La cronaca (non le opinioni: i fatti) ci racconta come le città continuino ad espandersi, con le migrazioni di contadini verso le zone urbanizzate, con criteri di insostenibilità purtroppo sostenuti da certi modelli di cosiddetto sviluppo. L’idea che città e campagna debbano necessariamente confliggere, tendenzialmente volersi eliminare a vicenda pare davvero stupida e suicida, e dimostra se non altro quanto perversi siano quei contabili sedicenti economisti, sedicenti discendenti di Adam Smith, quando ne dimenticano uno degli insegnamenti fondamentali, ovvero che città e campagna sono legate da un patto di sangue per la vita, dove produzione, distribuzione, consumo, economia, si chiamano sistema alimentare ed equilibrio ambientale. Senza bisogno di evocare né la Bibbia, né l’idea originaria moderna della città giardino di diretta discendenza (che non comprende solo i villini con gli abbaini da architetto tradizionalista, ma il sistema complementare della greenbelt), basta ricordare le ultimissime indicazioni del cosiddetto Patto di Milano sull’alimentazione, per comprendere il senso di questa complementarità. E per comprendere, anche, come la si possa benissimo perseguire sia in una logica diciamo così socialisteggiante, con forte intervento pubblico e/o privato sociale, sia liberaleggiante con robuste iniezioni di libero mercato e capitale in cerca di profitto. Adam Smith, che come sappiamo tutti oggi è ridotto a fertile humus, benedice comunque.
Più città e più campagna
L’obiettivo è in sostanza quello della sopravvivenza, che sul versante alimentare vuol dire nutrirsi senza intaccare la sopravvivenza di altri vicini, ovvero farlo nei limiti del possibile con le proprie risorse, eventualmente scambiando quelle in sovrappiù. Come insegna la tradizione della massa critica territoriale individuata dal concetto di città giardino, il riferimento è quella terza calamita chiamata nei diagrammi Town-Country, secondo una terminologia che classicamente già i media dell’epoca iniziarono velocissimi a stravolgere, con la complicità dei proponenti. Così spesso anche da qualche pulpito sbadatamente scientifico-disciplinare tocca sentire stupidaggini del genere la casa unifamiliare con orto-giardino simbolo della sintesi tra urbano e rurale. Una sciocchezza madornale, forse alimentata dal gusto estetico dei progettisti dell’epoca, ma che non si dovrebbe sentire in certi consessi. Town-Country è invece una alternativa integrata, dove la città fa la città, la campagna fa la campagna, ma entrambe partecipano a qualcosa di diverso, ovvero il ciclo alimentare locale, comprendente coltivazione, distribuzione, trasformazione, commercio, consumo, riciclo, energia, scambi monetari. Se vi ha ricordato qualcuna delle politiche del movimento Transition Town, è semplicemente perché quel movimento ha pescato a mani basse dalla tradizione britannica di «ritorno alla terra», da metà XIX secolo in poi, che non è affatto storia di umani pentiti di essere tali e che sognano di ridiventare scimmie, o poco più.
Il campo, il mercato, la tavola, il letame
Insomma, il trucco se un trucco c’è sarebbe di considerare cittadini a pieno titolo tutti gli abitanti della regione urbana, e di pari dignità effettiva tutte le attività soggetti e stili di vita del territorio, evitando sia l’industriale disprezzo dell’inurbato per il campagnolo, sia quel processo inverso caratteristico di questa alba del terzo millennio, in cui una improvvisata gentry neocampagnola pare essersi impossessata di quartieri e gangli decisionali, utilizzati prevalentemente per prendere decisioni cretine di «ruralizzazione della città». Una ruralizzazione che è soprattutto ideologica, non integra alcunché, e lascia intatti gli squilibri alimentari, socioeconomici, ambientali, ereditati dall’era delle fabbriche. Se un lascito positivo e propositivo arriva dalle recenti riflessioni sulla cosiddetta vertical farm (quelle serie e sistematiche, non le sparate dei palazzinari), è che nulla si tiene se non c’è integrazione e attenzione a tutti gli aspetti di un ciclo. Ovvero se si prende per buono come è indispensabile un obiettivo di sostenibilità, ovvero risparmio di risorse non rinnovabili quali suolo, acqua pulita, aria respirabile, energia, senza contare le risorse sociali pure strategiche, tutto va guardato in una logica di sistema. E funziona, sia osservandolo da «sinistra» con tanto ottimismo della volontà, che da «destra» con prevalenza di pessimismo empirico della ragione applicato al portafoglio. Così ci garantiamo anche l’alternanza politica senza rischiare l’estinzione della specie.
Riferimenti:
Questa cultura complementare della città/campagna in un sistema avanzato ed equilibrato, è la tesi di fondo del RUAF, Resource Center on Urban Agriculture and Food Security. In particolare lo spunto per questo articolo è stato un pezzo dall’ultimo numero 30 della loro rivista Urban Agriculture: Emily Mattheisen, Creating city region food systems
Per la citata tradizione ambientale-alimentare-economica del movimento decentratore,si veda qui su Città Conquistatrice William R. Huges, Agricoltura per la nuova società (1919)