurerei tanto alla leggera. Ma passiamo oltre.
Michele Monina, se vi date la pena di inserire il nome in qualunque motore di ricerca, è un nome legato al giornalismo di costume, musicale, turistico. Fra i suoi lavori anche biografie di cantanti popolari, come Vasco Rossi o Laura Pausini. Gianni Biondillo è architetto, neanche urbanista in senso stretto, noto soprattutto come giallista: gialli metropolitani ma pur sempre gialli sono, mica studi sul territorio. Uno che quando scrive si legge molto volentieri, e lì già qualcosa non va bene, no? Per essere davvero profondi e suscitare rispetto, il lettore bisogna stenderlo in tre paragrafi secchi. Insomma, cosa vogliamo aspettarci da una coppia del genere? Luoghi comuni, se tutto va bene.
E i luoghi comuni sono esattamente quello che ci viene servito nei cento chilometri di scarpinata estiva lungo le Tangenziali di Milano, che i due raccontano per filo e per segno a voci alterne. Cronaca di tappe periferiche, semirurali, decisamente surreali, sotto l’opaco sole estivo padano, che cuoce la testa e sfuma contorni e distanze. Unico riferimento costante: la toponomastica ciclica e il muggito della ubiqua gran vacca autostradale. Semplice il piano dell’opera, qualche raffinato direbbe magari deviantemente «lynchano»: guardare e riferire, in modo sistematico. Beh, sistematico si fa per dire. Loro si autodefiniscono seguaci di James Ballard o di quella pseudoscienza delle avanguardie artistiche detta psicogeografia. Riferimento bibliografico unico, ripetutamente dichiarato: London Orbital, di Iain Sinclair, libro culto per gli appassionati.
Anche il sottoscritto a modo suo aveva storto il naso aprendo il libro e sfogliando le cartine con le tappe del percorso. Elegantemente: e che cazzo! Nel senso che quei posti li conoscono a menadito tutti quelli che ci passano o ci stanno, che sono parecchi. I mitici pensionati degli orti più o meno abusivi, a cui vanno aggiunti d’ufficio i pisciatori di cani avventurosi di largo raggio, nonché i pisciatori diretti, i coltivatori diretti, le puttane, gli operatori multimodali della mobilità metropolitana incrociata (elenco troppo lungo, che può ad esempio iniziare col ciclismo amatoriale, e finire con le roulotte degli sgomberi trascinate da una piazzola all’altra). Però c’è una bella differenza tra essere stati in un posto, o aver percorso un tratto, magari sei mesi prima, poi rivederlo da sopra il cavalcavia, o magari stare tutto il giorno lì, ma solo lì e poco altro … e invece farsi tutto il giro di tutti i posti guardandosi attorno, e secondo una schema prefissato.
Lo schema prefissato è elementare. Milano ha un sistema di Tangenziali, irregolare ma in qualche modo continuo, che circonda la città centrale passando per i discontinui territori delle amministrazioni confinanti. Il modo apparentemente più ovvio di osservare questo tracciato, è quello di percorrerlo col mezzo per cui è stato concepito, ovvero in macchina. Un modo molto meno ovvio, è quello di seguirne i contorni (un po’ come il nazionalpopolare Claudio Baglioni, no? «Seguire il tuo profilo con un dito …») dall’esterno, e farlo rigorosamente a piedi. Una faticaccia, anche se gli Autori la scaglionano su dieci tappe: da Cologno Monzese, giù parallelamente al corso dell’inquinato Lambro, poi di traverso nel Parco Sud fra odore di fieno e curtain wall all’orizzonte, e di nuovo verso il nord, le aree della futura Expo, fino all’ex Stalingrado d’Italia, ai confini di Mediaset.
Popolazione pochissima, reale o virtuale. Quella reale si compone al quasi cento per cento di sfuggenti silhouettes prostituzionali all’orizzonte di strade chiuse o lotti inedificati, più benzinai occasionali, e visi intravisti un istante dietro tendine di villette che tornano subito immobili mentre il cane si sloga le corde vocali dietro la polverosa siepe. La popolazione virtuale conta bestie vive che volano, scappano via, grattano pulci ecc. E soprattutto bestie morte, dalla piccola talpa alla inquietante nutria da sei chili in avanzato stato di decomposizione. Poi a questa popolazione virtuale vanno anche aggiunti i fantasmi di Giuseppe Di Vittorio e Enrico Fermi, grandi e immancabili protagonisti della toponomastica delle aree artigianali di quasi tutti i Comuni affollate vicino agli svincoli. Con l’aggiunta di nani da giardino assortiti, madonnine con grotta a stalattiti, e fra le lastre di marmo cimiteriali semilavorate in zona Ortica, una statua a grandezza naturale del Presidente Mao. Scusate se è poco!
Il resto, immancabile in questi modelli narrativi, sono le riflessioni e i dialoghi «a margine». Un margine bello largo ovviamente, che copre le trasferte in autobus verso remoti capolinea, la pianificazione delle tappe, gli amici che si uniscono in qualche tratto per scattare foto, o fare semplicemente da terzo – o quarto – incomodo. Fine. Ma per chi preferisce il genere reverenziale, che stende il lettore al secondo paragrafo, naturalmente c’è a disposizione la letteratura specializzata. Per gli altri, che vogliono provare a leggerlo (e personalmente lo consiglio), una questione sottotraccia: come ne escono i politici locali? Quanta consapevolezza media dimostrano, di capire alla testa di cosa sono stati inopinatamente collocati? Beh, rispondete da soli, se ne avete voglia. A me pare che siano loro, ad essere partiti per la tangente.
Testo già pubblicato – parecchi anni fa – sul settimanale Carta