Una trentina d’anni fa, quando tutte le discussioni sul ruolo della bicicletta nel trasporto urbano erano in gran parte ancora di là da venire, il sindaco di una grande città si fece per ovvi motivi di immagine fotografare su una piccola pieghevole mentre si chinava a bere a una fontanella. La foto suscitò tra le altre cose lo scherno di un lettore di giornale, che scrisse alla rubrica lettere al direttore più o meno con questo tono: «Molto fortunato, il sindaco, a potersi abbeverare alla fontanella, perché probabilmente quando l’acqua avrà fatto il suo corso c’è il suo ufficio giusto lì sopra, dotato di comodo bagno personale. Mentre noi dobbiamo guardarci bene dal bere per strada, a rischio di dover soffrire poi per ore». A parte il tono un po’ polemico, quel cittadino offeso dalla foto del sindaco all’abbeveratoio poneva una questione che va anche ben oltre il nostro normale metabolismo e i suoi rapporti con lo spazio urbano. Perché la sparizione dei gabinetti pubblici, banalmente e malamente sostituiti dai servizi privati negli esercizi commerciali, è solo uno dei tanti aspetti che di solito riassumiamo coi termini monofunzionalità, o specializzazione, o segregazione o simili. E il ciclo dei rifiuti (dalle banali deiezioni umane in su) rappresenta molto bene e significativamente questa distorsione di usi: in un luogo si fa solo una e una sola cosa, per le altre è obbligatorio andare altrove.
Metabolismo schizofrenico
Certo, un isolato urbano, o anche un quartiere urbano, non è una capsula spaziale sparata in orbita, microcosmo di vita integrata dove tutto deve integrarsi perfettamente in sé, dato che il resto è alieno, nemico, per nulla collaborativo. Pare dunque ovvio che anche dal punto di vista dei rifiuti esista uno scambio con il contesto, anche ampio. Ma c’è modo e modo. Quello che pare più sbagliato, che fa decisamente a cazzotti con le chiacchiere formali della «sostenibilità» tanto predicata ma pochissimo razzolata, è usare un indefinito mondo esterno come discarica di tutto ciò che non interessa o non interessa più e risulta sgradito, così come si butta dalla finestra un peluzzo trovato sulla manica. La metafora iniziale del bagno, si applica ad esempio al condotto fognario, che nell’accezione originale si limita a «portare lontano» gli scarichi, e in scarichi analoghi finisce anche l’acqua che abbiamo intriso di tutte le nostre porcherie, prime fra tutte le varie sostanze sputacchiate dai motori delle nostre automobili quando arriva la pioggia a ripulire il cielo, i parcheggi, i marciapiedi. Ma lo stesso accade per tantissime altre cose, dai rifiuti organici dei pasti consumati dai residenti urbani, o da quei residenti parti time che sono gli impiegati degli uffici che in città lavorano ma non hanno casa, e dopo l’orario d’ufficio vengono «espulsi» lungo il condotto fognario autostradale verso la «discarica umana» del suburbio. Chiaro il concetto di monofunzionalità perversa?
Riequilibrio graduale
Non è un caso se l’ultimo esempio di rifiuto, i pendolari-lavoratori scaricati come tali a sera, tocca la sfera sociale anziché quella propriamente ambientale. Perché esiste proprio una cosa scientificamente denominata «giustizia ambientale» e che ha caratteri prevalentemente politico-sociali: è da qui che può partire una battaglia non moralistica o dogmatica contro la monofunzionalità insostenibile. Ingiustizia ambientale è quando una zona dove già impropriamente per motivi «di mercato» si concentra una fascia di reddito basso, viene ulteriormente penalizzata dall’uso come discarica. Discarica sia in senso letterale e proprio che in senso un po’ più metaforico, perché in certi settori urbani o suburbani popolari finiscono per localizzarsi tutti i cosiddetti L.U.L.U. o Locally Unwanted Land Uses, quello che non vorremmo mai sulla porta di casa. Dal deposito di immondizia, alla centrale termica, alla sala giochi con parcheggio attorno alla quale ciondolano orde di sfigati ludopatici, all’accoppiata curiosamente perversa tra locali di strip-tease e officine di riparazione auto con ampio deposito rottami. E la domanda suona: ma perché invece di scaricare in un generico «fuori» le cose, non proviamo ad affrontare i problemi in loco, magari toccandone con mano gli impatti e/o minimizzandoli? Anche le schifezze hanno una loro dimensione da chilometro zero che merita di essere adeguatamente considerata, come ha fatto per esempio nel suo molto piccolo l’amministrazione De Blasio a New York nell’esempio linkato. Piccola cosa, ma l’idea è da seguire.
Riferimenti:
Miriam Axel-Lute, Rich Neighborhood in NYC Actually Gets a “Noxious” Use, Rooflines, 11 gennaio 2016