Capita qualche volta di discutere – niente polemiche, per carità, giusto oneste discussioni – con gli appassionati di ciclismo, a proposito delle realizzazioni di nuove piste. Oggetto del contendere di solito è il giudizio comunque positivo per qualsiasi nuova opera che consenta comodamente di sfrecciare qui e là su due ruote, e il dubbio che forse non sia esattamente così, almeno se non consideriamo l’uso della bicicletta in sé come centro dell’esistenza. Per esempio, andrebbe notato che una delle visibili tendenze di questi investimenti è quella di costruire delle specie di ghetti dorati, magari addirittura di superlusso, dove pedalare comodi, soddisfatti, ma sempre e comunque lontani dal resto del mondo. Tunnel ferroviari o della metropolitana recuperati a pista ciclabile, passerelle sopraelevate, rotatorie di smistamento su vari livelli, tutto pare concepito per mantenere l’allegro ciclista fuori dai piedi non solo rispetto ai rischi della strada, ma anche rispetto a tutto il resto. Questo esempio del ciclismo, più o meno consapevolmente compartimentalizzato, non ha un valore a sé, ma serve solo a sottolineare un modus operandi ingegneristico nella costruzione degli spazi che, pur avendo già prodotto tanti guai, pare continui imperterrito.
Reti disintegrate
In principio c’erano efficienza e sicurezza, l’immagine ovviamente quella minacciosa del treno che attraversa le campagne travolgendo vacche e sbadati contadini, o quella più moderna dell’auto che sfrecciando per un quartiere investe il bambino che giocava in strada. Così nasce la corsia riservata, la separazione delle modalità, di solito citando il famoso schizzo di Leonardo detto della città su più livelli, ma scordandosi che quello dei veicoli già nella mente del genio rinascimentale di fatto escludeva il fattore umano. Rivediamolo un istante, quel progetto per il castello di Vigevano: dato che sopra passeggiano damigelle e messeri, si escogita un modo per tener lontana dai loro piedi e dall’olfatto la cacca degli animali da soma e le mosche che attira. Il fatto che insieme agli animali ci siano veicoli e conducenti è puramente incidentale: quel budello dedicato, di fatto è più simile a una fogna che a una corsia riservata. Al giorno d’oggi, sarebbe come pensare di realizzare un condotto per gli scarichi inquinanti, dove ahimè entrano per forza anche motori, veicoli, automobilisti. Leonardo, potendo, avrebbe sicuramente molto più volentieri progettato cavalli e buoi a circuito chiuso, carri eleganti e “a misura d’uomo” da far tranquillamente circolare tra le pulzelle nel cortile del maniero. Lui la comprendeva, la complessità delle interazioni urbane, erano il modo per sviluppare idee, innovazioni, relazioni, spunti. Siamo noi ad aver capito male le sue intenzioni: messer Da Vinci non era un geometra.
Il valore del luogo o “sense of place”
Quello che forse non cogliamo neppure dai contemporanei schizzi degli architetti new urbanism è la medesima necessità, piuttosto impellente, di conferire o restituire senso ai luoghi di relazione, esattamente sottolineandone l’appartenenza a un contesto complesso. Non ci sono solo architetture da contemplare, verde in cui rilassarsi, reti di percorsi da praticare per andare da qui a lì, da un’attività singola all’altra, ma un insieme integrato e mescolato. La stessa isola pedonale, di fatto, e come ben sanno gli amministratori che provano a introdurne nelle proprie città, deve volente o nolente, esplicitamente o implicitamente, relazionarsi con solidi interfaccia “leonardeschi” alla mobilità meccanica, tramite parcheggi e altro. Meglio sarebbe se, in una situazione ideale, ci si potesse rivolgere al metodo dell’ingegner Hans Monderman degli “spazi condivisi”, dove basta un po’ di buon senso a evitare troppi attriti, conflitti, sopraffazione. E non è un caso che sia stato proprio l’esperto di trasporti a parlare di centralità dello spazio: la mobilità è uno strumento per dar senso agli spazi, non viceversa, e quanto più questa mobilità è integrata alla città e alle sue relazioni, tanto meglio sarà per tutti. Un modo abbastanza sperimentato e governabile per promuovere tale integrazione, è da un secolo e passa la mobilità tranviaria, su cui ad esempio si sono conformati tanti quartieri classici, sia giardino che razionalisti. I binari, struttura fissa, consentono di gestire molto bene (a differenza di quanto non avvenga con la strada e i veicoli privati) il rapporto fra reti di mobilità, luoghi, attività. Lo sanno molto bene le amministrazioni che hanno investito nel recupero e realizzazione ex novo di queste reti, ma non lo capisce – o non lo vuole capire – l’autore di un articolo del Guardian. Il quale, continuando ostinatamente a considerare gli spostamenti come estranei al luogo in cui avvengono, non solo insulta la memoria di Leonardo da Vinci, ma anche un pochino il buon senso. Purtroppo pare siano in molti a ragionare così.
Riferimenti:
Sean Marshall, Streetcars of desire: why are American cities obsessed with building trams? The Guardian, 20 febbraio 2015