Ormai anche nel nostro paese (e non solo sulle riviste con particolari interessi ambientali) si moltiplicano quegli articoli della stampa dedicati alle curiosità vegetali e animali metropolitane: comportamenti inusitati, presenze piuttosto surreali, vere e proprie mutazioni in fondo degne di un racconto di fantascienza. Anche al netto di parecchio folklore, è innegabile che cose come la neo-stanzialità di certe specie di uccelli da sempre migratori colpiscano, molto più di un bar dedicato ai gatti o quei filmati sul social dove i serpenti a sonagli allattano materni i cuccioli orfani di un bisonte albino. Per restare a quegli uccelli migratori, che hanno eletto la città a loro ambiente ideale, ci guazzano, ci si riproducono, va detto che sono ottime metafore di quel che vuol dire «urbanizzazione planetaria», ovvero un processo che da un lato interessa davvero tutto l’orbe terracqueo, i suoi ambienti, i suoi equilibri, e dall’altro che questo non significa (come qualcuno terrorizzato istintivamente percepisce) trasformare l’intera superficie terrestre nel parcheggio di un supermercato, o nella succursale dello slum di Kibera, o ancora di un incubo da geometri scopiazzato da certi quartieri asiatici da diecimila anime l’ettaro. Urbanizzazione planetaria significa, detto molto terra terra, cominciare a fare un po’ come ci insegnano quegli uccelli migratori diventati stanziali, ovvero cambiare abitudini, prima di tutto abitudini di pensiero: cosa significa urbanizzarsi? Sono stili di vita, aspettative, sensibilità, prima fra tutte quella di un rapporto diverso fra natura e artificio, o se vogliamo fra città e campagna.
Un esempio piccolo piccolo a titolo personale
I cani mi sono molto simpatici, anche se non mi posso classificare tra i sedicenti «amici degli animali», nel senso che salvo una breve triste parentesi infantile non ho mai posseduto cani. Ma non ho mai negato amicizia e rispetto a quelli di «proprietà» altrui, conosciuti o sconosciuti che fossero, del tipo che ti ronza attorno curioso quando stai su un divano o su una panchina ai giardinetti. Non avendo nulla contro l’intrattenermi con le simpatiche creature, un pochino ne riconosco i tic e le abitudini, pur non essendo affatto cultore o esperto in materia. Credo che questo mi abbia risparmiato diversi fastidi in varie situazioni, come l’ultima di pochi giorni fa che riassumo molto brevemente. Attraversando in bicicletta una delle ultime propaggini settentrionali del Parco Agricolo Sud Milano, lungo un percorso che consente come in molti altri casi di evitare le strade trafficate (nelle vicinanze c’è un grosso svincolo della famigerata Bre.Be.Mi.) mi è capitato di attraversare un complesso di edifici rurali. Improvvisamente, da uno dei campi circostanti ho sentito abbaiare, e in men che non si dica sono stato circondato da quattro cani da pastore tipo Collie, taglia media, tutti ringhianti, che non mi mollavano un istante, a pochi centimetri dalle mie gambe e con qualche accenno mimato di attacco. Cose successe altre volte, e stavolta per fortuna niente abiti strappati, o ferite ai polpacci di cui doversi preoccupare, o furiose litigate con l’imbecille che li aveva lasciati in giro così, e che tra parentesi non si vedeva da nessuna parte. Ma, come con gli uccelli migratori, anche con questi cani diffidenti e un po’ aggressivi ci sono osservazioni da fare, e conclusioni da tirare.
Qualche considerazione finale sui cani, l’agricoltura, l’urbanizzazione
Come avrà già capito chi ha qualche piccola esperienza del genere, quei cani altro non facevano che il loro mestiere: non è nel loro istinto capire la differenza tra una strada di pubblico passaggio che taglia il complesso rurale che considerano proprio territorio, e il cortile-aia di una cascina tradizionale con portone, quelle a pianta chiusa a cui di norma la poderale gira attorno. Ed era apparentemente ovvio che avessero la stessa reazione che hanno quei cani da giardino quando passiamo rasenti alla siepe che lo separa dal marciapiede: sottolineare in tutti i modi che ci si sta avvicinando al sacro confine della patria, o addirittura che lo si è già superato. Ma siamo, come si diceva sopra, ormai in regime di urbanizzazione planetaria anche dei quadrupedi, specie di quelli anagraficamente residenti in posti che «campagna» lo sono soltanto fisicamente, perché ci si mungono delle vacche, ci sono dei campi, c’è la folkloristica puzza di letame. Per il resto, se il tizio padrone dei botoli si fosse fatto vedere, probabilmente avrei scoperto che è un normalissimo cittadino che va al cinema, non si veste certo da protagonista di un quadro di Millet, e magari preferisce di gran lunga il sushi a polenta e funghi. Ovvero, da ogni punto di vista possibile quell’aia è l’equivalente di una piazza cittadina, e i quattro cani da pastore dovrebbero fare il santo piacere di imparare (con l’aiuto dell’appassionato di sushi ovviamente) a comportarsi correttamente. Unica distinzione, magari, che il bisognino a differenza dei colleghi in settori più asfaltati non lo devono raccogliere. Ma per il resto si aggiornino: l’hanno fatto gli uccelli migratori, i procioni, le volpi che ormai pare siano clienti fisse di MacDonald’s, non si capisce perché i Collie pezzati dalle parti della Bre.Be.Mi. abbiano l’esenzione. Se non lo fanno, una bella variante urbanistica a funzione residenziale, e si ritrovano a fare a botte con un centinaio di altri cani del vicinato di varie razze e dal carattere difficile, vogliamo che finisca così?