Post-verità: se ne parla di continuo da quando qualcuno ha pomposamente lanciato il nuovo termine, e naturalmente dall’istante successivo ne è iniziato anche il ribaltamento plurimo carpiato con doppio avvitamento. Per quanto riguarda il suo senso, assai terra terra per quanto ci riguarda, potrebbe suonare più o meno: non esiste una corrispondenza sola e diretta, tra una definizione e la realtà a cui si riferisce. E del resto qualunque realtà complessa si presta magnificamente, al gioco della post-verità, quando le carte dei «dati» si rimescolano a capocchia per sostenere la tesi utile a chi la propone. La sostituzione sociale in una data area urbana, è una di queste realtà complesse, anzi molto complessa, riguardando una miriade di fattori, variabili, punti di vista singoli e specifici, che però si possono intrecciare anche «oggettivamente» a inquadrare scenari opposti. La parola chiave ancora una volta è quella – maledetta – gentrification che, troppo a lungo stigmatizzata per non dire sputtanata, come lo speculare analogo sprawl, pare aver trovato pure lei un suo nuovo orizzonte di post-verità. Cos’è, innanzitutto?
Parole
Nata nel campo degli studi sociali pur sistematicamente applicati allo spazio urbano, l’idea di gentrification manifesta evidentemente una sua intrinseca debolezza, una specie di crepa dentro la quale si scaraventano appena possibile i nostri ribaltatori di senso delle parole. Eppure parrebbe abbastanza chiaro quel sistema di premesse e fatti stabilito dagli studi di Ruth Glass a metà ‘900: si tratta di un processo strisciante, senza grosse e brusche trasformazioni urbanistiche, in cui al classico quartiere misto (dove, a specchio di una società complessa, convivono una grossa percentuale di ceti a basso reddito e una minima percentuale a reddito medio e alto) se ne sovrappone socialmente un altro, assai omogeneo e che poi esclude la diversità. Questa, è propriamente gentrification, non altro, ed è considerata indubbiamente negativa perché il puro culto della stabilità dei valori immobiliari che la sostiene, si costruisce artificiosamente attorno uno zoning esclusivo che desertifica parti di città. Avessimo avuto invece, ad esempio, una preventiva aggressione fisica su larga scala, con deportazione delle famiglie in affitto per demolizioni e ricostruzioni, anche a seguito di identica sostituzione sociale lo studioso avrebbe preso a prestito la classica denominazione sanitario-urbanistica dello «sventramento», e non ci sarebbero stati equivoci, dentro cui lanciarsi a capofitto spaccando capelli in quattro pro domo propria.
Altre parole
Ma l’occasione è troppo ghiotta, e qualcuno vuoi per ignoranza, vuoi per malafede, vuoi per un perverso mix di entrambe, non se la lascia certo sfuggire in quel modo. Qual’è, in buona sostanza, il problema? Il problema, per i nostri eroi della post-verità fatta in casa, è che il processo scientifico da cui nasce la parola gentrification la bolla anche correttamente come fatto negativo indiscutibile (come con lo sprawl, o poniamo fuori dalle discipline urbane con il cancro). Si tratta quindi di sparigliare le carte, magari sorvolando su uno o più fattori, e cambiando così l’equilibrio dell’equazione: nasce così l’idea balzana della sola, ma relativamente massiccia, sostituzione sociale. Non importa se avviene di colpo oppure no, non importa se avviene attraverso una infiltrazione spontanea e relativamente integrata, oppure in modo pilotato, non importa neppure più se si tratta spudoratamente di sventramento, ovvero enormi demolizioni, deportazioni, ricostruzioni. In modo assurdo, secondo alcuni studi finanziari che si limitano al solo reddito delle famiglie residenti, diventa addirittura gentrification un processo che in teoria sarebbe di puro progresso sociale, dove gli abitanti migliorano la propria condizione, e conseguentemente quella del quartiere. Da questa inestricabile, indigeribile insalata, a tutto vantaggio degli speculatori che rimestano nel torbido, poi iniziano a spuntarne di ogni colore. Compresa la ricerca linkata, dove in sostanza legando la trasformazione sociale alla sicurezza e qualità della convivenza, si finiscono in fondo per promuovere anche quelle politiche poliziottarde dette di «tolleranza zero», e la cui fondatezza scientifica non solo è tutta da vedere, ma è anzi decisamente discutibile.
Riferimenti:
– Ingrid Gould Ellen, Davin Reed, Keren Mertens Horn, Has falling crime invited gentrification? Working paper, New York University, Furman Center, ottobre 2016
– Emily Badger, How to Predict Gentrification: Look for Falling Crime, The New York Times 5 gennaio 2017