Il contadino custode della natura (1939)

Conservazione vuol dire armonia tra l’uomo e la terra. Quando la terra vuol bene all’uomo e l’uomo vuol bene alla sua terra, quando entrambi traggono da questo rapporto le basi di una esistenza migliore, si ha conservazione. Non quando l’una o l’altra parte si impoverisce. Sono poche le parti degli Stati Uniti che non si siano impoverite per lo sfruttamento umano. Se qualcuno costruisse una mappa continentale di fertilità dei terreni arricchita o impoverita, del flusso delle acque, della flora e della fauna, sarebbe difficile individuare le poche situazioni in cui almeno tre di queste componenti non siano arretrate; facilissimo invece trovarne dove tutte e quattro risultano più povere di quando le prendemmo agli Indiani. Guardando la cosa dal punto di vista dei proprietari, sarebbe corretto affermare che l’impoverimento della terra ne ha rovinati tanti quanti ne ha arricchiti.

È abitudine corrente confondere i dati considerando la scomparsa di flora e fauna come inevitabile, ed eliminandola così dal calcolo del bilancio. L’azienda agricola con terreno fertile produttivo si considera un successo anche se ha perduto gran parte delle piante e degli animali nativi. Un approccio di conservazione non può che contestare un bilancio del genere. Certo era necessario eliminare alcune specie, modificare anche radicalmente la distribuzione di altre. Ma resta il fatto che in media la circoscrizione rurale americana ha perduto per pura indifferenza una quota di piante e animali pari a quante ne ha eliminate per autentica necessità.

Ma qual è il tipo di azione con cui l’uomo distrugge la terra? Il tipo di cose che rendono possibile quella classica citazione del fattore che recita: «Non parlatemi di agricoltura, ho già esaurito tre poderi e sono già al quarto». Gran parte degli studiosi descrivono proprio un processo di esaurimento graduale. La terra, affermano, è come un conto in banca: se si inizia a spendere oltre gli interessi allora si intacca il capitale. Quando Van Hise dice «Conservazione è un uso saggio» credo intenda un uso parsimonioso. Certo conservazione è parsimonia, ma c’è qualcosa d’altro. Mi sembra che molte risorse del territorio, se usate, si sbilancino sino a scomparire o deteriorarsi molto prima di esaurirsi in senso proprio.

Pensiamo ad esempio al tipo di colture che producono erosione nella fascia del granturco. Quando i nostri avi iniziarono ad arare quelle terre si scioglievano forse ad ogni temporale o si congelavano ad ogni brinata? O per qualunque solco tracciato nella direzione sbagliata? Certo che no. Quei suoli appena dissodati erano solidi, resistenti, elastici alla lavorazione. Ma lavorazioni che erano assolutamente sicure nel 1840 sarebbero un suicidio nel 1940. La fertilità nel 1840 non si risciacquava via nel fosso più rapidamente di quanto non si assorba dentro le piante. Qualcosa è andato storto. Potremmo dire che il nostro conto corrente nella banca del suolo sta andando in rosso, e la cosa è assai più importante della quantità di interesse da cui abbiamo prelevato.

Pensiamo ai boschi settentrionali: abbiamo tagliato tutti i pini che ricoprivano gli stati dei grandi laghi per farci delle capanne di tronchi? No. Dopo che ci avevamo aperto ampi varchi si è tracciato un percorso perché gli incendi devastassero quei boschi. E il fuoco impedisce la ricrescita e la riproduzione. Molto più efficacemente di qualunque boscaiolo di cui segue l’opera, distruggendo non solo il legname ma anche il suolo e i semi. Se avessimo potuto conservare suolo e semi oggi ci sarebbe una nuova generazione di pinete da attingere, che quelle vergini originali le avessimo tagliate troppo in fretta o no. Il vero danno non viene dall’eccessivo sfruttamento ma dall’aver svuotato quel conto corrente alla banca del suolo. Altro esempio ancora più chiaro è quello delle alberature nelle zone coltivate. Lasciando che ci vadano gli animali al pascolo i coltivatori di mais impediscono la ricrescita e stanno eliminando totalmente i boschi dalle zone agricole. Flora e fauna spontanee delle medesime zone ovviamente erano già scomparse già prima della scomparsa degli alberi. Certo anche un prelievo eccessivo di resa-interesse dal conto in banca degli alberi in zona agricola è cosa grave, ma un nonnulla se lo paragoniamo al distruggere la stessa possibilità dei boschi di riprodurre nuovo interesse. Un modo davvero folle di uso, questo del distruggere le risorse invece di sfruttarle.

Per quanto riguarda la fauna le perdite da distruzione di tutti i meccanismi naturali superano di molto, sospetto, quelle da sovra-sfruttamento. Consideriamo ciò che si chiama comunemente «il ciclo» e che elimina negli stati settentrionali ogni genere di fagiani e conigli ogni sette anni. Sono mai state in natura cicliche queste specie? Lo credevo anch’io, ma oggi ne dubito. Ritengo che i cicli distruggano la popolazione animale e che vengano indotti da un abuso del territorio. Ma noi non sappiamo esattamente perché dato che non conosciamo esattamente cosa sia un «ciclo». Nell’estremo nord i cicli della fauna sono probabilmente naturali e autoindotti, li rileviamo nella natura selvaggia e incontaminata, ma più a sud non credo sia affatto così: sospetto che si stiano diffondendo: sia geograficamente che nelle quantità di fauna coinvolta.

Pensiamo a cosa significa la crescente dipendenza della acque di pesca dal ripopolamento artificiale. Una grande parte di questo indebolimento ha a che vedere con lo squilibrio nella qualità delle acque determinato da erosione e inquinamento. Centinaia di corsi d’acqua meridionali dove si pesca la trota un tempo la riproducevano naturalmente ma oggi scendono a precipizio la scala della riproduttività a un solo tipo di pesco introdotto artificialmente, lasciando infine spazio alla carpa. Diminuisce il pesce d’acqua dolce e cresce l’erosione, ma entrambi sono espressione di un unico degrado: non si tratta di esaurimento ma di vera e propria scomparsa di una risorsa. Pensiamo ai cervi. Quelli non si esauriscono anzi ce ne sono forse troppi. Ma come sanno bene i boscaioli i cervi in tante situazioni stanno sterminando le stesse piante da cui dovrebbero dipendere per l’alimentazione invernale. Alcune di queste piante come il cedro bianco sono importanti per il bosco. I cervi non le distruggono. C’è qualcosa fuori equilibrio. Forse l’errore è stato di sterminare i lupi, nemici naturali che agivano come una sorta di termostato chiudendo se necessario il rubinetto che alimentava la risorsa cervi, so di mandrie di cervi in Messico che rimangono costantemente in equilibrio proprio grazie alla presenza di lupi e puma, cervi ce ne rimangono sempre in abbondanza ma mai troppi. Fauna e territorio si integrano, come accadeva coi bufali nella prateria. Conservazione quindi è mantenere le risorse operative, oltre che prevenire il sovra-sfruttamento. Le risorse si possono anche sbilanciare prima di esaurirsi, talvolta diventano sovrabbondanti. Conservazione, quindi, è un approccio cauto intelligente e informato, non certo solo negativo di cautela nel prelievo.

Cosa intendiamo con capacità e conoscenza nell’uso delle risorse? Viviamo un’epoca di ingegneria. E per questo non intendo tanto dighe o aeroplani ma piuttosto quel giovane campagnolo che usa il trattore o la radio. Le persone sono sorprendentemente curiose quando si tratta di meccanismi, amano capirne il funzionamento la cura l’uso la manutenzione. Un amore della meccanica e della tecnica che, anche espresso dentro una tuta macchiata di grasso, è espressione di pura intelligenza, un segno dei nostri tempi. Lo sappiamo tutti, ma pochi capiscono quanto il medesimo atteggiamento dovrebbe riguardare egualmente anche i meccanismi naturali, pensando alle future generazioni.

Cento anni fa nessuno si sarebbe mai sognato che metalli aria petrolio ed elettricità potessero agire insieme in moto coordinato creando un motore. Pochi oggi comprendono quanto suolo, acqua, piante e animali costituiscano un motore, un motore che come qualunque altro potrebbe gripparsi. Le nostre abilità che oggi si rivolgono ai motori meccanici non nascono dalla paura, se fosse così non funzionerebbero. Derivano invece dalla curiosità e dall’orgoglio della scoperta. Non è mai stata la prudenza ad accendere la scintilla della mente umana, e non credo in una conservazione nata sulla paura. Un bambino di quattro anni che si incuriosisce perché i pini rossi hanno bisogno di più acido di quelli bianchi si avvicina alla conservazione meglio di chi scrive qualificati saggi sui pericoli della scarsità di legname. Questa capacità di capire, da vivace vitale curiosità sul funzionamento dei meccanismi biologici, ci insegna qualcosa a proposito delle politiche di conservazione agricola. Ne stiamo sperimentando di due tipi, la formazione e i sussidi. Insegnamento obbligatorio della conservazione nelle scuole, i progetti di conservazione per i più piccoli, i corsi forestali sono esempi di formazione. La legge sulla tassa per i boschi in zone agricole, i vivai statali e gli allevamenti di fauna selvatica, il programma di controllo delle colture e quello sulla conservazione dei suoli sono esempi di sussidi.

Ecco la mia opinione: questi sostegni pubblici a un migliore uso privato del territorio otterranno qualche risultato solo se il coltivatore li somma a ciò che ho chiamato conoscenze-capacità. Solo chi ha piantato un boschetto di conifere con le sue mani o ha realizzato un terrazzamento o cercato di selezionare razze migliori di uccelli capisce quanto sia facile fallire l’obiettivo, solo perché si è seguito meccanicamente qualche metodo senza capirlo davvero. Sussidi e propaganda possono anche provocare certi comportamenti nel coltivatore, ma solo l’entusiasmo e l’impegno riusciranno ad attivare le sue conoscenze ed esperienze. Serve qualcosa di più di una semplice «esca» insomma per innescare la conservazione. Possono riuscirci le scuole con l’insegnamento? Certo lo spero, ma ne dubito, a meno che il giovane allievo non ci porti anche qualcosa appreso in casa. Vale a dire che insegnare conservazione è un po’ come instituire orfanotrofi intellettuali, una sorta di sostegno. Arriviamo così a chiudere un cerchio. Volevamo qualcosa di nuovo, abbiamo chiesto alla scuola e al governo un aiuto ma invece eccoci davanti alla soglia del coltivatore.

Sono certo che esista del vero nella conclusione secondo cui per un migliore uso del suolo il requisito essenziale è il fattore umano. Sono però meno sicuro a proposito di tante incerte questioni di economia della conservazione. Può un coltivatore permettersi di destinare superfici di terreno a boschi laghetti acquitrini filari spartivento? Si tratta di cose in realtà semi-economiche, utili ma non con un diretto vantaggio economico. Può un coltivatore permettersi di lasciar spazio ai roveti dove nidificano gli uccelli, a lasciare alberi secchi al sollazzo di procioni e scoiattoli volanti? Qui l’utilità pratica si assottiglia davvero sino a lasciare solo ciò che i chimici definiscono una «scia». Può un coltivatore permettersi di destinare terreno a cespugli di qualche particolare fioritura o residui di ecologia della prateria o a un particolare paesaggio? Utilità pratica ridotta a zero qui. Eppure tutto significa conservazione.

Esiste una intera letteratura scientifica pubblicata e in corso di pubblicazione a proposito dei dividendi economici che paga la conservazione. E non sono in grado di aggiungere nulla da questo punto di vista. Mi pare però che manchi sempre qualcosa. Mi sembra che l’insieme del paesaggio rurale, così come avviene col nostro corpo umano, abbia (o per lo meno dovrebbe avere) in sé una certa organicità complessiva. Nessuno si sognerebbe mai di censurare chi ha perduto una gamba in un incidente o è nato con solo quattro dita, ma senza dubbio siamo portati a diffidare spontaneamente di chi si amputasse di propria volontà di qualcosa convinto di trarne profitto e che tanto gli resta qualcos’altro. Un paragone certo esagerato se pensiamo a quante amputazioni si devono fare di laghetti boschi paludi per rendere un territorio vivibile, ma eliminare ogni elemento naturale dall’ambiente rurale mi pare un’azione violenta che nessun giudizio storico potrà mai giustificare, né dal punto di vista della conservazione, né da quello del buon gusto, né da quello della buona agricoltura.

Pensiamo a una sola cosa, al caratteristico laghetto che stava in qualunque fattoria. L’ancestrale Re dei Ghiacci ne scavava a centinaia spargendoli per tutto il territorio del Wisconsin. E noi li abbiamo prosciugati uno dopo l’altro. Se non ci credete date semplicemente un’occhiata a una vecchia carta topografica del vostro territorio; nel 1840 il rilevatore mappava corpi idrici là dove nel 1940 si invoca la pioggia. Nella mia fattoria ne ho uno non prosciugato di questi laghetti. Dovreste vederci le famiglie che arrivano ogni domenica, da nonno al nipotino, tutti a coltivare il passatempo preferito e la pianta acquatica che arriva all’altezza a cui entrano fino alla vita. Tante famiglie contadine un tempo ne avevano uno loro di laghetto. Se qualche promotore di prosciugamenti non avesse venduto loro un po’ di piastrelle o una pala meccanica in comproprietà o qualche altro segno di effimera ricchezza, molti avrebbero ancora le proprie ninfee, i persici da pescare, un posto per fare il bagno, gli insetti che sciamano sui fiori ad annunciare la primavera.

Fossimo in Germania o in Danimarca, dove tanta gente sta su poca terra, potrebbe apparire quasi ozioso sognare lussi del genere per famiglie contadine che hanno ben altre necessità. Ma noi di terra da arare ne abbiamo tanta più del necessario, una consapevolezza tanto unanime da farci spendere milioni di dollari pubblici a causa della sovra-produzione dei campi da smaltire. Di fronte a tali eccessi, nessuna persona ragionevole può affermare che sia l’economia a impedirci di vivere la vita, oltre che guadagnarcela, sui campi. Talvolta mi viene da pensare che anche le idee come gli uomini possano imporre una sorta di dittatura. Possibile che noi americani sempre in fuga dal potere finiamo per farci irregimentare dalle nostre stesse idee? Non credo esista al giorno d’oggi forma di irreggimentazione più totale della mente umana di quella auto-imposta dello spietato utilitarismo. Ci salva per fortuna il merito della democrazia facendo sì che possiamo a piacere metterci il cappio al collo ma anche toglierlo prima di farci troppo male. E la conservazione è forse uno dei principali strumenti di salvifica auto-liberazione.

Il principio di complessità del paesaggio agrario implica, credo, qualcosa di più del concedersi alcuni lussi nello sfruttamento del suolo. Immaginiamoci di ragionare guardando le cose da un aeroplano, e cercando di ricostruire ciò che stiamo effettivamente pasticciando su campi boschi terreni e acque. Parliamo di conservazione pubblica su una scala enorme. Il governo sta lentamente ma costantemente provando a ricostruire bosco là dove c’era solo taglio del bosco; acquitrino e palude là dove c’era solo estrazione di sabbia e ghiaia. Così deve essere. Ma tra la vacca che pascola nel ciuffo di alberi, ben assistita da qualche colpo di ascia, la depressione, l’invasione di qualche parassita e la siccità, finiremo per fare di tante campagne una steppa agricola senza più nessuna pianta. C’è stata un’epoca in cui appena finiti gli incendi della prateria gli alberi del Wisconsin meridionale iniziavano a ricrescere assai più rapidamente di quanto i coloni riuscissero ad abbatterli. Un’epoca che appartiene al passato. Nel giro di una generazione tanti territori diventeranno identici, per ciò che riguarda gli alberi, all’Ucraina o alle zone di cereali del Canada. Ovunque è diventata visibile questa tendenza a destinare enormi regioni a un tipo solo di uso del suolo.

Ciò dipende dalla totale delega della conservazione al governo. Un governo non può certo controllare e gestire piccole superfici né buona terra. Espresso in quantità di ettari occupati o in cubature di prodotto il concentrare in un solo posto i boschi da legname si chiama piano forestale: ma si tratta di conservazione? Come useremo i boschi a tutela di pendii vulnerabili o di sponde dai rischio di erosione quando tutto il legname si produce a nord dove di erosione non ce n’è affatto? Come proteggeremo la fauna dove la vegetazione di riferimento per abitare sta in un territorio e quella da mangiare in un altro? Come faremo spartivento se là dove ci sono i boschi non c’è vento e invece questo soffia tutto sui campi coltivati? E che tempo libero è quello in cui ci vuole una settimana anziché un’ora per andare sotto un pino? La conservazione implica un certo grado di sparpagliamento nell’organizzazione generale di un tessuto territoriale.

Un tessuto la cui trama probabilmente non può essere intrecciata da un governo. È il singolo coltivatore che ci deve pensare a tessere questo tappeto che fa da pavimento all’America. Ci intrecceremo solo i sobri fili che ci scaldano i piedi o ci aggiungeremo anche quei colori che scaldano lo sguardo e il cuore? Certo resta aperta la questione di cosa renda di più individualmente ma anche quella di cosa sia meglio per la collettività. Ovvero: il singolo coltivatore è in grado di dedicare il suo privato terreno a usi che avvantaggiano la comunità anche quando non siano di immediato profitto per sé? Non rispondiamo troppo frettolosamente di no.

Penso per esempio ai filari frangivento alle barriere dei sempreverdi alla neve che si vedono spuntare a centinaia nell’inverno. Parte di queste piantagioni vengono sussidiate con risorse stradali, ma in tanti altri casi solo dalla produzione dei vivai. Quindi c’è un terreno privato destinato a scopi collettivi, lavoro privato per scopi pubblici. Certo i frangivento non servono a molto finché non sono in tanti i coltivatori a installarli per tutta la campagna. Ma si tratta di un «bene» surplus indivisibile il cui valore non si calcola in dollari ma in fertilità, tranquillità, comodità, sensazione di qualcosa che è vivo e cresce. C’è da compiacersi quando si vedono tanti coltivatori farlo, suggerisce uno spunto di conservazione. Si potrebbe addirittura arrivare a pensare per un istante che piantare questi frangivento costituisca un atteggiamento speculare a quello di chi li ha strappati cancellando l’ambiente originario di tanti vasti territori. E in entrambi i casi si tratta di pratiche insegnate nelle scuole di settore: hanno cambiato idea le scuole? Oppure un frangivento di agrumi corrisponde a un’economia diversa da quella di un frangivento di conifere?

Esiste un altro tipo di community planting in cui non si piantano alberi ma idee. Per descriverlo vorrei provare a piantare qualche pensiero su un cespuglio. Si chiama betulla nana e l’ho scelta perché è modesta poco invadente poco interessante. Potete anche averne vicino a casa senza averle mai notate, non fanno fiori riconoscibili né frutti che attirano animali o uccelli. Non cresce neppure sino a diventare un albero che si sfrutta come tale. Non fa né bene né male, neanche coi colori autunnali che non ha. Ma con questa sua perfetta non-esistenza nel bosco rappresenta davvero una non-entità biologica? Ricordo quando stavo inseguendo un cervo e le tracce portavano da una betulla nana all’altra, da cui lui brucava per sopravvivere e se ne vedevano le tracce, mentre non ce n’erano su altri cespugli. Una volta ho visto durante una tempesta di neve uno stormo di quaglie che non trovando il becchime abituale mangiava quei germogli. Ed erano decisamente grassottelle.

La scorsa estate è venuto da un botanico dell’Arboreto Universitario allarmatissimo. Secondo loro il sottobosco stava soffocando le orchidee della zona umida nell’Arboreto: potevo chiedere al nostro servizio di provvedere a ripulire? Andando a verificare sul terreno ho scoperto che quel sottobosco colpevole era composto di betulle nane, che fino a due anni prima venivano regolarmente rasate dai conigli. Ma tra il 1936 e il 1937 quei conigli non avevano brucato lasciandole crescere sino a gettare l’ombra fitta sulle orchidee. Perché? Era per via del ciclo che non c’erano stati conigli tra il 1936 e il 1937. Lo scorso inverno del 1938 i conigli hanno ripreso a mangiare quelle betulle nane. Quindi la nostra non-entità vegetale dopo tutto ha una sua importanza. Fa la differenza tra la vita e la morte per cervi, quaglie, conigli, orchidee. Se, come ritengono alcuni, i cicli sono determinati dalle macchie solari, potremmo addirittura considerare la betulla nana una specie di araldo del nostro sistema solare, che regola la riproduzione del conigli e fa sì che l’orchidea possa ritrovare il suo posto al sole.

Si tratta solo di una delle centinaia e centinaia di creature che un coltivatore vede, su cui inciampa, ogni santo giorno. Ci sono 350 specie di uccelli, novanta di mammiferi, 150 pesci, settanta di rettili e anfibi, e un numero infinitamente maggiore di piante e insetti, tutti nativi del Wisconsin. E qualunque Stato ha una composizione simile diversificata di flora e fauna. Scartando tutte le specie troppo piccole o appartate per essere correntemente visibili ce ne restano comunque almeno 500 le cui esistenze dovremmo conoscere e invece ignoriamo. Io ho semplicemente tradotto in una piccola drammatizzazione quella di una sola di e queste specie, ma ciascuna delle 500 vive la propria esistenza sul palcoscenico della campagna. Il coltivatore passeggia tra i protagonisti nelle sue incombenze quotidiane ma non nota il dispiegarsi della trama ignorandone il linguaggio, e anch’io lo ignoro, salvo cogliere qualche battuta qui e là. Potremmo arricchire la vita della campagna se il coltivatore capisse meglio quel linguaggio?

Una delle convinzioni auto-imposte che dovremmo scrollarci di dosso è la falsa idea secondo cui la vita di campagna sia noiosa. Cosa ci vogliono comunicare le opere di John Steuart Curry, Grant Wood, Thomas Benton? Ci mostrano il dramma rappresentato dal granaio dal silo sulla collina dall’emporio al crocevia che si stagliano scuri sul cielo al tramonto. Io vorrei aggiungere che esiste anche la rappresentazione drammatico teatrale in qualunque cespuglio, e più riusciamo a vederla e capirla, a non considerarla con indifferenza, tanto più capiremo cosa significa la salute del bosco del sottobosco del suolo degli alberi. Non c’è neppure bisogno della parola Conservazione quando la si pratica spontaneamente. Il paesaggio di qualunque podere è il ritratto stesso del coltivatore. Conservazione è auto-espressione nel paesaggio, anziché cieco adeguamento al dogma economico. Che tipo di auto espressione sarà possibile in futuro nel paesaggio di una monocoltura di granturco? Cosa vuol dire conservazione se spostiamo il concetto dalle sale dei convegni ai campi e ai boschi?

Cominciamo dal ruscello: non sarà da modificare. Il coltivatore del futuro non mutilerà il suo corso d’acqua più di quanto non sfigurerà il suo viso. E se l’ha ereditato già ridotto a canale dritto lo «spiegherà» all’eventuale visitatore come si fa con le guance butterate o la gamba di legno. Le sponde del torrente sono boscose e non ci si pascola. Tra gli alberi predominano quelli giovani dritti da legname, ma non mancano anche dei veterani con cavità da rami caduti dove fanno il nido le civette o gli scoiattoli, mentre fra quei rami caduti a terra si trovano procioni e altri animaletti pelosi. Sul margine del bosco lontani uno dall’altro frassini, o noci coi frutti da raccogliere. Nel bosco del torrente si può trovare un po’ di tutto: legname da scortecciare, per farci dei paletti, travi, sbarramenti sull’acqua, e poi vari frutti fiori animali.

Se non si sentono i caratteristici versi delle civette, se non ci si trovano in abbondanza quaglie, garofani selvatici, se non ci si può praticare la caccia al procione quando è il tempo, ci sarebbero tutte le ragioni di orgoglio familiare ferito e attenzione come quando si scopre il rosso in banca. Il visitatore portato a vedere il bosco spesso chiede: «Ma le civette non rubano i polli?». Il nostro coltivatore lo sa che ci sono sempre domande del genere, e a titolo di risposta va a raccogliere una delle palline di feci che lasciano cadere le civette dal nido ai piedi di una quercia. E mostra al visitatore qualche resto di pelo di topo o di coniglio, o di cranio spolpato della preda dell’uccello: «Si vedono dei polli?» chiede. E spiega quanto invece le civette siano utili, non solo per ammazzare i topi ma anche per presidiare il territorio contro altre civette che potrebbero attaccare il pollaio. Al massimo possono mangiare qualche quaglia, un po’ di conigli, ma quelli glie li possiamo anche concedere.

Campi e pascoli della fattoria, come succede in tutte le famiglie ai figli e figlie, sono un po’ una mescolanza di caratteri originari selvatici e addomesticati, ma tutti stabilizzati in buona salute: la salute dei campi è la loro fertilità. Sulla parete del soggiorno, là dove ai tempi della prima colonizzazione stava il ricamo «Dio Benedica Questa Casa», oggi c’è una carta di analisi del suolo. Il contadino è fiero di tutti quei valori alti, di non dover controllare sbarramenti o spianamenti, perché non ne ha affatto bisogno. Racconta con affetto del suo vicino che ha la sfortuna di avere la proprietà attraversata da un canale e ha dovuto chiamare il genio civile. E hanno dovuto farci degli sbarramenti, dighe segno di pessima gestione del territorio come una stampella per il genere umano. Nella nostra azienda invece a separare i campi ci sono strisce a bosco, un felice equilibrio tra quanto si guadagna in vita vegetale e animale e quanto si perde in superficie arabile. Le strisce a bosco non devono essere mantenute ogni anno ma neppure lasciare crescere indefinitamente. Oltre ad arricchire il paesaggio e a far cantare gli uccellini, a darci quaglie e fagiani, sono fiorite producono more, nocciole, prugne, qui e là qualche frassino. Le recinzioni elettrificate servono solo per chiusure temporanee ed eccezionali.

Sparse per il territorio dell’azienda stanno querce storiche di cui vantarsi e da curare con attenzione e competenza. Quella andata perduta per colpa di un parassita la si ricorda come lezione di un errore da non ripetere. Ogni contadino ha idee proprie sull’età delle querce e sul ruolo nella storia locale. C’è un grosso dibattito nella zona su chi possieda gli esemplari risalenti ai più antichi periodi di colonizzazione, se quella grossa cicatrice sulla corteccia alla base di un albero sia stata causata da un incendio della prateria o dal mucchio di rifiuti di un pioniere. Tante altre cose arricchiscono la fattoria, come il vecchio frutteto dove vanno a mangiare le mele soprattutto gli uccelli che ci abitano. L’elenco di uccelli di una fattoria come la nostra comprende 160 specie. Un vicino dice della sua 165 ma forse sta abbozzando. Se ha prosciugato il laghetto come fa ad avere più specie di uccelli?

Mentre il nostro laghetto è l’orgoglio di famiglia. Il bestiame ci si può abbeverare solo in un angolo: il resto delle sponde è destinato alle papere gallinelle tordi o topi muschiati. La scorsa primavera con una attenta offerta di cibo e richiami sono state indotte a fermarsi per un mese duecento anatre. In agosto ci sono gli yellow-leg a zampettare dentro il fango della sponda. A settembre il laghetto fiorisce di ninfee. D’inverno ci pattinano i più giovani e ci si può guadagnare qualche spicciolo con le pelli di topo muschiato. Ci si ricorda ancora di quando un imprenditore provò a parlare di prosciugarlo. Non erano più di moda i laghetti della fattoria e anche la Scuola Agricola pareva propensa a guadagnarsi un po’ più di superficie da coltivare invece di quell’acqua. Ma poi con la siccità degli anni ’30 quando i pozzi si disseccavano tutti abbiamo imparato quanto l’acqua come le strade o le scuole fosse un bene comune. Non puoi forzarla via con la corrente senza danneggiare il ruscello, i tuoi vicini, e te stesso.

Il ciglio della strada che passa dal podere è la casa rifugio per la vegetazione della prateria, una specie di piccolo museo didattico dove si conservano terreno e piante dell’epoca precedente la colonizzazione. Se un professore della Scuola Agricola vuole raccogliere un campione di suolo vergine sa dove andare. Per mantenere la fascia stradale laterale in quella situazione la si ripulisce ogni anno, incendiandola e mai falciandola o potando. Il contadino racconta una storiella divertente di un ingegnere stradale che aveva cominciato a riorganizzare e lavorare tecnicamente su quella striscia a verde. Il poveretto nonostante tutti i suoi studi superiori non aveva mai imparato la differenza tra un Silphium e un girasole. Era espertissimo delle sue formule tecniche ma ignorava ogni cosa delle associazioni vegetali. Non riusciva a capire che eliminando quello strato residuo del terreno di coltura della prateria avrebbe trasformato l’intero ciglio stradale in una bruttura di erbacce.

Nel prato di trifoglio davanti alla strada c’è un masso di granito rosa di era glaciale. Ogni anno quando la docente di geologia porta la sua classe a dargli un’occhiata il contadino ricorda quando durante le vacanze ne staccò un pezzo da trasportare a casa dei parenti trecento chilometri più a nord. Ed è solo l’inizio di una piccola conferenza sui ghiacciai e la loro eredità, che comprende oltre a quella roccia anche il laghetto, e l’altra pozza dove nidificano cigni e il martin pescatore. Racconta ancora il contadino di quando un venditore di esplosivi chiese se poteva far saltare in aria quel masso «a dimostrazione dei metodi moderni» e non c’è alcun bisogno di spiegare la piccola battuta ai ragazzi. Ha un sacco di ricordi questo contadino. Fallo iniziare a parlare e ascolterai un sacco di curiosità di storia rurale. Potrebbe rievocare il folle decennio in cui si insegnava economia sin dalle elementari e il preside però non riusciva a distinguere una gallina da un fagiano. Tutti pensavano al proprio vantaggio e nessuno al proprio contributo. Un’intera azienda che franava dentro il fiume recuperata a spese proprie dal vicino. Colture introdotte artificialmente che producevano in eccesso e nessuno che trovava spazio per le piante locai: «Beh è davvero un miracolo che la mia azienda non sia ridotta a un vivaio di aceri giapponesi attraversato da un canale di cemento». Un modo come un altro per raccontare le origini della conservazione.

da: American Forests, giugno 1939, Vol. 45 n. 6; Titolo originale: The Farmer as a Conservationist – Traduzione di Fabrizio Bottini
Immagini: U.S. Forest Service, Soil Erosion, 1934
Vedi anche: «
Torniamo alla Terra per darle il Colpo di Grazia», Today 9 gennaio 2023 

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