Se si guardano certi quadri urbani, anche piuttosto famosi, di epoca pre-industriale, si notano con più o meno evidenza comparire nell’immancabile striscia di campagna o foresta fuori le mura alcune presenze inquietanti. A volte in forma di vaghe ombre o semplici nubi minacciose all’orizzonte, a volte coi tratti più espliciti di una scura sinistra sagoma a fare capolino da un masso o da un albero, sono parte della natura nemica chiusa fuori dalle fortificazioni, reale o immaginaria, belva o poltergeist che sia. Da una certa prospettiva, la vera differenza di questo ambiente urbano rispetto al castello o alla corte rurale, sta nell’articolazione e ampiezza dei suoi spazi pubblici e collettivi, ben più ricchi e aperti delle stanze illuminate dal camino, o del falò sull’aia, attorno a cui si radunano le popolazioni rurali per scacciare gli incubi della notte. Ma come ci insegnano sia certe travolgenti fiction gotiche, che i serissimi ma egualmente affascinanti racconti di storici alla Jacques Le Goff, anche dentro le mura urbane culla di civismo cultura tolleranza, fucina di lumi e luminarie fisiche e mentali, non mancano certo in agguato oscure presenze, infiltrate dalla selva o di produzione propria. Ancora qui, la grossa differenza con la campagna sta nel metodo di lotta basato sull’assimilazione anziché sull’esclusione.
Il bar di Guerre Stellari
La città è il luogo della differenza, dell’individuo che pur confuso tra la folla non è mai folla, anzi la sua individualità ne viene enfatizzata, non sminuita. Differenza a volte significa anche devianza in senso antisociale, però soltanto in casi estremi ha davvero senso ricorrere alla repressione: il più delle volte basta lo stesso ambiente urbano a digerire e rendere assimilabile qualunque comportamento, traducendolo in conflitto, innovazione, progresso. Non a caso uno dei maggiori sociologi urbani del ‘900, William Whyte, nei suoi primissimi studi sullo scontro fra etica protestante individualista, ed etica sociale tendenzialmente massificante, individuava certe caratteristiche spaziali come molto favorevoli all’una e di ostacolo all’altra. E in ricerche successive sullo spazio pubblico continuava a sottolineare quanto una adeguata disponibilità di luoghi di incontro e intreccio di vari soggetti e comportamenti fosse la soluzione generalizzata alla sicurezza, garantita anche per la quota restante da quelli che Jane Jacobs (in prima battuta sua creatura) chiamava «occhi sulla strada». Quindi ciò su cui chiunque si avvicini al problema in buona fede concorda, è che l’antidoto alla criminalità, ai portati peggiori della devianza, all’insicurezza reale (su quella percepita lasciamo sfogare ansiosi e destrorsi), è più spazio pubblico, non meno spazio pubblico.
Quantità, qualità, spazio, tempo
Quanto spazio pubblico non si calcola certo solo al metro quadro, anche se come insegnano certe subdole politiche conservatrici il criterio di un tanto al chilo non va mai abbandonato. Quindi più parchi, più marciapiedi, piazze, slarghi accessibili, portici, atrii, arretramenti di edifici eccetera. Ma anche più varietà e qualità, mescolanza di usi, magari un po’ di confusione che non fa male anzi aiuta. Poi cala la sera, e tutto cambia, rispuntano le ombre …. No che non deve essere così! Ce lo ricorda quella classicissima canzone di Petula Clark, Downtown, quando dice: «Just listen to the music of the traffic in the city, and linger on the sidewalks where the neon signs are pretty». Una scena che si svolge evidentemente di notte, in un ambiente che forse oggi chiameremmo di movida, o su una strada dello shopping, ma può anche essere un giardino, il piazzale della stazione: vogliamo tutti che la città sia efficiente, deve esserlo, è uno dei suoi ruoli, ma chi ci sta e ci va vuole, pretende, qualcosa di diverso, vagamente deviante, trasgressivo (si fa per dire), molto poco fantozziano. Oggi certo economicismo contabile moralista ci vorrebbe tutti a casa a guardare il telegiornale appena finisce l’orario di lavoro da travet: non è una violenza peggiore di un’aggressione in un vicolo buio? Reagiamo, rivendichiamo il diritto alla città naturalmente senza trasformarla in un pentolone ribollente, a tutto c’è un limite, ma non facciamolo fissare al moralizzatore di passaggio.
Riferimenti:
Bradley L Garrett, Cities at night: why our right to use public spaces after dark is under threat, The Guardian, 19 novembre 2015
Qui su La Città Conquistatrice si vedano anche Marion Roberts, Economie della notte metropolitana; e William Whyte, Indesiderabili (1980)