Ikea: lo scatolone si è domato da solo (o no?)

foto Visual Thinking

Non moltissimi anni fa, uno dei fondatori e principali animatori dell’americano Congress for the New Urbanism presentava a un convegno una relazione dall’accattivante titolo «Belling the Box», che potremmo pur liberamente tradurre con: «Mettere il sale sulla coda allo Scatolone», o catturarlo, o addomesticarlo. Lo scatolone in questione, trattandosi di architettura-urbanistica, era il cosiddetto big-box, ovvero quanto di peggio abbia mai prodotto la grande distribuzione commerciale nel suo rapporto col territorio, involvendo se possibile ulteriormente il già non esaltante modello dello shopping mall automobilistico perfezionato e fissato da Victor Gruen negli anni ’50. Lo scatolone a differenza del cugino centro commerciale non ci prova neppure, a simulare una città o un quartiere: tetragono contenitore-astronave atterrato in mezzo a un intrico di bretelle corsie e parcheggi, presenta all’esterno solo la smisurata scabra opacità delle proprie pareti cieche, interrotta da qualche essenziale insegna al neon e da pochissimi ingressi. La ricetta dell’architetto new urbanism si concentrava proprio sugli interfaccia fisici più vistosi: affacci, materiali da costruzione, dettagli come zoccoli o cornicioni, discontinuità, forme e arredi delle zone di sosta. Già pareva tanto, andare oltre quella simbolica botta visuale dell’astronave commerciale aliena atterrata fuori città, da non cogliere quanto strabico e marginale fosse quello sguardo da architetto, che nonostante lo slogan non stava ammaestrando o mettendo il sale sulla coda a nessuno.

Fase terminale di un ciclo

Il formato big box, con tutto il suo quasi spudorato smisurato irrompere del puro accumulo di merci sul territorio, come sappiamo col senno di poi rappresenta il punto terminale di un ciclo, all’inizio del quale c’è la progressiva specializzazione dello spazio commerciale. Che cominciata nella città moderna con mercati coperti e grandi magazzini, trasferiti sempre più verso le periferie in quartieri commerciali a forte impianto automobilistico, raggiunge con lo scatolone lo sganciamento completo addirittura tra certi consumi e certi altri, oltre che ovviamente tra consumi e altre relazioni. C’era anche un oltre, ovviamente, ma poteva forse essere solo l’abolizione totale dello spazio fisico di relazione, così come avvenuto col passaggio dello scambio commerciale al virtuale online. In cui da un lato si evidenzia quanto strabica fosse quella battaglia dell’architetto Don Chisciotte contro le sue enormi sagome stagliate all’orizzonte, dall’altro come tutto il grande problema resti sostanzialmente ancora aperto. Come noto perlomeno a chi rivolge qualche genere di riflessione non superficiale al tema, la cosiddetta «smaterializzazione» del commercio sulla rete corrisponde in realtà a massicce trasformazioni materiali sul territorio, anche se queste riguardano una serie di aspetti che riassumiamo nel termine logistica, ovvero esattamente tutti i passaggi dalla produzione al consumo, salvo che una parte terminale avviene senza la consapevolezza del consumatore. Una logistica che negli ultimi tempi proprio per via del dilagare del commercio online (ma non solo) si sta riorganizzando, decentrando per unità locali minori, automatizzando, in pratica ripercorrendo a ritroso la strada della distribuzione commerciale, dal suburbio verso l’insediamento urbano denso di relazioni.

Non esiste solo il libero mercato

Se lo spazio extraurbano novecentesco non era per nulla attrezzato, culturalmente, tecnicamente, politicamente, a interfacciarsi alla pari con l’offensiva della distribuzione commerciale a sprawl coi suoi grandi contenitori e reti, nella fase attuale di ricentraggio le città possono contare su alcuni vantaggi, primo fra tutti quello di conoscere e anticipare i fenomeni dotandosi di anticorpi detti piani e programmi. La cui finalità dovrebbe essere quella di accogliere le tendenze spontanee degli operatori della logistica e del commercio, con quegli obiettivi di «rigenerazione» spesso confusi con la pura ricostruzione edilizia o poco più. Gli strumenti classici di programmazione della rete commerciale per economia e vitalità locale si muovono nella logica di individuare punti focali nella rete urbana da confermare, sostenere, inventare ex novo, organizzarli eventualmente in senso gerarchico, dimensionale o qualitativo (per esempio secondo il raggio di azione del servizio), anche nella prospettiva di crisi e/o trasformazioni delle attività o dell’intero sistema. Coordinare accessibilità tra e dalle varie zone, impedire concorrenze distruttive, rapportare idealmente ad altre funzioni, residenziale, di servizio, produttiva. Porre le basi perché il medesimo sistema anche ferme restando le sue componenti e il rapporto col contesto possa evolvere in qualcosa di totalmente diverso. Ed è a questo punto che entra in campo l’ultimo fattore, che possiamo chiamare «riaggregazione spaziale del big-box».

Ikea Planning Studio

Il gigante dell’arredamento svedese è da sempre un classicissimo del modus operandi degli scatoloni introversi a orientamento automobilistico in ambiente extraurbano, e più di recente addirittura nel cuore metropolitano come a Red Hook, Brooklyn, col negozio gialloblu abbastanza assurdamente affacciato col suo parcheggio sulla baia di New York. Gli annunci ufficiali di questi giorni paiono però delineare un netto salto di strategia, decisamente impegnativo (da ogni punto di vista) a partire dal previsto licenziamento di oltre settemila dipendenti della filiera big box attuale, a cui dovrebbe corrispondere la creazione di undicimila nuovi posti nella riorganizzazione a carattere urbano dei punti vendita. Gli aspetti che si incrociano in questa operazione sono qualcosa di assai più complesso del puro «ritorno in città» così come in corso di sperimentazione di tanti marchi della grande distribuzione, sostanzialmente ridimensionando un po’ i punti vendita rispetto alla localizzazione suburbana classica. Secondo una logica che ricalca in parte i criteri di riorganizzazione della stessa logistica da cui dipende, Ikea costruisce un suo inedito big box virtuale composto di una parte preponderante smaterializzata-decentrata che afferisce sia al commercio online che a una rivista filiera di distribuzione, ma ribalta totalmente la propria presenza fisica di vetrina affacciata su una normale via urbana. Il formato si chiama Planning Studio, è grande come un normalissimo negozio di qualche centinaio di metri, e il primo esperimento è aperto da qualche settimana nella centralissima Tottenham Court Road a Londra. Una collocazione che ovviamente si mescola anche coi criteri di programmazione e vitalità riassunti sopra, e che apre davvero prospettive inedite per tanti altri operatori, oltre che per le pubbliche amministrazioni e i cittadini.

Riferimenti:
GVA, Camden Retail and Town Centre Study, London Borough of Camden, novembre 2013 (il documento scaricabile va cercato nel motore interno)
Zoe Wood, Mini Ikea spin-off store opens in central London, The Guardian, 11 ottobre 2018

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